Se i tatticismi opportunistici dell’ultim’ora non prevarranno, se il Rosatellum non l’avrà vinta sull’onda anche emotiva di queste ore bollenti, immediatamente successive alla grande frattura tra PD e Cinquestelle nel dopo-Draghi, allora è pensabile che la riduzione della frammentazione politica in vista del voto del 25 settembre possa condurre alla formazione di coalizioni abbastanza omogenee. Sia in termini di vicinanza istituzionale, sia in quelli di condivisione minima di programmi e proposte che possono trovare sintesi in comuni denominatori.

La data storica di questo nuovo sconvolgimento tellurico della politica italiana rimarrà, almeno per il momento, il 20 luglio scorso. Nulla sarà più come prima e, soprattutto, nessun partito si somiglierà poi più di tanto rispetto a come si concepiva e vedeva in una proiezione temporale – elettorale che avrebbe dovuto portarci alle urne nella primavera del 2023.

L’accelerazione della crisi di governo ha scompaginato qualunque ipotesi: ha fatto implodere non solo l’esecutivo dell’ex Presidente della BCE, ma ha creato le condizioni di una tempesta perfetta per il centrodestra, che infatti si sta ricompattando cancellando la frapposizione tra sostenitori o meno del draghismo.

Di più ancora, mentre Forza Italia subisce tutti gli abbandoni del caso, da parte dei suoi esponenti storici meno legati all’idea della vicinanza al sovranismo salviniano, il centrismo variegato all’amarezza del liberismo moderno, formato dagli eredi del PSI, da Bonino, Calenda, Renzi, Toti e Di Maio, fa le prove in vista di un probabile dialogo con un PD che rischia, altrimenti, di fare una corsa quasi solitaria nelle urne.

Repetita iuvant: se la fine del “campo largo” evocato da Letta sarà definitiva e non vi saranno ripensamenti di sorta, i Cinquestelle dovranno pensare alla costruzione di un polo aggregante, al pari di tutte le altre forze politiche che ancora i sondaggi danno a due cifre, perché il Rosatellum quello prevede e spinge e a fare: costruire delle coalizioni che, a differenza delle singole liste, sono premiate tanto nella quota proporzionale quanto in quella maggioritaria nell’assegnazione dei seggi di un Parlamento, peraltro, dimezzato nella sua composizione.

Pur involontariamente, con tutta la fortuità del caso, lo scenario che si presenterebbe alla vigilia del voto potrebbe essere questo: il centrodestra di Berlusconi, Salvini e Meloni (con qualche manutengolo tipico e classico), il centro di neoformazione insieme al PD e, come terzo polo, i Cinquestelle insieme a Sinistra Italiana, Verdi e Unione popolare.

Una semplificazione del quadro politico italiano che, ad onor del vero, sarebbe quello meglio strutturato da tanto tempo a questa parte: da un lato le forze conservatrici e sovraniste, in mezzo quelle marcatamente liberiste, europeiste ed atlantiste e, infine, il progressismo imperfetto e claudicante, raffazzonato e bislacco, ma pur sempre il meglio che si può trovare su piazza al momento.

Anche la cosiddetta “leadership” potrebbe essere una nota di migliore comprensione della suddivisione politica in vista del voto e, questa volta, potrebbe permettere persino un ritorno ideologico dell’espressione dei consensi, scegliendo liberamente chi votare in base alle proprie convinzioni oltre che alle proprie convenienze immediate o al ricatto antidemocratico del “voto utile“: Berlusconi, Meloni, Salvini a destra, Calenda, Renzi, Toti, Bonino, Di Maio e Letta in un centro senza più sinistra con lo sguardo rivolto alla ormai tanto famosa “agenda Draghi“, Luigi de Magistris e Giuseppe Conte nel settore progressista.

Va da sé che, se questo fosse il quadro di riferimento della campagna elettorale che ci aspetta sotto il sole rovente degli oltre 40 gradi giornalieri di temperatura, ognuno potrebbe scegliere con una buona percentuale di libertà lo schieramento in cui meglio si ritrova, in cui si sente anche pienamente rappresentato.

Ma potrebbe anche non andare così, soprattutto a sinistra. Potrebbe accadere che si ricompatti l’asse tra PD e Cinquestelle e che Sinistra Italiana, Articolo 1 e Verdi si aggreghino al carrozzone di un centro che potrebbe, a quel punto, fregiarsi anche della seconda dicitura storica di “sinistra“. Ed allora il quarto polo che ne resterebbe fuori avrebbe il compito di testimoniare una alternativa a tutti questi schieramenti, lavorando in poche settimane ad una lista che potrebbe ambire all’onorevole risultato di oltrepassare la soglia del 3% per avere un minimo di diritto di tribuna nel prossimo Parlamento.

Sarebbe lo scenario meno coerente con la rottura dell’asse draghiano, con la divaricazione profonda tra PD e pentastellati che, almeno fino alle dichiarazioni odierne, si sta acuendo sempre di più dopo le esternazioni trancianti di Franceschini e di altri esponenti democratici che non possono permettersi di abdicare al ruolo di interpreti della particolare originalità tecnico-politica messa in essere dal Presidente del Consiglio che, fondamentalmente, declina nella pratica quel liberismo che pretende di avere dei tratti riformatori nella prospettazione degli interventi economici dei prossimi mesi.

Quanto poco collante politico avesse la maggioranza di “unità nazionale” lo si riscontra proprio nella clamorosa facilità con cui un po’ tutti i partiti se la sono scrollata di dosso, salvo rimpiangerla immediatamente dopo quando ha dominato il tutti contro tutti, l’incertezza sancita dalla ferma volontà del Quirinale di non tentare altri pastrocchi parlamentari, di ricorrere al voto come passaggio dirimente per dare un colpo di spugna al caos che si era venuto creando e accrescendo nel corso delle settimane antecedenti la crisi di governo.

Il nuovo corso del Movimento 5 Stelle di Conte, arrivato un po’ per contrarietà gucciniana alle rive del progressismo, provando una manovra tattica di recupero della propria credibilità sociale (per niente classista e molto trasversale come sempre…) nella proposta dei famosi “9 punti” opposti a quanto invece Draghi intendeva portare avanti nell’autunno incipiente e incalzante, ha, al netto delle contraddizioni riscontrabili, messo in forse il monopolio democratico del progressismo italiano e aperto al contempo scenari inediti a sinistra.

Per la prima volta dopo tanti, tanti anni, il PD non è più l’unico ad attribuirsi una patente di forza sociale, vicina alle istanze dei più deboli. La novità politica da questo lato della proposta elettorale è stata preannunciata dalla fuoriuscita di Di Maio del M5S, dal suo epurarsi di quella parte di istituzionalismo centrista e liberista che aveva ingabbiato l’originaria propensione all’alternativa incarnata dal movimento grillino e che, tuttavia, non aveva mai avuto velleità anticapitaliste o anche timidamente socialdemocratiche e riformiste.

I Cinquestelle, dopo aver rappresentato per oltre un decennio un populismo di destra, ed essere stati una delle tre destre che si sono alternate al governo del Paese (destra economica democratica, destra politica sovranista e, appunto, destra populista pentastellata), oggi, mutatis mutandis, hanno l’occasione, magari pure con il ritorno di Alessandro Di Battista, di apparire ed essere agli occhi della gente quella forza politica che, insieme ad altre formazioni di sinistra di alternativa ed ecologista, può essere quel polo popolare che intende contendere il governo del Paese tanto alle destre quanto al PD e ai centristi possibili suoi alleati.

Stiamo ragionando sulla base di ipotesi, ma non di fantapolitica. Cosa ci sarebbe di più fantasticamente immaginabile se non quello che abbiamo visto e sentito in questi giorni durante la crisi del governo Draghi? Nelle prime ore della mattina del 20 luglio tutti davano per certa la fiducia a Draghi senza più i Cinquestelle. Alla sera il governo era sprofondato nell’abisso apertogli da Berlusconi e Salvini.

Pensare che sia possibile, il 25 settembre, avere tre grandi coalizioni che si fronteggiano su tre proposte politico-programmatiche nettamente differenti, è dunque legittimo ed anche auspicabile. Ne gioverebbe la dialettica democratica e parlamentare e, in particolare a sinistra, riprenderebbe vita la possibilità di far rinascere una geopolitica dei contenuti legati ad una della rappresentanza istituzionale adeguata. Lotta e governo, oppure lotta ed opposizione. Ma nell’inscindibile dualismo tra piazza e palazzo che, in questo modo, si riavvicinerebbero nel nome di una partecipazione più vasta, più concreta e consapevole.

Unione popolare, del resto, non può avere la velleità di autoconsegnarsi al giudizio popolare come proposta donchisciottesca (per quanto apprezzabili siano gli intenti del nobilissimo cavaliere di Cervantes), coscientemente solitaria per una necessaria distinzione da tutto il resto dell’agone politico italiano. Se esiste anche una sola possibilità di creare le premesse per un allargamento del campo veramente progressista in Italia, ebbene bisogna tentare. Bisogna intraprendere quel lungo lavoro di smussatura degli angoli e di separazione consensuale dai passati rapporti, dalle frizioni, dai contrasti e dalle critiche.

Le nostre storia, quelle di ciascuno e quelle di ogni partito e movimento, parlano al passato e restano come memoria costruttiva per il presente. Ma, proprio per evitare di attorcigliarci su noi stessi, compiaciuti di essere sempre dalla parte del giusto e della ragione, dobbiamo tornare a fare politica a tutto tondo: quindi anche nel Parlamento della Repubblica. L’esperienza ci insegna che, laddove è stato fatto un lungo, laborioso e faticoso cammino di avvicinamento dei “simili“, le differenze sono diventate pietre angolari delle nuove unioni che si andavano elaborando.

Dobbiamo prendere atto di tutti i mutamenti intercorsi oggi nel complesso della situazione italiana, considerando che a fondare un auspicabile progetto progressista tra Cinquestelle, Sinistra Italiana, Verdi e Unione popolare possono essere punti veramente importanti.

Proviamo ad elencarli: il NO alla guerra e il NO alla corsa al riarmo; il Si’, dunque, alla pace nello spirito più genuino della nostra Costituzione; una serie di proposte sul salario minimo, sul reddito di cittadinanza e su un appoggio alle piattaforme rivendicative della CGIL e degli altri sindacati che si battono per un’espansione dei diritti dei lavoratori; una netta opposizione a quel mantra che è divenuta l’”agenda Draghi“, manifesto del modernissimo liberismo in salsa italica e, al contempo, una difesa della democrazia da ogni tentativo autoritario, neopresidenzialista e sovranista.

Su questi punti ci può essere convergenza tra i simili. Non abbiamo scelta, se non quella di evitare al Paese che esista una terza coalizione che impedisca alle altre due di giganteggiare e di avere, quindi, nella prossima legislatura una maggioranza schiacciante in entrambe le Camere. I danni fatti dalle politiche di Draghi si faranno sentire in particolare nei confronti delle fasce meno tutelate della popolazione. A questa grande massa di indigenti e di disorientati sul futuro deve guardare un progetto progressista di ampio respiro.

Senza una coalizione dell’alternativa, progressista ed ecologista, sappiamo bene quale agenda si imporrebbe nuovamente all’Italia. Quali ricette economiche verrebbero trattate con numeri di maggioranza incontestabili e incontrastabili.

La rimessa in moto di un fronte opposto a liberismo e sovranismo, a centro e destra, potrebbe essere quello scatto che stavamo un po’ tutti aspettando, quel nuovo inizio per rimetterci in gioco, per provare a portare anche le nostre specificità di comuniste e comunisti in una politica che non deve più dimenticare quanta sofferenza sociale, ed anche civile, c’è nella popolazione, quanta sopravvivenza si sostituisce alla vita vera e propria.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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