Per chi, come noi comunisti, va dicendo da oltre trent’anni che si deve ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, che si deve puntare su uno sviluppo economico che guardi al pubblico, riconducendo il privato al ruolo comprimario che gli assegna per prima la Costituzione repubblicana, che occorre mettere al centro dell’azione politica e sociale la contraddizione tra capitale e lavoro muovendo dal punto di vista degli interessi di quest’ultimo vasto mondo del disagio di una amplissima fetta di popolazione che sta, invece, scivolando sempre più nella categoria delle “nuove povertà“, ebbene, per noi che da sempre andiamo giaculando nel merito di tutto ciò, non si pone la questione della propaganda elettorale.
Noi non facciamo propaganda elettorale. Nemmeno questa volta con Unione Popolare. Semplicemente ribadiamo le necessità di una parte ben precisa della società che, indubbiamente, col tempo si è andata complessizzando, perché la stratificazione delle diversificazioni che sono intervenute nella separazione dei livelli sociali, nella moltiplicazione dei “ceti” nella classe stessa, ha costretto ad una rimodulazione dell’agenda programmatica progressista, ad un ammodernamento delle proposte, ad una rincorsa non certo facile per restare al passo coi tempi.
Nonostante ciò, i temi di fondo rimangano quelli che ancora un secolo e mezzo fa vennero scoperti e fatti conoscere al mondo intero: lo sfruttamento della forza – lavoro, l’accumulazione capitalistica, la concentrazione della ricchezza in un sempre minore numero di individui a discapito di miliardi di persone invece sempre più impoverite.
Unione Popolare non ha bisogno della verifica sulla veridicità, sulla sincerità delle proprie affermazioni. Non esiste il dubbio sulla buona o cattiva fede, sull’infingimento eventualmente nascosto dietro altisonanti promesse. Perché di promesse non si tratta quando si chiedono 10 euro all’ora come salario minimamente uguale per tutti. Si tratta di rivendicazioni sociali che da troppo tempo attendono di essere messe in pratica; si tratta di adeguamenti agli standard di altri Paesi europei, come la Spagna, che stanno facendo passi avanti in questo senso, anche nella riaffermazione del valore pubblico delle infrastrutture e del trasporto pubblico.
Ma non tutte le forze politiche italiane possono vantare, come Unione Popolare, che eredita la storia politica e tutte le lotte di Rifondazione Comunista, di Potere al Popolo! e di altre formazioni e singolarità che procedono nella stessa direzione da molto, molto tempo, da tante lotte pregresse.
Facciamo alcuni esempi sufficientemente eclatanti: la Direzione nazionale del Partito democratico ha approvato all’unanimità un programma di governo che fa strabuzzare gli occhi se comparato tanto agli ultimi lustri di partecipazione ai governi tecnici e politici, al protagonismo di un liberismo assunto come piano di riconversione centrista di un progressismo che emanava, molto languidamente e sempre meno riconoscibile, dalle esperienze sorpassate del PDS e dei DS, nonché di quelle più marcatamente moderate del PPI e de La Margherita.
Si legge nei punti programmatici elencati da Enrico Letta: una ricalibratura del reddito di cittadinanza, un salario minimo su proposta del ministro Orlando, una integrazione pubblica alla retribuzione per i lavoratori a basso reddito, una particolare attenzione ai contratti a tempo indeterminato, una autocritica nei confronti delle liberalizzazioni e della flessibilità, un incentivo alla gratuità del trasporto pubblico, una “pensione base” per i giovani che abbiano dei buchi contributivi, la stabilizzazione dell’APE sociale, un piano casa – senza lo sfruttamento di nuovo suolo pubblico – per mezzo milione di alloggi, libri gratuiti agli studenti (in base all’ISEE) ed un aumento degli stipendi per i docenti da mettere in pratica entro il 2027.
Sul piano della crisi ambientale, il PD di Letta abbraccia la tanto celebrata “transizione ecologica” che dovrebbe portare alla generazione di 500.000 posti di lavoro. Mentre sul terreno dei diritti civili il parterre delle proposte di governo è indubbiamente molto invitante: si va dalla riproposizione della Legge Zan al matrimonio egualitario per le coppie LGBTQIA+, dalla normazione del “fine vita” all’estensione della cittadinanza italiana mediante lo Ius Scholae, passando per l’esclusione della chiusura dei porti ai processi migratori, includendo ovviamente un capitolo abbastanza corposo sui diritti delle donne.
Insomma, a leggerne il programma, verrebbe voglia di votare il PD come forza progressista, democratica, libertaria e civile di un Paese che deve contrastare invece il regressismo destraiolo della Meloni che si rifiuta di cancellare dal suo simbolo quella fiamma tricolore che arde sulla tomba di Mussolini e che serve da catalizzatore per un elettorato sull’andante nostalgico di vecchia e nuova maniera. Ma, tornando alle considerazioni di cui all’inizio di queste righe, la domanda che sorge spontanea è: ci si può davvero fidare?
L’interrogativo non è rivolto al campo sovranista, di cui sappiamo bene che è impossibile fidarsi sia quando parlano di aderenza ai valori e princìpi democratici sia quando affermano di volere il bene del Paese e della collettività.
Il punto è: può una forza politica come il Partito democratico, che a far data dalla sua nascita ha smorzato ogni possibile espansione dei diritti sociali, che li ha subordinati come variabile dipendente alle esigenze del mercato, che ha introdotto ogni riforma possibile del mondo del lavoro in chiave peggiorativa (basti ricordarsi del “Jobs act“…), che ha fatto delle liberalizzazioni e della precarietà il fulcro di un interventismo liberista nei confronti del vecchio rimanente stato-sociale l’asse portante di quelle che sono state per lungo tempo chiamate “politiche della modernità“, può, dopo tutto questo, essere o tornare ad essere credibile in materia di diritti sociali?
Questo è il dilemma che si dovrebbe porre un elettore medio, capace di interpretare le circonvoluzioni della politica italiana attraverso una discreta conoscenza dei sommovimenti tra partiti, alleanze, candidature e programmi in vista del voto. Perché, sia concesso, il dubbio che il programma progressista dell’ultimo momento del PD, che parrebbe persino smentire quell’”agenda Draghi” rivendicata da Letta ancora giorni fa come base di alleanza per un centrosinistra spostato violentemente al centro, sia stato scritto per attrarre quella gran parte di elettorato di sinistra che rischia di smarrirsi tra i gineprai del voto, è un dubbio considerevolmente lecito.
Poniamo che i democratici abbiano, in queste ore, svoltato “a sinistra” e vogliano rappresentare quel moderatismo liberal-socialista che mancava nella contesa neocentrista dei giorni e delle settimane scorse. Adesso per loro si apre lo scenario della prova del fuoco, della verifica sul campo qualora dovessero prevalere sulla coalizione del centrodestra. Attuare un programma di riforme sociali e civili come quello sommariamente elencato, prevederebbe una sconfessione di tutto quello che hanno convintamente rivendicato fino al giorno delle dimissioni di Draghi, con gli interventi accorati nell’aula del Senato della Repubblica, con tante interviste e dichiarazioni, sostenendo la necessità della continuità con le politiche della maggioranza di unità nazionale.
Come può un partito di caratura nazionale, di storia controversa eppure importante come il PD mutare camaleonticamente pelle così velocemente? Era sincero prima, quando aderiva senza una minimissima discrepanza all’agenda draghiana, oppure è sincero oggi quando fa autocritica sulle liberalizzazioni e sulla flessibilità nel mondo del lavoro? Era sincero prima, quando sosteneva la centralità delle imprese come motore produttivo della ricchezza nazionale, oppure è sincero oggi quando tenta di rimettere al centro dell’agire politico e di governo il punto di vista di chi fa fatica ad arrivare a fine mese?
Sono domande che ci possiamo porre per cavillosità e passione politica, ma che non ci fanno dubitare affatto sulle reali intenzioni del PD e dei suoi alleati: il bilanciamento della presenza iperliberista di +Europa e di Di Maio con l’alleanza tecnica con i rossoversi di Bonelli e Fratoianni, non garantisce un compromesso a favore della visione sociale di una coalizione che giura fedeltà ad un europeismo finanziario che si sposa con un atlantismo certo e inossidabile in politica estera.
Semmai, tocca agli elettori del PD porsi queste domande e cercare, non certo con facilità e non poca sofferenza, provare a dare un senso a quel che sembra non avere senso: le compatibilità sono un tetris imprevedibile a volte, ma non si può negare che, almeno in questo caso, siano davvero molto improbabili. Soprattutto se si prova a mettere a confronto, non tanto i tempi del renzismo che sono archiviati e che appartengono ad una stagione che ha prodotto all’Italia danni incalcolabili sul piano sociale, istituzionale ed economico, ma gli sviluppi seguenti che hanno tentato di fare del PD un soggetto capace di interpretare trasversalmente tanto gli interessi del pubblico quanto del privato.
La predominanza di quest’ultimo sull’asse di disequilibrio di una politica orientata ad obbedire ai dettami di Bruxelles e Francoforte, nel nome del disastro pandemico e dell’incertezza ulteriore generata dalla criminale guerra in Ucraina, non è mai veramente stata messa in discussione dai vertici democratici. E’ per questo che un ragionevole dubbio assale, pur cercando di avere la minore percentuale possibile di pregiudizio politico nei confronti delle manifestazioni e nella dichiarazioni di rinnovato interesse verso le classi più deboli da parte del PD.
In questi ultimi decenni, il partito di Veltroni e Bersani prima, Renzi e Letta poi, non ha dato la dimostrazione di una sostanziale continuità con il tentativo socialdemocratico del PDS e dei DS in una cornice di adeguamento alle spinte economiche europee e mondiali. Non ha resistito a tutto questo, ma ha abbracciato convintamente modernità di un capitalismo che non ha avuto alcun riguardo (e perché mai avrebbe dovuto averne…) nei confronti del trauma sociale che si andava estendendo dentro una crisi epocale che investiva l’ambiente e il rapporto tra questo e il mondo del lavoro.
Le “grandi opere“, spacciate come ineludibili necessità per una Italia al passo coi tempi e con la concorrenza su scala globale, sono state uno dei punti fondanti i programmi di governo che via via il PD si è dato per giustificare scelte che hanno impattato contro intere comunità, che ne hanno stravolto la vita e che le hanno costrette a resistenze, a lotte che ancora oggi continuano in ragione del fatto che non sono state ripensate quelle scelte ma che, anzi, sono state riaffermate con risolutezza, in perfetta simbiosi con gli stimoli liberisti che le hanno generate a suo tempo.
Il partito delle privatizzazioni, del libero mercato con qualche correzione sociale, delle liberalizzazioni e della precarietà come forma ipermoderna di sviluppo delle nuove figure professionali e di nuovi lavori, oggi si presenta all’elettorato con un programma che vuole far comprendere, capire, superando le contraddizioni evidenti del passato. Lo rileva opportunamente Cesare Damiano che, al pari di Orlando, ha la preoccupazione che questo cambio repentino di casacca non faccia poi quella breccia tanto sperata nel mondo della sinistra popolare, della sinistra diffusa, confusa e dispersa.
Dopo decenni di distruzione dei diritti sociali e di affermazione di quelli civili in sostituzione dei primi, per apparire sempre e comunque “di sinistra“, oggi il PD vi chiede di dargli fiducia su tutto quello che fino a pochi giorni fa ha negato stando al governo con Draghi. Si dice che una seconda opportunità va data a tutti, ma qui siamo, senza ombra di dubbio, almeno alla centesima opportunità.
Ed è un po’ troppo, anche per chi è disposto a pensare che votando i democratici si possa mettere quell’argine alle destre che sono state fatte dilagare nella pianura della rabbia sociale generata proprio da quegli interventi strutturali che hanno distrutto le garanzie di un tempo. Quelle garanzie che permettevano di essere svincolati dalla tagliola del voto utile, perché le coalizioni si formavano in Parlamento e non preventivamente con accordicchi di bottega e utilitarismi opportunistici.
Credere o non credere, questo è il problema. Non per noi che non abbiamo mai avuto fiducia nel libero mercato, nelle lettere di Bruxelles e nell’attribuzione dei fondi del PNRR. Ci affidiamo ad una Unione Popolare nel vero senso della parola: per la pace, per la giustizia sociale che non scende a patti con precarietà, privatizzazioni e sviluppismi legati soltanto all’orizzonte del capitalismo liberista. Non è la rivendicazione di una coerenza a tutto tondo. Errori ne abbiamo fatti e continueremo a farne. Ma, quanto meno, siamo sicuri che i nostri programmi sono tutto fuorché il contrario di quello che qualche mese fa dicevamo e, in direzione ostinata e contraria, andiamo affermando ben da prima che il PD e le destre attuali esistessero.
MARCO SFERINI