Copertina del libro di Juan Martín Guevara de la Serna e Armelle Vincent
Francesco Cecchini
Intervista di Julián Axat a Juan Martín Guevara de la Serna, pubblicata su El Cohete a la Luna di Horacio Verbitsky, e tradotta da Francesco Cecchini per Ancora Fischia Il Vento.
Armelle Vincent è una giornalista francese corrispondente a Los Angeles per diversi giornali tra cui Le Figaro. Ha incontrato Juan Martin durante un articolo per la rivista francese L’Amateur de Cigar, essendo lui stesso all’epoca il primo importatore di sigari Havana in Argentina. È anche autrice del romanzo La Jeune femme et le cartel.
Difficile vivere la vita essendo “il fratello di”. Nel caso di Juan Martín Guevara de la Serna è una cosa naturale, ma per molto tempo ha preferito passare inosservato ed evitare di parlare di suo fratello. Era solo “Juan Martin”. Il suo basso profilo ha reso sconosciuta la sua militanza, il suo tempo nelle carceri durante la dittatura, la sua vita tra Cuba e l’Argentina saltando fuori dalla boscaglia, esercitando vari mestieri; alcuni stravaganti, come rappresentante della compagnia Habanos, con sede a L’Avana, e altri come libraio, camionista ed editore. Chi ha condiviso la sua militanza o il tempo nelle carceri della dittatura lo conosce bene e conosce le sue avventure, ma la stragrande maggioranza non sa che il fratello di Che Guevara ora vive a San Telmo ed è un pensionato che guadagna il minimo, che soffre dello stesso come persone comuni, e di tanto in tanto si reca a Cuba per vedere amici e parenti.i.
Quel silenzio coincide, in un certo senso, con quello mantenuto dalla famiglia Guevara dopo l’assassinio del Che in Bolivia nel 1967 e che fu riempito solo dal libro My son el Che, pubblicato nel 1981. Ernesto Rafael Guevara Lynch scrisse quella testimonianza prima partì per Cuba, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita con la sua nuova compagna, dalla quale ebbe altri tre figli. Da allora, nessuno della famiglia Guevara ha ripreso l’incarico e ha raccontato la vita del Che. Fino ad ora, quando Juan Martín Guevara de la Serna, all’età di 79 anni, ha deciso di pubblicare la sua versione della storia. Per quanto riguarda il libro, e grazie ad un amico comune (Maximiliano Montero), qualche settimana fa abbiamo preso un caffè al bar Ecuador di Diagonal Norte e Maipú. Trascrivo parte dell’intervista a Juan Martín Guevara de la Serna.
Celia, Ernesto e Juan Martín Guevara en Cuba, 1959.
—Julián Axat: Cominciamo con il tuo libro. Come è successo? —Juan Martín Guevara: Il libro è stato realizzato in Francia. La giornalista e scrittrice francese Armelle Vincent è stata corrispondente per giornali come Le Figaro e il settimanale Le Point. Ero allora il presidente di Habanos S.A. Mi contatta e mi intervista per Habanos. E alla fine dell’intervista mi dice: Beh, ma tu sei il fratello del Che, e io gli dico: Sì, ma non parlerò del Che. A quel tempo ero negativo, non parlavo di mio fratello. Se n’è andato senza l’intervista. Diversi anni dopo torna in Argentina e mi contatta. Mi dice: “Vedevo che hai già fatto un’intervista sul Che, quindi stai parlando”.
—JA: E perché non hai parlato del Che? —JMG: E cosa ne so… C’erano diverse cose che si univano. Da un lato era come occupare un posto che non mi sembrava, perché dovrei occuparlo?
—JA: Gli altri tuoi fratelli non hanno scritto del Che? —JMG: No, né hanno parlato. A parte Roberto, un po’, ma non parlava pubblicamente.
—JA: Il tuo vecchio, tua madre ha scritto un libro… —JMG: In realtà, la vecchia non scriveva, ma parlava e qualcuno prendeva le lettere e con quello veniva messo insieme un libro. Scrivile, no…
—JA: La storia più familiare allora è quella di tuo padre. Poi ci sono quelle di Cuba: Aleida, Hilda… —JMG: Sì, beh, Rojo, Granados, Fidel…
—JA: Va bene, ma nella storia della famiglia, la storia è quella di tuo padre. —JMG: Sì, quella del vecchio è la storia più familiare. Quando Ammelle mi ha proposto l’intervista e da lì a scrivere un libro per una casa editrice francese, ho capito che era qualcosa che non avrei mai scritto, poi mi sono ricordato di un collega cubano che ha detto che quello che succede è conveniente. Abbiamo passato molto tempo a registrare e alla fine le ha dato un formato libro. Abbiamo discusso molto di alcuni aspetti del contenuto.
—JA: Quindi non è la tua scrittura. Ha raccontato ciò che avevano registrato? —JMG: Sì, e il modo di dirlo è un po’ francese, ma è ben scritto.
—JA: Certo, l’ha scritto in francese. Ha fatto anche la traduzione? —JMG: No, la traduzione è stata fatta da alcuni spagnoli (Nota: Elena M. Cano, Íñigo Sánchez-Paños). Ci sono state alcune complicazioni con la traduzione francese, ho apportato alcune correzioni e qualche tensione con l’editore francese.
—JA: Alianza è l’editore spagnolo, giusto? JMG: Esattamente.
—JA: I diritti sono tuoi o sono suoi? —JMG: I diritti sono detenuti dall’editore francese Calmann-Lévy. Quello che appartiene agli autori è metà Vincent e metà mio.
—JA: In quanti paesi è stato pubblicato? —JMG: In undici paesi. L’hanno persino pubblicato in coreano…
—JA: Negli Stati Uniti? —JMG: In inglese, solo in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti circola quella versione inglese.
—JA: In Argentina? —JMG: No, sfortunatamente. Alianza ha un rappresentante che ovviamente non ha molto interesse che il libro circoli da queste parti.
—JA: Qual è l’idea centrale del libro? —JMG: Umanizzare la figura di mio fratello. Umanizzare qualcuno che è lassù e mette i piedi per terra. Aveva un padre. Ha avuto una madre. Aveva dei fratelli… In breve, com’era da ragazzo, molto più di come era il Che.
—JA: Fratello e compagno? -Sì. Sono il fratello di sangue di Ernesto e partner nelle idee. Ma partner di idee non significa che io sia stato con lui a parlare e discutere, per niente. Ho letto ciò che ha scritto e ascoltato i suoi discorsi, con i quali sono pienamente d’accordo. Ma non è come se fossi un partner nel senso di andata e ritorno. Abbiamo parlato solo due volte. Il primo all’Avana, dopo la rivoluzione; Avevo appena 15 anni. Il secondo, avevo 18 anni, quando venne a Punta del Este nell’agosto del 1961.
—JA: Nel libro parli soprattutto dell’ultimo incontro con tuo fratello. Su quale argomento ha ruotato la conversazione tra di voi? —JMG: Abbiamo parlato politicamente. Ma ehi, non aveva tempo (ride), andava e veniva, aveva mille cose da fare. Ma mi ha ascoltato attentamente. Avevo appena iniziato a fare il militare al liceo. Sono stato presidente del centro studentesco del Collegio Avellaneda. C’era un intero movimento politico, ma ormai gli eventi mi avevano portato a diventare un soldato di sinistra, sostenendo fortemente Cuba. Ho iniziato a capire che volevo essere un membro di un’organizzazione rivoluzionaria qui in Argentina, ero in quella ricerca. La conversazione era da quella parte, non volevo andare a Cuba.
—JA: Ma la tua militanza in quel momento era per il socialismo? JMG: No, no. Non ero ancora coinvolto, dopo poco tempo sono entrato in una spaccatura che c’era nel Partito socialista. Quando nel 1961 mi recai a Punta del Este, come vi dicevo, ero attivo nel Collegio Avellaneda. Quindi i militanti della famiglia eravamo io e mia madre. Era vicina a Ismael e David Viñas, che formarono MALENA (Nota: MLN-Movimento di Liberazione Nazionale).
—JA: Entrare nella militanza come Guevara non doveva essere così semplice… —JMG: Nel mio caso, no, ecco perché la mia militanza era a malapena pubblica, durante tutto il mio processo di militanza ero Juan Martín, mai Guevara.
—JA: Hai trovato una libreria negli anni ’60? —JMG: Sì, si chiamava Boemia. E poi ci ho messo il dito. Era nello stesso isolato del teatro San Martín, in via Corrientes. Era una libreria che aveva molto a che fare con tutte le organizzazioni politiche che stavano emergendo in quel momento. Perché, inoltre, in quel periodo c’erano i gruppi maoisti che si stavano aprendo. Gruppi guevaristi, leninisti, trotskisti, anche dal PC. Poi si formano le cooperative, che alla fine finiscono per essere Credicoop, e le banche che stanno nascendo… Tutta quella fase l’ ho vissuto in quella libreria.
—JA: In che anni era la libreria? —MG: Fino al ’66. Fino a quando Ernesto non era da nessuna parte. I giornalisti sono venuti a chiedere in libreria. Ricordo che recentemente ho cercato un appunto sulla rivista People of the time. Mi hanno intervistato e il giornalista mi ha chiesto dove fosse il Che. E ho detto loro: “Non so dove sia il Che, ma se lo sapessi, non ve lo dirò”. Poi il giornalista lo mette e aggiunge anche: “Ma era evidente che lo sapeva”, lo inserisce così. Più tardi sono andato dal giornalista e gli ho detto: “Sei un figlio di puttana, hai mandato tutta la banda a cercarmi”. Era il ’66, nel ’67 ero già nella ditta Mendicrim, come camionista. Ero un fattorino, sono stato lì per circa sei anni portando e portando merce.
—R: E un rappresentante di Libros Cuba, in che anno hai iniziato? —JMG: Ho iniziato dopo l’83. Ero un buon amico di Hernández, quello della libreria, che aveva un distributore e, dato che mi forniva dei libri, era molto legato. Così, quando esco dal cana, trovo un lavoro in libreria a Corrientes. Ci sono stato per un po’ e poi i cubani mi hanno contattato per un consiglio sull’argomento della fiera. Così ho iniziato a tenere fiere del libro ea distribuire riviste cubane in edicola. Lì ho fondato una casa editrice e un centro culturale: Nuestra América, ma in seguito ho iniziato ad aggiungere prodotti cubani.
—JA: È lì che prendi i sigari? JMG: Certo. Lì ho fondato, parallelamente, un distributore chiamato Puro Tabaco, dedicato ai sigari. Col tempo non ha saputo fare bene entrambe le cose e la Nostra America è stata lasciata nelle mani di un collega che l’ha fatta crescere e la dirige oggi. Mi sono dedicato interamente al sigaro.
—JA: Libri e sigari? Bella congiunzione. —JMG: Habanos fino al 2001, quando gli spagnoli sono entrati nella società, ho iniziato ad avere divergenze con loro e ad un certo punto ho detto: “Basta, vendo”. Perché avevo già il 49%; I cubani avevano il 51% o viceversa, non ricordo com’era (ride). Ho detto loro che stavo vendendo le mie azioni e che volevo uscire. Ho avuto una discussione sulla questione dell’ingresso degli spagnoli.
—JA: Fumi sigari? —JMG: Fumavo, fumavo. Poi ho dovuto smettere di fumare.
—JA: A chi hai venduto i sigari? —JMG: Ai ragazzi con più soldi… ti racconto un aneddoto. Uno mi chiama una volta e mi dice, il telefono squilla e dice: “Juan Martin, sono in aeroporto, ho bisogno di sigari, perché sto per viaggiare e non ho i sigari”. E gli ho detto: E come faccio? “No, vieni all’aeroporto e portami così, così e così.” Sono arrivato in aeroporto, ho passato tutte le cose di sicurezza, stava partendo per un volo con il suo aereo (ride).
—JA: Ma chi era? —JMG: Un gerarca, di una banca privata. Un presidente di banca importante, che mi chiamava sempre nei momenti insoliti, quando finiva il tabacco (ride).
—JMG: Attraversavo il mare per vendere sigari al presidente di Peñarol, che passava il tempo a fumare mozziconi, e mi stava aspettando perché gli portavo uno dei migliori. Teneva i sigari anche per (Carlos) Menem, ma il suo compagno, il presidente della Corte Suprema, è venuto…
—JA: Giulio Nazareno… —JMG: Lo stesso. Lo chiamava “Don Naza”. Ed è venuto a cercarli, perché ovviamente li aveva immagazzinati con l’aria condizionata. E siccome Fidel li ha mandati, poi ne aveva troppi e voleva tenerli in un posto che fosse buono ed è così che è venuto a cercarmi. E lui mi ha detto: “Questi sono del Presidente”.
—JA: Questa storia non è raccontata nel libro. —JMG: No (ride).
—JA: E quando ti appassioni al PRT? —JMG: Nel ’73.
—JA: Come entri nel PRT? —JMG: In realtà, avevo già incontrato molte persone, ma non ero un membro. Sono entrato nell’esercito in quello che è il FAS, che era uno dei rami del PRT. C’era l’ERP, che era il ramo armato, e poi c’erano diversi rami che avevano molta influenza. La FAS aveva un’influenza, ma era più ampia, perché l’obiettivo era quello di incorporare altri settori che non erano altro che marxisti, leninisti, rivoluzionari. L’altro era il Consiglio di Coordinamento Rivoluzionario, il JCR, che riuniva i Tupamaros, i cileni e il PRT. Era un tentativo di fare un’organizzazione internazionale con gli stessi obiettivi, sempre con quello che allora si chiamava il faro dell’America, che era Cuba.
—JA: In che anno ti vengono dei capelli grigi? —JMG: Nel 1974 prima, a Cordova. È lì che avviene il colpo di stato del tenente colonnello (Antonio) Navarro. Compie un colpo di stato che licenziò il governatore e luogotenente governatore (Ricardo) Obregón Cano e (Atilio) López, che erano peronisti, ma di Campora.
—JA: Quanto tempo sei in prigione in quel momento? —JMG: Tre mesi. Vivevo a Córdoba, mi hanno beccato vicino a una fabbrica e hanno inventato una causa per me. È qui che inizia a emergere il BDS (Nota: “banda di criminali sovversivi”). Ma non c’era nulla di legale di cui accusarmi, avevo solo poche riviste con me perché stavo andando in una fabbrica con lavori di propaganda. E solo per questo ho sono rimasto tre mesi.
—JA: Sapevano chi eri quando ti hanno messo in prigione? —JMG: Sì. Dopo qualche mese mi danno la libertà. Andiamo con il mio compagno a Rosario. E nel 1975 cademmo entrambi in carcere, nella casa dove abitavamo. Non abbiamo mai saputo perché ci hanno trovato.
—JA: Cadi di nuovo prima del colpo. —JMG: Sì.
—JA: Se no, non l’hanno contato. —JMG: No, certo. (Juan Domingo) Perón era già morto. Poi c’è stata quella discussione se hanno riciclato meno, e ci hanno riciclatombiancato. E ci sono rimasto fino all’83.
—JA: 8 anni. JMG: 8 anni, sì.
—JA: Quando sei caduto di nuovo, ti avevano ricercato? —JMG: Sì, fin dall’inizio la banda della polizia di Rosario mi ha cercato e mi hanno ricercato, sapevano che ero il fratello del Che. Mi hanno portato alla Questura di Rosario, e lì hanno interrogato me e mia moglie, incappucciati.
—JA: C’è stato un trattamento specifico per te come ritorsione? JMG: No, no. Il trattamento era sempre negativo per tutti, non c’era un trattamento speciale. Fin dall’inizio mi portano al Devoto, nel padiglione misto di politici e gente comune. A Devoto, insieme ai compagni che vi erano rinchiusi, abbiamo fatto diverse denunce. Ho firmato una denuncia contro la manipolazione del cibo, che abbiamo inviato alla Nunziatura Cattolica.
—JA: Quella denuncia è stata recentemente declassificata negli archivi vaticani? —JMG: Sì, ma questo non significa che abbiano fatto qualcosa per me. La Curia, infatti, non ha fatto nulla. Di recente c’è una nota dal portale Infobae che dice che la Chiesa si è trasferita a causa del mio caso, e non è stato affatto così. È chiaro che questa nota parla di un’operazione sporca che cerca di screditare Cuba, dicendo che non hanno fatto nulla e che quella che l’ha fatto è stata la Chiesa cattolica. Ripeto che questo non è vero. I cubani hanno fatto esattamente il contrario. Il governo cubano ha ospitato molti compagni e ci hanno sempre sostenuto. Anche quando me ne sono andato nell’83, il governo cubano mi ha offerto ogni tipo di aiuto, come il resto della famiglia.
—JA: Che cosa hanno denunciato a Devoto con i prigionieri, allora? —JMG: Alla Devoto abbiamo avuto informazioni su come il servizio carcerario e altri funzionari hanno gestito i soldi del budget per non darci cibo. Il capo della prigione aveva anche camion che consegnavano carne in altri luoghi, carne che non arrivava mai a noi prigionieri. Avevano avviato un’attività secondaria.
—JA: Beh, di solito lo fanno ancora. È un classico. —JMG: Sì, e poi abbiamo fatto quella denuncia che è arrivata a Pío Laghi, che allora era il nunzio pontificio. Ed è da lì che nasce il tema. Ricevono la denuncia e, invece di fare qualsiasi cosa, mi mandano una busta sigillata contenente una medaglietta e un crocifisso. Questo mi è costato delle percosse clamorose, perché ho messo un filo al crocifisso e l’ho appeso a me stesso. Ed è lì che cade la requisizione e lui si arma.
—JA: E la rappresaglia è stata il trasferimento? —JMG: Sì, mi hanno trasferito immediatamente. Ma ripeto che la Chiesa non ha fatto nulla. Gli atti declassificati mostrano solo che la Nunziatura ha ricevuto la mia denuncia.
—JA: C’erano notizie internazionali che dicevano che il fratello di Che Guevara era in prigione? JMG: Mia sorella Celia era in Europa e ha fatto molte lamentele. Uno è stato fatto in Austria, ed è per questo che il console austriaco è venuto a trovarmi per darmi il suo appoggio, ma non è servito a molto. Ero delicato allora, non ero in buona salute.
—JA: Del cuore? —JMG: No, ho subito un’operazione di appendicite.
—JA: Ti hanno operato in prigione? —JMG: Il direttore medico dell’Unità mi ha operato. Lo chiamavamo Dr. Mengele (ride), immagina chi era? Ho dovuto fare un’operazione urgente. Mi sono messo nelle mani di Mengele.
—JA: Eri nell’Unità 9? —JMG: Sì, mi hanno portato all’ U9 nel 1976. Ricordo che il giorno in cui sono arrivato, il direttore mi ha portato nel suo ufficio e mi ha detto: Guarda, sono arrivato a questo livello, ma non riesco ad arrivare in cima perché ho iniziato come sottufficiale della prigione, quindi voglio finire la mia carriera. So che sei un portavoce dei prigionieri, dici loro che andrà tutto bene. Se fanno casino, apro la porta ed entrano i soldati. Poco dopo, fui in un nuovo pasticcio e i soldati entrarono. Lì hanno ucciso diversi compagni. Lo facevano apparire come un tentativo di fuga, così lo chiamavano per insabbiare gli omicidi. E poi la rappresaglia è stata tremenda.
—JA: Trasferimento di nuovo. —JMG: Sì, ci hanno trasferito dagli U9 quel giorno, era la notte del 22 agosto 1976. Ci prendono in tre. E poi dico: “Beh, ciao, siamo fritti”. Ci portano come animali in Sierra Chica. Ricordo che prima di arrivare al carcere ci siamo fermati in mezzo al nulla e ho pensato: “Beh, qui ci sparano”. No, usciamo. Continuiamo. Poi c’è stato il pedaggio quando sei arrivato in una prigione, ti hanno picchiato per darti il benvenuto. Quindi eravamo convinti che a un certo punto fossimo un pezzo di carta.
—JA: La vita in prigione dopo il marzo 1976 è stata più dura che mai. JMG: Esattamente. La repressione che abbiamo subito nelle carceri faceva parte di un piano per spezzarci, per annientarci dentro.
—JA: Hai dovuto testimoniare in un processo nei casi di maltrattamento? —JMG: No. Non mi hanno mai citato.
—JA: Potresti fare un riassunto dell’intero circuito che hai fatto come prigioniero? —JMG: Sono caduto a Rosario, sono andato a Devoto. Il trasferimento è dato per ritorsione della denuncia, e da lì un breve passaggio a Rawson, e da lì ancora a Devoto, fino al colpo di stato
—JA: E da quale prigione sei finalmente uscito? —JMG: Rawson. Da sud. Sono stato a Rawson due volte.
—JA: E cosa fai della tua vita da lì? —JMG: Nel 1983 ho iniziato a lavorare presso la libreria Hernández. E lì ho incontrato i cubani e ho iniziato a lavorare con Habanos S.A. e l’editore.
—JA: Il tuo rapporto con Cuba è sempre vissuto daqui, mai lì. JMG: Certo.
—JA: Hai la nazionalità cubana? JMG: No.
—JA: E come sono i tuoi rapporti con il governo cubano? JMG: Eccellenti. Immagina di essere tutti in qualche modo legati a Cuba. Oltre ai cinque figli di Ernesto, mio fratello Roberto ha avuto sette figli ed è andato in esilio a Cuba. Mia sorella Celia è passata per Cuba. Mia sorella Ana María ha avuto cinque figli, che sono rimasti a Cuba. Nel ’73 sono andato con i miei figli a Cuba.
—JA: Anche tua moglie è rimasta lì? —JMG: Sì, ma morì 13 anni dopo. Già separati. Ho quattro figli. Solo uno attualmente vive a Cuba. Martín, il più anziano, vive in Spagna. Anche Anna. Paolo vive a Cuba. E Dolores, che appartiene al compagno con cui sono caduto in prigione, un’altra coppia, vive qui.
—JA: Com’è il tuo rapporto con i tuoi figli? —JMG: Va bene.
—JA: Anche loro vanno e vengono? —JMG: Sì, in un certo senso sì. Proprio l’altro giorno ho trovato una lettera che ho scritto a Fidel. Era quando Ana aveva 15 anni. Ha vissuto a Cuba da quando era una ragazza, poi siamo tornati. Ma non voleva avere niente a che fare con l’essere qui, voleva tornare sull’isola. Così ho parlato con la madre e abbiamo deciso che sarebbe dovuta tornare se era suo desiderio, il problema era che era minorenne. Così sono andato all’ambasciata cubana per chiedere loro di questo, e mi hanno detto che non potevano fare nulla. Ma come sarebbe entrata? Allora dico a uno dei compagni presenti: “Va bene, non puoi fare niente, ma se scrivo una lettera a Fidel, gliela mandi?” E lei ha detto di sì. Così ho scritto la lettera a Fidel, spiegando che era più cubana che argentina, che dal punto di vista della sua vita sociale era socialista e che il mio vecchio, suo nonno, era lì.
—JA: E alla fine ha raggiunto Fidel?
—JMG: Sì, lascio la lettera scritta a mano al collega dell’Ambasciata e una settimana dopo Ana sta già volando all’Avana. Il giorno dopo il suo arrivo, Fidel va a trovarla a casa del mio vecchio, dov’era lei. “E come stai? Come hai viaggiato?”, chiede. Non lo dimenticherà più.
—JA: E la tua relazione con l’altro tuo figlio, Martín? Ha una dissidenza con Cuba, è lì che ho letto le interviste che sono state fatte a Infobae.
—JMG: Martín ora vive in Spagna. Cerco di non discutere con lui, abbiamo opinioni diverse su Cuba e sul processo politico. Non discuto molto con lui, cerco di andare d’accordo, soprattutto con mio nipote, con cui vado molto d’accordo, che si chiama anche Martín. A differenza di mio figlio maggiore, mio nipote si definisce marxista. Vive in Spagna, studia fisica a Madrid.
—JA: E perché tuo figlio è arrabbiato con Cuba?
—JMG: Lì ti direi di fare l’intervista con lui, perché non voglio nemmeno entrare nel campo di quello che è il suo sguardo, che ritengo non sia uno sguardo politico, ma dice che lo è. Penso di no, che abbia un’altra connotazione, risentimento o qualcosa del genere.
—JA: E i tuoi nipoti, i figli del Che, hanno un accordo?
—JMG: Mentre erano lì, sì. Vivono a Cuba, tutti. Hildita morì (la maggiore, figlia di Hilda Gadea, la prima moglie del Che). Ma gli altri quattro sì. E sono miei nipoti, ho a che fare con loro. Quello con cui mi occupo di più è Ernesto, il più giovane. Una delle sue figlie è quasi come una mia nipote: Helenita, che ha finito il liceo a Cuba e ora sta studiando per una laurea e vive ad Amsterdam.
—JA: E i figli di Roberto? —JMG: Quasi tutti vivono anche lì. Tre sono morti, Florencia molti anni fa, nel 1972, Eleonora recentemente e Rafael molto recentemente. Roberto ha avuto sette figli. Due vivono qui, in Argentina.
—JA: E Celia, quanti figli ha avuto? —JMG: Non aveva figli. Celia vive qui, in Argentina. Oggi ha 94 anni ed è in pensione come architetto. Lei ed io siamo stati qui. —JA: La famiglia è numerosa? —JMG: Hai visto? Il mio vecchio: otto figli; cinque, Ernest; sette, Roberto; cinque, Ana Maria; io, quattro. —JA: E i figli di Ana María?
—JMG: Uno vive a Córdoba, Pedro, che è un architetto. Santiago, Juan Ramón, Rosario e Ramiro sono a Cuba.
—JA: E si incontrano mai tutti insieme? —JMG: E una volta quando ero a Cuba, ma se no, no.
—JA: I Guevara sono in contatto attraverso le reti? —JMG: Sì, impariamo sempre qualcosa.
—JA: C’è qualcuno nella direzione a Cuba? Al governo? —JMG: No, non nel governo. Aleida e Camilo sono al Che Center. Celia no, lavora come veterinaria in acquario, con i delfini. Ma non è un’attività politica istituzionale. Ed Ernesto ha i giri turistici in moto.
—JA: Il nipote del Che è famoso quando si tratta di noleggiare moto? —JMG: Sì, ho lavorato con lui. La verità è che ho fatto un sacco di gambe per lui per andare avanti. Ma poi è arrivata la questione di (Donald) Trump, Western Union che ha tagliato i voli dagli Stati Uniti, dopo la pandemia e il calo del turismo; da quattro milioni e mezzo di turisti, sono passati a pochissimi. Le risorse che il turismo ha fornito a Cuba sono state estremamente importanti. Per Ernesto erano fondamentali.
—JA: Come vedi il governo di Cuba oggi? —JMG: Non faccio un viaggio di andata e ritorno da molto tempo. L’altro giorno ero lì ad ascoltare. L’importante è parlare con le persone che ci vivono. E sono vive. Stanno avendo molti problemi in questo momento, ancora una volta: mancanza di carburante, energia, turismo. La pandemia e il lockdown più serrato, a cominciare da Trump. Perché (Barack) Obama lo ha adattati e Trump l’ha aggiustato di nuovo. E neanche (Joe) Biden ha mollato.
—JA: E in relazione a qual è oggi la guerra tra Ucraina e Russia, i colpi arrivano a Cuba? C’è più carenza? —JMG: Non più di prima. Potete immaginare che quando furono interrotti i viaggi negli Stati Uniti, l’ultima cifra, oltre 4,5 milioni, 600.000 erano cubano-americani. Per anno. Da 600.000 a 10.000 dollari a tasca, per ogni parente arrivato. Il numero di attività aperte riguardava famiglie, ristoranti, forniture automobilistiche, parrucchieri, ecc.
—JA: Stavi parlando dei nipoti Guevara. Come vede le nuove generazioni nella Cuba di oggi? —JMG: E complesso. La maggior parte dei giovani pensa ancora alla rivoluzione. Certo, ma ci sono anche le reti, i cellulari e le pessime informazioni che circolano, i fake. Quando ero lì ho guardato programmi dagli Stati Uniti, che sono di anni fa. Cuba ha un problema di amore-odio con gli Stati Uniti, che dura tutta la vita. Sono lì a pochi chilometri di distanza. Ebbene, ai tempi di (Fulgencio) Batista era una colonia. Ha smesso di esserlo, ma il numero degli emigranti, sia i sostenitori di Batista che se ne sono andati sia lepersone che non erano sostenitori di Batista, ma che sono andati negli Stati Uniti, sono milioni. E quei milioni che vivono negli Stati Uniti continuano a sentirsi cubani. È la mia convinzione. A Miami, se non parli spagnolo, non lavori. Quella pressione verso l’isola sarà per sempre lì. È qualcosa di straordinario con cui vivi quotidianamente.
Ernesto, Juan Martín e il padre