Perché mai il mondo imprenditoriale italiano dovrebbe sostenere la coalizione di centrodestra, che esprime posizioni conservatrici e in contraddizione con il liberalismo europeo sul piano dei diritti, che con il suo neonazi-onalismo sovranista parrebbe persino entrare in rotta di collisione con l’idea stessa di Unione Europea di stampo monetario e finanziario che, invece, paiono molto più propensi a rappresentare le forze neocentriste da Calenda a Renzi, da Bonino al PD?
E’ una domanda che avrebbe avuto, almeno fino a poco tempo fa, una qualche legittimità, soprattutto nella fase post-pandemica, quando gli schemi preordinati della precedente dialettica parlamentare, tra maggioranze e opposizioni, aveva stabilito che meglio dei governi tecnici non c’erano altri esecutivi capaci di assumersi il ruolo di guardiani degli interessi liberisti nel Bel Paese.
Ma oggi, sic stantibus rebus, la domanda suddetta rischia di essere fuori luogo e anche fuori tempo massimo. Proviamo a spiegarlo. Quando fu Berlusconi a farsi interprete delle ragioni antisociali e delle prete confindustriali e finanziarie, il mondo dell’impresa fu sicuro di vedere applicato ogni singolo dettame europeo senza troppe discussioni nelle Camere, consentendo così all’industria (e non al mondo del lavoro) di vedersi versare decine di milardi di euro con il fine tanto sbandierato di incentivare le assunzioni.
A così tanti fiumi di soldi, entrati nelle casse dei padroni senza colpo ferire, non è corrisposta una contropartita in termini di aumento dell’occupazione, visto che, nel giro di vent’anni, la percentuale della disoccupazione si è ridotta, sostanzialmente, di un ben misero 2%, portando il livello dei salariati italiani dal 58 al 60%. Questo, mentre in altri paesi europei, come la Germania e la Francia, si toccavano punte ben più alte di impiego ritrovato, arrivano al 78% degli occupati grazie, essenzialmente, alla riduzione dell’orario di lavoro e alla redistribuzione del medesimo.
Dunque, i governi di Berlusconi e, non di meno, quelli di Gentiloni, Letta e Renzi, si sono prodigati nell’applicazione pedissequa del teorema liberista: limitare l’intervento dello Stato nel privato e, anzi, dare proprio a quest’ultimo tutte le opportunità possibili per espandersi sei gangli essenziali dell’amministrazione pubblica, negli affari che riguardavano e riguardano gli interventi strutturali nella materia un tempo di pertinenza degli istituti statali di previdenza, di sussistenza e di sostegno a quella fetta di popolazione indigente e precaria.
A questa avanzata del privato, almeno a far data dagli anni ’80 in avanti, con inizio nell’era craxiana del potere pentapartitico, ha segnato la vita sociale, economica e politica italiana quasi ininterrottamente fino ad oggi.
I tentativi di spostare “a sinistra” l’asse delle riforme istituzionali in materia di stato-sociale (e di quel che progressivamente ne rimaneva, sempre meno e sempre peggio gestito da una deregolamentazione a tutto vantaggio sempre e soltanto delle imprese), timidamente fatti con le coalizioni de l’Ulivo prima e de l’Unione poi, sono naufragati ingloriosamente.
Forse avrebbero avuto una qualche probabilità di riuscita se le coalizioni formate non avessero incluso di tutto e di più, da Dini a Bertinotti, da Mastella a Turigliatto, producendo programmi tanto elefantiaci quanto inapplicabili per le tensioni interne nate prima ancora che le legislature prodiane prendessero il via al suono delle campanelle di rito.
Ed è così che oggi, dopo decenni di aperture alle logiche del liberismo, ai dettami della riduzione dell’intervento statale a tutto vantaggio del privato, è divenuta prassi di governo aderire senza se e senza ma a questa impostazione di gestione degli interessi imprenditoriali tradotti nelle leggi finanziarie e nei correttivi di bilancio, così come, per meccanicistica conseguenza, nella compressione sempre più forte dei diritti sociali, delle minime garanzie e tutele per lavoratori, disoccupati, precari e pensionati.
Chiunque pensi di poter salire a Palazzo Chigi dopo il voto sa che, se vuole tentare di governare per una legislatura e di consolidare comunque il proprio potere anche in vista di crisi che potrebbero preannunciare la fine della maggioranza, non può discostarsi dal totem neoliberista, dall’assunto primordiale di quella scuola dei Chicago Boys che furono i primi consiglieri economici chiamati a sostenere il regime di Pinochet dopo il colpo di Stato contro Salvador Allende.
La grammatica del neoliberismo era e resta quella. E Giorgia Meloni, proprio nelle dichiarazioni rese a stampa e televisioni in questi giorni, abbandonando i riferimenti al sociale che erano tipici della destra che, per l’appunto, si aggettivava come tale, ereditando anche questo dalle origini del fascismo mussoliniano, di quello, per intenderci, che fece la Marcia su Roma e che poi, mutatis mutandis, ritrovò un po’ necessariamente il proprio nerbo presuntamente sociale nella costituzione della fantoccia repubblica al servizio del Terzo Reich.
Ecco perché il mondo imprenditoriale, finanziario e borsistico dovrebbe fidarsi delle destre liberiste e sovraniste di oggi: perché sono sempre meno sovraniste (nella accezione tutta salviniana del termine, oramai un po’ retrò visto il sorpasso di Fratelli d’Italia sulla Lega certificato da tutti gli istituti di sondaggistica).
Perché Meloni garantisce alle imprese che, una volta al governo, lo Stato deve incentivare le imprese ad assumerle e non deve occuparsi di tutto quello che il privato può fare, e perché, con tutta probabilità, a fare il ministro dell’economia sarà, nel governo delle destre, una personalità magari anche tecnica, magari pure slegata dall’appartenenza di partito, ma indubbiamente gradita ai mercati, al capitalismo italiano e ai centri finanziari dell’Unione Europea.
Tutto questo ricorda un po’ (anzi lo ricorda molto…) quello che accadde in Brasile nel momento in cui Jair Bolsonaro venne eletto Presidente della Repubblica: un senatore relativamente misconosciuto, tenuto a bada per le sue posizioni ultraconservatrici, xenofobo, omofobo, rivendicante il ruolo del golpismo e del militarismo nella storia della grande nazione carioca, tonante nei comizi contro la corruzione sistemica nello Stato e nella politica, divenne, con un progressivo lavoro di erosione a sinistra, il candidato preferito delle élite finanziarie e dell’imprenditoria di Brasilia e Rio de Janeiro.
E, come bene ci ricorda David Harvey nelle sue “Cronache anticapitaliste“, tutto questo poté avere luogo e trovare il suo finale approdo di successo elettorale e di acquisizione del potere presidenziale, perché Bolsonaro aveva garantito che, una volta insediatosi al Palàcio do Planalto, avrebbe nominato come ministro dell’economia proprio un di quegli uomini che avevano studiato e si erano formati alla Scuola di Chicago, nella fucina del neoliberismo reaganiano che aveva lavorato intensamente per rovesciare i tentativi di socializzazione della produzione nel “giardino di casa“, in quell’America Latina segnata dai tumulti espressione della enorme povertà che la dilaniava.
E’ un errore di prospettiva pensare che le destre estreme non siano in grado di saldare il loro autoritarismo più o meno espresso, più o meno latente, con le nuove regole del mercato internazionale, con i nuovi assetti che il sistema capitalistico intende darsi per sopravvivere alle crisi di nuovo modello.
Conservatorismo nazionale e liberismo, purtroppo, riescono a trovare il punto di contatto e di incontro proprio promettendosi reciprocamente di sostenersi e di arrivare quindi ad una simbiosi che, a rigor di logica dovrebbe essere impossibile se si considera come assunto della traduzione moderna del capitale il “meno Stato e più mercato” invocato proprio da Reagan negli USA e dalla Lady di Ferro in Gran Bretagna.
Il sacro detto andrebbe aggiornato: “meno Stato sociale e più mercato“. Il tutto governato dallo Stato istituzionalmente preposto, dal potere che la classe dirigente padronale e finanziaria decide di sostenere di volta in volta. Così si spiega la conversione meloniana dal corporativismo sociale del MSI di un tempo, consegnato all’alibi delle infatuazioni giovanili, alla più feroce politica di attacco ai diritti sociali che, ovviamente, farà binomio con la storica avversione per quell’egualitarismo civile che, invece, è uno degli assi fondanti della Repubblica nella sua Costituzione.
I rapporti di forza elettorali, del resto, sono a favore delle destre e, quindi, con le dichiarazioni rassicuranti della ex ministra della gioventù nel quarto governo di Berlusconi, imprenditori e grandi potentati possono dormire sonni tranquilli: a vegliare sui loro privilegi di classe ci sarà chi eredita lo scettro di custode del liberismo entro la cornice europea e atlantica.
Cosa ha il PD che la Meloni non può offrire a Confindustria et similia? L’”agenda Draghi“? E’ solo un’idea, una costruzione mentale che è stata utilizzata per provare a creare quella coalizione neocentrista che è franata su sé stessa in men che non si dica.
E non diciamoci certi che, sui temi riguardanti le politiche economiche e finanziare, le opposizioni saranno sempre opposizioni: verrà invocato l’”interesse del Paese” e può essere che, come già accaduto molte volte, non ultima con il davvero “fenomenale” governo di “unità nazionale“, i destini liberisti delle forze di governo si incrocino con quelle del PD, di +Europa e, ovviamente, di Calenda e Renzi.
Ne vedremo delle brutte, perché tutti i diritti saranno sotto attacco e servirà davvero che in Parlamento vi siano voci dissonanti, come quelle di Unione Popolare, per portare le istanze del mondo del lavoro e del disagio all’attenzione delle Camere e del Paese tutto. Senza una rappresentanza antifascista, per la giustizia sociale e la pace senza se e senza ma, il monocolore draghiano tornerà a farsi vedere. Epifenomenicamente, ma tornerà…
MARCO SFERINI