Il trentanovenne Alika aveva un’arma impropria con sé, la stampella a cui si appoggiava per camminare da quando un’automobile l’aveva falciato mentre andava in bicicletta. Con quell’arma strappatagli di mano è stato ammazzato di botte e per completare l’opera il suo aggressore gli si è seduto sopra e gli ha schiacciato la testa a terra. Deve aver visto qualche filmato americano, quell’assassino di pura razza italiana che voleva liberarsi dall’insistenza con cui un “negro” pretendeva di vendere un pacchetto di fazzolettini o chiedeva una moneta a lui e alla sua fidanzata.
Questa la causa occasionale dell’omicidio, luogo del delitto Civitanova Marche, ridente porticciolo in provincia di Macerata. «Un fatto di una violenza inaudita lontano dalla normalità della nostra comunità, conosciuta da tutti (sic!) per essere da sempre accogliente e tranquilla», commenta il sindaco della ridente Civitanova Fabrizio Ciarapica, appassionato di sicurezza così come le liste di destra che l’hanno fatto eleggere. Tanto più che l’assassino era originario di Salerno (dunque un corpo estraneo) e nella “nostra comunità” viveva da poco tempo. E poi non si può dimenticare che la vittima era un nigeriano che importunava la comunità nel tentativo di vendere le sue cianfrusaglie, forse per Ciarapica quel gigante buono con il crocefisso al collo rappresentava un ostacolo alla sicurezza. La sicurezza di chi? Anche il presidente della regione Marche Francesco Acquaroli è “sconvolto e addolorato”, lui è conosciuto per la sua partecipazione palpitante alle cene dei nostalgici della marcia fascista su Roma, palestra di quella violenza che per un ventennio ha appestato l’Italia, di quella “cultura” che ci ha regalato le leggi razziali.
La nostra comunità (sì, anche mia che sono di Macerata, il paese mio che sta sulla collina e ha proprio Civitanova come sbocco al mare dove ho imparato a nuotare nelle giornate di vacanza con la colonia della Cooperativa proletaria) conosciuta da tutti per la sua bontà d’animo, o almeno quella parte di comunità che si trovava a passeggiare sulla via dello shopping civitanovese, cioè proprio sul posto dell’assassinio di Alika, non è rimasta inerme, passiva, al contrario ha imbracciato il telefonino e ha filmato la scena, forse per farla vedere ai bambini e ai nonni rimasti a casa. Certo, uno dei provetti registi ha consegnato le immagini alle forze dell’ordine. Immagini forti, di sicuro emozionanti. E che dovevano fare, difendere un negro fastidioso? È vero, qualcuno che aveva il telefonino impegnato nella ripresa dello show ha gridato “chiamate la polizia”. Mica poco. Qualche altro gli ha chiesto di smetterla. Con calma, finito il suo sporco lavoro l’assassino se n’è andato abbandonando a terra il corpo senza vita di Alika che lascia una moglie e un figlio piccolo. Se n’è andato, non prima di aver fregato il telefonino alla sua vittima. È stato arrestato poco dopo.
L’indifferenza, aggravata da una curiosità morbosa, ha mandato in pensione la sofferenza per il dolore fino alla morte di un fratello massacrato. Pietà l’è morta, resta la banalità del male. Ma l’assassino ricco di nomi, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, di sette anni più giovane della sua vittima, era per caso legato a organizzazioni o partiti di destra? Non lo so, è possibile ma conta poco perché la cultura di destra, razzista, egoista, forte con i deboli e debole con i forti ha tracimato dal suo alveo naturale allagando territori sempre più vasti, invadendo l’arido vuoto culturale lasciato dal suicidio collettivo delle sinistre. Ma va’ là, in fondo l’autore del delitto non è che un disturbato mentale con tanto di pensioncina per quel suo handicap. Era buono, Alika, timorato di Dio come testimonia il suo amico pastore, ma aveva un difetto: era di pelle nera. Gad Lerner ci ha ricordato le parole pronunciate non molto tempo fa dalla candidata premier Meloni: cacciate i nigeriani per far posto agli ucraini. Leggendo quelle parole mi è sorta spontanea una domanda: se Alika si fosse chiamato, metti caso, Volodymir o Piotr, sarebbe stato risparmiato? Chissà.
Poco più a nord di Civitanova c’è Recanati, il borgo natio di Leopardi. Quasi in contemporanea con l’assassinio di Alika un recanatese doc, disturbato dalle risate provenienti dal bar sotto casa di ragazzi, studenti universitari soprattutto, ha accoltellato guarda caso un africano che ora è tra la vita e la morte all’ospedale di Ancona. Se riuscirà a salvarsi lo dovrà all’intervento immediato del barista che ha disarmato l’aspirante assassino. Un filo di speranza, anche in questa terra imbastardita.
Anche Emmanuel era nigeriano e viveva a Fermo, pochi chilometri sotto Civitanova dove era arrivato dopo essere fuggito dalle bombe di Boko Haram. Anche lui ammazzato, a pugni, il 7 luglio del 2016 da uno di quelli che la stampa e le forze dell’ordine chiamano balordi, in realtà un ultrà nonché fascista. Emmanuel era colpevole di aver difeso la sua compagna dagli insulti razzisti del “balordo”. L’aveva chiamata “scimmia africana”. Ma un negro non può permettersi di reagire, deve solo abbassare la testa, rispettare il bianco, obbedire al padrone, raccogliere pomodori sotto il sole o togliersi dalle palle. Dopo quattro anni ai domiciliari il “balordo” è tornato libero in attesa della conclusione del processo.
Luca Traini di neri ne ha colpiti sei con la sua pistola semiautomatica. Era il 3 febbraio del 2018, a Macerata, quando il leghista con il Mein Kampf sul tavolino da notte e la croce celtica dietro il letto fece ripetutamente fuoco sui migranti africani colpevoli di essere migranti africani, con la pelle dello stesso colore del bastardo che aveva ammazzato e fatto a pezzi una ragazza bianca. Ora sta scontando 12 anni di carcere al termine dei tre gradi di giudizio. Non era un corpo estraneo, Traini, non veniva da fuori. E tra i fuochi razzisti la “Civitas Mariae”, la cattolicissima Macerata, si scopriva razzista. Sempre governata dalla Dc fino alla sua scomparsa quando passò armi e bagagli al centrosinistra, improvvisamente incontrò la Lega che grazie al tiro a segno di Traini moltiplicò per venti i suoi consensi e diventò primo partito, così la città è passata in mano alla destra. Come Civitanova. Come le Marche.
Cosa sono diventare le Marche, in particolare quelle che pesaresi e anconetani chiamano “Marche sporche” cioè a sud del monte Conero? Quel che è diventata l’Italia intera, da Rosarno a Torino. Che ne è del decantato solidarismo cattolico, della proverbiale accoglienza? La scritta incisa sul municipio di Macerata, “Civitas Mariae” può al massimo salvare la coscienza, non i comportamenti. Il razzismo e l’odio predicato dalle destre e mai combattuto fino in fondo dai residui della sinistra viene praticato dai più deboli, fragili, “balordi” appunto. È la guerra tra poveri alimentata dall’alto, dalle parole e soprattutto dalle politiche che accrescono povertà e diseguaglianze. La guerra tra poveri sta soppiantando la lotta di classe ed è motivo di soddisfazione per la razza padrona e i suoi epigoni nei resort della politica. Qui si insinua la mala hierba del razzismo che non risparmia neppure i piani alti della società. Civitanova Marche non è una landa miserabile, qui la gente vive meglio che in tanti altri luoghi, eppure quei telefonini, quell’inerzia, quell’indifferenza di fronte all’assassinio di un nigeriano povero… La comunità nigeriana della città è scesa in strada, nella strada dove Alika è stato bastonato, soffocato, ammazzato. Non c’erano bianchi in quella protesta in cui, responsabilmente, si facevano i nomi dei mandanti politici dell’assassinio. Erano bianchi, invece, quelli che protestavano suonando il clacson perché quella marmaglia liberasse la strada e i marciapiedi dello struscio e rendesse fruibile il traffico e l’ingresso nei negozi griffati della moda.
Macerata, Civitanova, Fermo, Recanati. Come il resto dell’Italia.