C’è una legge non scritta che, ad ogni tornata elettorale, viene messa categoricamente in pratica: mentre le cosiddette forze progressiste si accapigliano, si dividono, si guardano in cagnesco e creano le geometrie variabili più fantasiose possibili nel definire i campi larghi o strettissimi con cui intendono presentarsi al voto, le destre, puntualmente, trovano una quadra, un minimo e massimo comune denominatore quasi nell’immediato.

Naturalmente non si tratta di un atto magico, di una consuetudine consolidata per chissà quale specifica caratteristica che diversifica gli uni dagli altri, ma di una vera e propria attitudine congenita ai partiti che storicamente compongono quell’ex centrodestra di governo e di opposizione che, da un po’ di tempo, si è trasformato in una destra sovranista a tutto tondo.

La mitologica propensione della sinistra a dividersi ostinatamente sui programmi non è nemmeno più una tratto di quel PD che, ormai da anni, non rappresenta più parte dell’eredità socialdemocratica del PDS e dei DS, ma soltanto il profilo moderato di un liberismo che, infatti, non fa fatica a dialogare con i centristi di nuovo modello e di rinnovata ambizione come Calenda, come lo stesso Renzi o, ancora, come la Bonino e Toti.

Il parapiglia di questi giorni sull’individuazione dei candidati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (per quanto la Costituzione non preveda un simile passaggio, mentre lo contempli una legge elettorale al limite – appunto – della legittimità espressa dalla Carta del 1948, nei confini semantici dell’espressione “capo politico“…) dovrebbe essere un sintomo di quella instabilità che, sostanzialmente, ha creato anche i presupposti della caduta del governo di Mario Draghi.

Invece, paradosso dei paradossi, appare al contrario quasi essere una specie di dinamica democratica, di turbinio delle proposte in una dialettica interpartitica che sancirebbe quella tendenza bipolaristica del Rosatellum, quella devozione all’alternanza dei poli che Giorgia Meloni per prima ha vellicato nel ricamare i confini della coalizione di destra proprio in queste ore: è evidente che, sull’onda del sondaggismo a buon mercato, le percentuali a cui viene dato il suo partito, consentono alla leader di Fratelli d’Italia di intestarsi un po’ tutto.

L’accordo, almeno a quanto riportato dalle cronache, pare sia stato trovato, il compromesso è stato sancito: niente indicazione del premier, ognuno al voto col suo simbolo e unità di intenti prima, durante e ovviamente dopo il voto. Restano da definire i rapporti con il pulviscolo centrista che si picca di guardare sempre a destra e, almeno per il momento, rimane l’incognita su Toti che parrebbe invece non disdegnare l’ipotesi di una alleanza con il “patto repubblicano” di Calenda e Bonino, magari in stretto rapporto con Italia Viva.

Naturale che grande sia il disordine sotto il cielo delle manovre pre-elettorali, ben sapendo oltretutto che il quadro economico del Paese è in grande sofferenza e che il futuro esecutivo avrà bisogno di una buona squadra di tecnico-politici per mettere in sicurezza tutti i privilegi di classe sino ad ora garantiti dal governo Draghi.

Lo scenario cambia solo per nomi, volti e per culture, se si guarda all’ex centrosinistra: Enrico Letta vorrebbe un campo largo che, ormai esclusi definitivamente i grillini come compagni di strada, vada da Fratoianni fino ad Azione: i risvolti e le pieghe più insidiose della legge elettorale, sommati ai mutamenti politici degli ultimi mesi, costringono i democratici a fare i conti con i partiti piccoli che, come già accaduto molte altre volte, sono determinanti per garantire la vittoria di questa o quella coalizione in un collegio uninominale maggioritario.

Le domande di rito sono: come è possibile tenere insieme Sinistra Italiana e Toti nella stessa alleanza con una prospettiva di governo?

Riecheggiano questi interrogativi e si portano appresso, da molto lontano ormai, il suono delle voci di tanti dibattiti e di tantissime discussioni, quando le parvenze di alternanza tra centrosinistra e centrodestra facevano invocare la Grande Alleanza Democratica da un lato, da parte di chi pensava primordialmente all’anomalia rappresentata da L’Unione (da Mastella fino a Rifondazione Comunista), mentre dall’altro, con più cauta prudenza, si vagheggiava di una riedizione della “desistenza” bertinottiana negli anni de L’Ulivo.

Il collante è sempre un misto di opportunità da parte di alcuni e di opportunismi da parte di altri: va detto che, soprattutto in quell’area che veniva stigmatizzata come “estrema sinistra” o “sinistra radicale“, vigeva soprattutto la tendenza ad unire sopravvivenza di una alternativa di sinistra nel Paese e nel Parlamento con la preservazione dei fondamentali pilastri costituzionali a tutela della Repubblica, della laicità, della democrazia, della quanto meno uguaglianza formale di tutte e tutti davanti allo Stato e nei reciproci confronti.

I cambiamenti strutturali determinati dal biennio pandemico, dalla guerra in Ucraina e dalla crisi economica che ci compenetra quotidianamente e che sopravanza globalmente, hanno dato al valore tecnico dell’azione politica un potere enorme, facendo degli “esperti” i quasi soli in grado a gestire fasi di emergenza nazionale e internazionale. E’ stata, ed è, una necessità che i mercati hanno sentito urgente per fare in modo che i palazzi del potere istituzionale non fossero retti da quisque de populo, mentre questi, in realtà, erano già stati prodotti dalla ventata populista di pochi anni prima.

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, tra tutti, sono la perfetta plastica rappresentazione di un nuovo modello di politica che ha tentato di far emergere una nuova classe dirigente e che ha fallito ancor prima di potersi dare una chiara fisionomia, un contorno definibile sul piano del rinnovamento anche generazionale di un mondo istituzionale ancora troppo legato agli schemi e alle osservanze della stagione berlusconiana da un lato, ulivista dall’altro.

E, in fondo, la rivoluzione grillina arrivata al 32% dei consensi nel 2018, aveva raccolto tra le sue fila anche l’epifenomeno di una cultura di massa molteplice, non esente dalle influenze personalistiche, da una miriade di difetti e contraddizioni che sono propri anzitutto dell’essere umano e poi anche del cittadino e che, alla fine, si sono trasfusi nei rapporti istituzionali a cui il M5S ha dovuto fare fronte con gli impegni che ha dovuto assumere in quei palazzi che aveva tanto anatemizzato.

Così, mentre tutti ipotizzavano la fine anticipata del bipolarismo imperfetto tipicamente tutto italiano, il logoramento lento di un terzo polo pentastellato è stato uno degli obiettivi principali di entrambe la aggregazioni “storiche” presenti in Parlamento.

Il passaggio dal politicismo al tecnicismo di governo ha fatto il resto, creando aree, categorie e percorsi personali che si sono distinti tra “governisti“, considerati responsabili e pragmatici perché fedeli alla ormai famosissima “Agenda Draghi“, e “puristi“, valutati alla stregua degli ostinati sognatori ecologisti dai tratti un po’ sociali. Quelli dei “9 punti” presentati al vaglio del governo poco prima che rovinasse giù dalle scale di Palazzo Chigi.

Mentre PD e presunti prossimi alleati stanno facendo l’ennesimo tentativo di dare una solidità elettorale ad un progetto di conservazione delle politiche di Mario Draghi, seguendo la traccia economico-finanziaria di tutela di una economia che parte dal punto di vista delle imprese per determinare il “benessere” (molto tra virgolette) del Paese intero, e mentre le destre si radunano attorno ai princìpi di un neonazi-onalismo sovranista che fa paura oltreoceano anche ai redattori del “New York Times“, i Cinquestelle rimangono in balia degli eventi.

Il tratto sociale assunto in netta contrapposizione nei confronti dell’attacco draghiano al reddito di cittadinanza, al superbonus e alle intenzioni che il governo ha mostrato in relazione alle proposte sindacali sulla tutela dei redditi da lavoro e di quelli pensionistici, permette di fare un appello a Conte al Movimento: la creazione di un “polo progressista” veramente tale non può essere nominalmente lasciata al Partito Democratico e ai centristi di Calenda e Renzi o di Bonino e Toti.

Per ridare alla politica italiana delle precise demarcazioni anche ideali, perché una proposta di alternativa tanto alle destre quanto ai democratici sia riconoscibile, vanno immediatamente aperte delle trattative per avvicinare il M5S e tutte quelle forze che rifiutano la linea della cosiddetta “Agenda Draghi“. Questo deve essere il primo punto da cui partire per dare vita ad una nuova esperienza che sia vissuta dai cittadini, con grande chiarezza, come la terza opzione, la possibilità di far contare il proprio voto senza disperderlo nell’insignificanza prodotta da una legge elettorale che riduce al nulla le minoranze.

Contro il proposito sovranista e contro quello liberista, il polo progressista che Movimento 5 Stelle, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, Verdi, Potere al popolo, Dema e Manifesta possono far nascere sarebbe la vera novità politica di queste caldissime elezioni estive, scompaginando carte già distribuite, granitiche e presuntuose certezze.

Tutto è ancora possibile. Non lasciamoci sfuggire questa occasione per riprendere un lungo cammino di ripensamento, di riconsiderazione del progressismo e della sinistra in questo nostro disgraziato Paese.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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