Mariano Rampini
Jeff Bezos, fondatore e presidente di Amazon (ma anche proprietario del Washington Postfon, fondatore e proprietario di Blue Origin società in attività nel settore aerospaziale, tanto per capirci) ha avviato una stretta collaborazione con il Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle: si punta a realizzare vaccini personalizzati destinati al trattamento di tumori al seno e alla pelle. Intanto Bezos sta per acquisire – forse l’ha già fatto – One Medical, azienda produttrice di servizi innovativi di medicina di base e nell’area della telemedicina (una recente analisi comparsa nel 2020 sulle pagine di JAMA Otolaryngology – Head & Neck Surgery ha esaminato le correlazioni fra caratteristiche demografiche e disparità socioeconomiche nell’area della telemedicina per pazienti con diagnosi di tumore a collo e testa). Il nuovo acquisto di Bezos ha però una particolarità: come ricorda Pierfranco Pellizzetti su Micromega (agosto 2022) «genera più della metà delle sue entrate da Medicare, cioè il programma di assicurazione medica del governo americano, destinato alle persone dai 65 anni in su o con particolari problemi di salute (insufficienza renale o disabilità), nato – lo ricorda il 30 luglio 1965 per iniziativa del presidente Lyndon B. Johnson all’interno della sua strategia di Great Society».
L’interesse della finanza nell’ampissimo settore biomedicale è cosa nuova? Nasce negli ultimi anni o parte da più lontano?
In realtà il fenomeno in sanità ha radici profonde. Basti pensare all’area delle imprese farmaceutiche dove acquisizioni e compravendite di marchi, anche prestigiosi, è in atto da oltre 30 anni. In questo arco di tempo – è ovviamente un dato indicativo – si è assistito da parte dei colossi del settore a un progressivo “accaparramento” di aziende grandi, medio grandi e piccole: con una preferenza per quelle con specializzazione in settori di ricerca specifici, quello oncologico, in primis e, in secundis, quello della neurofarmacologia e/o delle malattie degenerative del sistema nervoso centrale.
Si è trattato spesso di contratti a più di nove cifre (un esempio ce lo dà questo link: https://www.aboutpharma.com/senza-categoria/acquisizioni-e-fusioni-del-2020) che alla fine della fiera crea un settore come quello che ricorda la seguente infografica de Il Sole 24 Ore (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2021/09/20/tutti-big-big-pharma-infografica/ )
Farmacie pubbliche: un caso eclatante
Che la sanità rappresenti in generale un terreno di caccia ambito lo dimostra anche un altro esempio. Quello della vendita da parte dei Comuni, loro titolari per legge, delle farmacie comunali, fenomeno nato e sviluppatosi soprattutto in Emilia-Romagna (Reggio Emilia inaugura un servizio aperto a tutti nel 1903). Nel nostro Paese, attualmente esistono circa 17 mila farmacie di privati (farmacisti o società di farmacisti, stabilisce la legge) e altre 1900 (circa) di proprietà pubblica. Intorno alla prima metà degli anni 90 gli stessi Comuni che avevano finito per relegare le loro farmacie in un angolo, pensarono bene di “far cassa” mettendole all’asta (non tutti e non dappertutto) permettendo l’acquisizione di quote di maggioranza ai privati. Una delle prime acquisizioni fu quella di Bologna dove l’80% delle quote della societa municipalizzata che gestiva le farmacie comunali venne ceduta alla tedesca Gehe. Si tratta di una delle società che costituiscono (i nomi sono spesso cambiati nel corso degli anni) i grandi gruppi della distribuzione farmaceutica. Un esempio per tutti è quello della inglese Boots che in patria ma anche in molti altri Paesi possiede catene di farmacie o di esercizi legati al benessere
Perché questo? La farmacia era una fonte di reddito importante, soprattutto se si guardava al suo fatturato Ssn. Cosa che attirò gli investitori e indusse molti Comuni a dismettere le quote delle aziende farmaceutiche comunali. Poco alla volta però questa fetta di mercato ha mostrato la corda. Con i tagli progressivi alla concedibilità in regime di Ssn dei medicinali, la redditività delle farmacie è scesa e così anche questo fenomeno è andato rallentando. Nonostante tutto però non sono pochi i Comuni che, di quando in quando, ancora mettono sul mercato le loro aziende farmaceutiche: di recente l’allora commissario alla spendig review, Carlo Cottarelli, puntò il dito sulle aziende farmaceutiche comunali che, a suo dire, sarebbero «difficilmente sostenibili», incidendo pesantemente sui bilanci dei Comuni italiani. L’Associazione di settore, Assofarm, ha però replicato sottolineando la parzialità dei dati di Cottarelli.
Insomma un’altra diatriba all’italiana nella quale, come di consueto, invece di puntare su un servizio alla collettività gestito da un ente pubblico, si cerca di eliminarlo del tutto.
Nulla di nuovo sotto il sole anche per quanto riguarda l’azione di Bezos di cui però non si conoscono i progetti nel dettaglio.
Resta il fatto che la sanità è un settore lucroso qualsiasi cosa si voglia dire. E le spinte verso la privatizzazione di servizi essenziali sono fortissime. Basti pensare ai servizi ospedalieri con le tante chiusure registrate in moltissime parti d’Italia di interi reparti e con la contemporanea nascita di poli ospedalieri privati e/o convenzionati nella stessa città o territorio. Nel momento più acuto dell’epidemia di Covid, in moltissimi ospedali si è dovuto far ricorso a personale medico e infermieristico proveniente da cooperative private. Del resto le carenze del nostro sistema di assistenza sono note a tutti e Bezos appare come la punta di un iceberg che, poco alla volta, sta raccogliendo in tutto il mondo i frammenti sparsi dei vari sistemi di sanità pubblica. In Inghilterra, patria dei sistemi di sanità pubblica (il National Health Service nacque infatti nel 1948) i continui tagli alla spesa sanitaria stanno letteralmente minando quello che fino a pochi decenni fa era un modello per tutto il mondo (anche e soprattutto per il nostro Ssn).
In Italia l’assistenza sanitaria continua a essere vista non come una fonte di risparmio (incremento delle poste di spesa destinate alla prevenzione, centri di accoglienza dei pazienti diffusi sul territorio e non accentrati solo negli ospedali: due misure auspicate quasi da sempre ma, da sempre ignorate o, comunque fatte proprie dalla finanza privata) ma come una sorta di pozzo senza fondo. In realtà prevenendo le malattie e le loro conseguenze più gravi sarebbe possibile risparmiare moltissimo in più di un settore (si pensi solo al ricorso a cure farmacologiche domiciliari in luogo di lunghe degenze ospedaliere). Come fare qualcosa del genere in un Paese dove esistono liste di attesa per esami e controlli lunghe anche decine di mesi? Insomma se c’è un settore che avrebbe estremo bisogno di un sostegno politico reale, concreto, massiccio, è quello della sanità. Ma nei programmi dei partiti a essa vengono dedicati spazi residui e spesso fumosi. Un primo passo importantissimo sarebbe ricondurre la sanità a un governo centrale (o a hub regionali che raggruppino più Regioni insieme) cancellando una delle decisioni più infelici mai prese: la devoluzione dei poteri legislativi in materia di sanità alle Regioni. Ma anche qui c’è da studiare per fare proposte concrete in merito al governo di uno dei settori più sensibili e cruciali di una società moderna. Soprattutto una società – quella italiana è peculiare in questo – che invecchia sempre più rapidamente e che deve necessariamente fornire una risposta alle esigenze di fasce sempre più ampie di popolazione anziana.
La vignetta – scelta dalla bottega – è di Benigno Moi.
https://www.labottegadelbarbieri.org/sanita-big-pharma-e-bezos/