Eccolo l’effetto delle sanzioni della Russia contro l’Unione Europea, quindi anche contro l’Italia: è la crisi esponenziale di sistema che il capitalismo occidentale non sa gestire quando si trova a dover parare i colpi di una improvvisa impennata delle tariffe delle materie prime, quelle fondamentali per il funzionamento stesso del regime economico che si picca di essere imperituramente imperturbabile.

Le minacce di serrata dei rubinetti del gas, lanciate più volte dalle parti del governo autocrate di Mosca, non sono ventilate, non sono dei bluff da trattare facendo spallucce. Sono veri e propri atti di controffensiva nei riguardi delle misure restrittive precipitosamente inventate da una disarmonica amministrazione europea, ancora oggi divisa sul come reagire all’aumento dei costi energetici.

Questo significa che la guerra la sta vincendo Putin? Di certo non la sta perdendo, ma è altrettanto vero che le difficoltà in cui la Russia si è messa, nel tentativo di frenare l’espansionismo ad Est della NATO e nel proporre come asse dalla propria politica una visione neoimperiale del grande paese degli zar prima e del Soviet Supremo poi, non la pongono al momento nella condizione di poter venire fuori dal pantano ucraino in modo completamente indolore o, quando meno, con un profilo vincente.

Se Atene piange – si dice – Sparta non ride di certo. Ed è quello che si può chiaramente osservare sull’altro lato, quello nord-atlantico-occidentale.

Nonostante quel commercio di armi condannato dall’umanesimo pontificio, nonostante i costi degli armamenti abbiano fatto impoverire i prodotti interni lordi di intere nazioni e stiano mettendo anche a dura prova l’economia americana, la partita, seppure, dopo sei mesi, silenziata dai mezzi di informazione e ridotta ad una tragica conseguenza quotidiana dei tempi, è tutt’altro che chiusa.

I proclami di Zelens’kyj, altisonanti solo per mera propaganda, tanto quanto quelli del Cremlino e del suo Ministero degli Esteri, non muovono la linea del fronte, non la fanno avanzare verso Kherson, mentre la centrale nucleare di Zaporizhzhja è sempre sotto attacco e resta una minaccia ulteriore da proiettare su un futuro incerto dell’intera area europea, a ridosso di una UE che deve correre ai ripari se non vuole diventare in tempi brevi un continente infreddolito e privo delle capacità produttive delle sue più grandi imprese.

Gli effetti della tattica putiniana si vedono mentre le sicumere estive dei leader occidentali si affievoliscono con l’avvicinarsi dell’autunno. Le instabilità politiche non giovano a questo clima rigido che si preannuncia, anche sul piano politico, come alleato della Russia, come sostenitore indiretto di un conflitto già abbastanza contorto, intricato e dove la soluzione diplomatica è completamente sparita dalla scena e dai riflettori.

Le elezioni politiche italiane, a metà tra le vacanze fatte e quelle ancora da fare, appena oltre l’apertura delle scuole, appesantiscono, invece di risolverlo, il problema della retrocessione economica, dell’indebolimento del potere di acquisto delle pensioni e dei salari; mentre piccole e medie imprese si vedono recapitare bollette di gas e luce che sarebbero insostenibili anche per il più virtuoso, onesto e meticolosamente risparmiatore degli esercenti.

Il motore dell’economia, nonostante Confindustria provi a ricordarcelo ogni giorno, non sono i meccanismi strategici di un padronato che rappresenterebbe il nerbo economico della nazione: lo sono invece i lavoratori e le lavoratrici, tutti quelli che vengono sfruttati oggi molto più di ieri in nome di una emergenza che sta, per l’ennesima volta, portando il governo dimezzato di Mario Draghi ad un decreto di aiuti quasi esclusivamente diretto a tutelare il privato e rivolto al pubblico interesse solo per quel tanto che serve per mostrare di avere a cuore povertà e disagio sociale crescenti a dismisura.

La tronfia difesa dei valori di libertà e uguaglianza, tanto sul piano dei diritti civili quanto su quello più interessatamente economico e finanziario, col finire del periodo estivo sbatte il muso contro una oggettiva risolutezza russa nel proseguire la guerra con altri metodi.

Compiacente il favore del Generale Inverno, adesso, per almeno sei mesi, quei metodi, che non erano affatto un’arma segreta del regime putiniano, risulteranno efficaci nel provare a costringere gli Stati Uniti, la NATO e i loro acquiescenti alleati europei a diminuire l’impatto delle sanzioni contro Mosca, a cercare un compromesso per una uscita “onorevole” (molto tra virgolette) tanto della Russia quanto dell’Ucraina da una guerra che ha già ucciso e devastato troppo e per troppi mesi.

Ma la dimensione temporale del conflitto rischia di sfuggire di mano agli stessi contendenti: le incognite che avanzano ne moltiplicano altre e non è facile riannodare i fili di una questione che, da europea quale poteva sembrare, ha assunto una vera e propria dimensione globale. Del resto, difficilmente questa guerra avrebbe potuto rimanere “locale” in un mondo in cui, spostando una pedina, si fa cadere l’intero domino.

Le mosse di Putin sul gas sono state tempestive: chiusura a singhiozzo sul fronte europeo, apertura del mercato energetico russo alla Cina e all’Asia intera.

In una società dove tutto si compra e si vende, gli acquirenti e mercanti non mancano mai, soprattutto se poi condividono anche una certa visione amministrativa dei problemi sociali, del dissenso politico e culturale e se, in questo modo, intendono creare un asse di contrasto aperto con quell’altra parte del mondo che eredita dalla Guerra fredda il peggio che vi potesse ancora essere: la prepotenza della NATO.

L’unica proposta sensata, in questo misticanza di posizionamenti bellici, trattative interstatali e intercontinentali, politiche estere virtuali e sovrabbondanza di complicazioni interne, è il tetto massimo al prezzo delle materie prime energetiche. Il punto dirimente però, come sempre, è il contesto in cui si intende formulare un punto di non ritorno, un paletto fermo e irremovibile: se non si accompagna a questa misura anche una ripubblicizzazione di tutto il comparto energetico, la toppa finirà per essere peggiore del buco.

Il pericolo che si crei una congiuntura sfavorevole per una ripresa economica che tuteli anzitutto la grande distribuzione, in tutto e per tutto, e favorisca la altrettanto grande finanza, trascurando in larga parte un ceto medio che andrebbe ad impoverirsi sempre più, è un pericolo concreto: la presumibile vittoria delle destre alle elezioni politiche del 25 settembre non lascia, da questo punto di vista, presagire nulla di contrariamente favorevole.

L’asse tra sovranismo e liberismo si andrebbe saldando proprio in nome della tutela degli interessi italiani dentro un contesto europeo non più messo in discussione. Si sa, le compatibilità istituzionali, il potere acquisito e la sua gestione complessa e molto articolata nelle ricadute territoriali, nonché sul piano del cosiddetto “prestigio internazionale”, portano a più miti consigli anche le veemenze revanchiste della destra estrema.

Una destra che tuttavia, non dimentica il compito che si è data: trasformare la Repubblica parlamentare in presidenziale, escludere qualunque cultura egualitaria in senso sociale e civile e mettere al centro dell’etica di governo il principio meritocratico, per cui è giusto che se la possa cavare chi dà a sé stesso e alla “patria” magari non un figlio o l’oro come ai tempi del crapun, ma tutte le capacità manuali ed intellettuali da poter lasciar sfruttare alla moderna imprenditorialità.

L’offensiva atlantica e liberista da un lato, quella sovranista e autocratica dall’altro. L’Europa è nel mezzo, tra due grandi blocchi di interessi a tratti convergenti, a tratti ampiamente divergenti. L’unica soluzione per iniziare, almeno in Italia, a tracciare una strada di cambiamento radicale, di alternativa vera a queste due opzioni autodistruttive per l’umanità e per il pianeta, è scegliere di dare al Paese un governo in cui non trovino posto né il liberismo, né tanto meno i sogni autoritari di certi neonazi-onalisti.

I rapporti di forza possono cambiare ma, per poter fare in modo che questo avvenga, i progetti oggi divisi di recupero di un progressismo di nuova generazione (per intenderci i Cinquestelle di Conte, Sinistra Italiana, Verdi e Unione Popolare) devono convergere in un fronte unitario, devono darsi come missione quella di una trasformazione sociale, sindacale, politica e culturale plurale e singolare al tempo stesso.

Tutti aspetti che si tengono vicendevolmente, inseparabili se si vuole veramente capovolgere l’insensatezza dell’oggi e tracciare un percorso di attualizzazione della democrazia tanto nell’immediatezza dell’oggi quanto nella previsione di un futuro degno di essere vissuto.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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