Nessuno degli interpreti politici e tecnico-istituzionali delle necessità strutturali del liberismo italiano, quindi delle grandi, enormi aziende che incamerano i cosiddetti “extra-profitti” (o “extra-gettito” che dir si voglia), vuole scontentare questo mondo dove si incamerena somme che derivano essenzialmente da speculazioni mercatiste e, successivamente, anche finanziarie.

Non è soltanto una questione di sforamento ennesimo del bilancio, di quello scostamento che è sinonimo di ulteriore debito pubblico per poter andare avanti e coprire il costo di tamponamenti immediati al fine di evitare disastri sociali (ed anche imprenditoriali) su vasta scala. Ad una prudenza interclassista, tesa a limitare i danni della rabbia popolare, della parte più indigente che è anche una larga fascia della parte votante (ma pure della parte astensionista) il 25 settembre prossimo, si va a sommare la preoccupazione più che legittima per la tenuta internazionale della nostra economia.

Far emettere titoli di Stato dal Ministero del Tesoro per un effetto diga alla crisi economica o, per meglio dire, al protrarsi dell’intenzione speculativa di lungo corso sui prezzi del gas e dell’energia (al momento ancora un tutt’uno) retta dall’alibi della guerra in Ucraina, è, sul lungo termine, una soluzione miope, ma l’unica possibile senza una vera alternativa che altro non potrebbe essere se non la tassazione, almeno al 90%, proprio di quell’extra-gettito di imprese come ENI che hanno avuto un aumento degli introiti pari al 3800% nel corrente anno.

Non è dunque affatto vero che i soldi per correggere le storture del mercato non vi sono. Non li si vuole prendere da chi li ha e li ha fatto ben oltre la legittimità della legge concorrenziale, del virtuosismo di una compravendita delle materie prime che, almeno ancora per il momento, sono quelle – se ci riferiamo a gas e luce – che sono state acquistate ben prima dell’imbuto in cui siamo finiti con pandemia e guerra ad un costo cinque volte inferiore a quello attuale (0,30 euro al metro cubo contro l’1,50 a cui vengono venduti ai distributori oggi).

Che Draghi non voglia divenire sinonimo di tassazione del suo stesso ceto di riferimento, della grande impresa e della grande finanza speculativa, è più che comprensibile (si fa per dire…). Ma che la risposta delle forze politiche che si dicono progressiste sia affidata soltanto allo scostamento di bilancio o – come sostiene il ministro Orlando – ad una tenue possibilità di aumento fiscale sugli extra-profitti lievemente superiore all’attuale 25%, è molto meno capibile se si pretende ancora di potersi definire “di sinistra“.

Sulle destre e sul centro nemmeno a farle queste ipotesi. Tempo sprecato. La linea rigorista del liberismo calendian-renziano, e quella ruffianissima dei sovranisti, in prima posizione per rientrare nella sala con i bellissimi affreschi del fiammingo Jan Leyniers, non vede alternativamente di buon occhio nemmeno l’aumento del debito ma, nel caso in cui non vi fosse altra soluzione, pretende di destinarne alle imprese un terzo e due terzi alle famiglie.

Una sproporzione evidentissima, tenendo conto che il 40% della ricchezza nazionale (specifichiamo meglio: del patrimonio di tutti gli italiani, pari a circa 10.000 miliardi di euro) è nelle mani del solo 3% della popolazione, mentre il restante 97% si divide, con la sempre presente inversione di proporzionalità tipica del capitalismo, il 60%. E siccome la maggior parte dei grandi padroni rientra proprio in quel 3% appena citato, si rischia di dare 10 miliardi di euro di finanziamento anche a chi ha generato una parte degli extra-profitti, facendo cornuti e mazziati i più poveri e indigenti.

Una proposta di buon senso sociale, quindi giusta, Draghi la va dicendo da alcune settimane e la propone come soluzione alla crisi dei costi di gas ed energia ad un’Europa che procede a tentoni, con i paesi frugali che recalcitrano, la Germania che teme le ritorsioni totali di Mosca, la Spagna e il Portogallo che invece si sono mossi autonomamente con una sagacia intrisa di giustizia sociale: il tetto al prezzo delle materia prime energetiche va imposto continentalmente, ma va preso in considerazione anche nazionalmente.

Cosa giustifica il costo così alto del gas? Forse siamo in presenza di una mancanza immediata di materie prime per il riscaldamento, per la produzione di energia? Al momento, leggendo anche i report sugli stoccaggi, parrebbe proprio di no, visto che le nostre scorte sono arrivate al 90% Allora, si dirà, è la guerra! Eureka! Ed invece no, perché – e non solo l’Italia – ci stiamo rifornendo altrove, guardando all’Africa, al Caucaso, oltre i rubinetti di Gazprom, oltre la guerra delle pipeline imposta dal Cremlino come ritorsione alle sanzioni occidentali.

Non c’è altra spiegazione se non questa, che è quella oggettiva, scientificamente economica: si tratta di semplice speculazione di aziende che vogliono trarre dall’attuale contingenza, fatta di mille incertezze, il maggior profitto possibile sulla pelle di milioni e milioni di famiglie, di persone che arrivano a stento a fine mese, di gente disperata che rischia di rimanere senza nemmeno un po’ di gas per cucinare o di luce per vedere la tv, leggere un libro…

La brutalità del liberismo arriva a tutto questo. L’”unità nazionale” draghiana questa volta non trova sbocco, non si concretizza: il macigno della competizione elettorale pesa infinitamente anche sul minimo antisindacale delle buone intenzioni di un governo a mezzo servizio (tuttavia non sfiduciato ufficialmente dal Parlamento…).

Quella del liberismo, come si evince, è una violenza inaudita, che travalica tutti gli ipocriti buoni propositi di chi sostiene di voler difendere i diritti dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, quindi della fasce più fragili della nostra popolazione e poi, caldeggiando (è proprio il caso di dirlo…) quell’araba fenice che è l’”agenda Draghi“, non fa che sostenere una delle peggiori declinazioni del modello bancario-finanziario e, quindi, tecnocratico, che vuole applicare le regole della massimizzazione di profitti a scapito della contrazione dei salari e con una inflazione che li rende ancora di più meno capaci di acquistare merci.

Ecco perché non è possibile avere una fiducia “di sinistra” in una coalizione politica che, seguendo il suo demone mercantilista, ideologicamente liberale ma praticamente liberista, finisce col restituire al proprio intero elettorato, ed in particolar modo a quello che vi si affida per battere il pericolo delle destre e, quindi, di una retrocessione in termini tanto di diritti civili quanto di quelli sociali, una risposta diametralmente opposta alle attese.

La crisi economica e sociale, che si stratifica sulle devastanti fondamenta della pandemia e della guerra tra i due poli imperialisti che la fanno sulla pelle del popolo ucraino, non può trovare una soluzione da politiche governative che rifiutano tanto lo scostamento di bilancio da far pagare ai ricchissimi di questa Italia prigioniera delle cifre del PNRR, quanto la progressività fiscale che – pur esistendo formalmente – è veramente lontana dall’essere tale.

Il costo dell’energia, così come quello delle imposte indirette, non è uguale per tutti. L’incidenza antisociale è maggiore laddove avanzano le nuove povertà, dove persino lo stesso ceto medio rischia di scendere nella scala della valutazioni statistiche un grandino più in basso, determinando uno spostamento retrocessivo dell’intero PIL nazionale.

Il balbettio europeo sull’unica proposta sensata fatta da Draghi, il già citato tetto al costo del gas, non fa che mostrare un’Unione incapace di avere tanto una politica estera quanto una politica economica che vi si affianchi: le ragioni stesse, tutte monetaristico-finanziarie, per cui sono nati e si sono (in)voluti prima il MEC, poi la CEE e infine la UE, vengono desolatamente meno, mentre avanzano, come contraltare politico, proposte sovraniste che hanno largo accesso tra le masse prive di un vero riferimento sociale-politico.

La responsabilità dell’apertura di questa nuova prateria di consensi per i partiti peggiori della tornata elettorale, che darà avvio alla XIX legislatura della Repubblica, è in larga misura ascrivibile ad un mancato riformismo socialdemocratico e ad un suo asse con un liberalismo moderato che dovrebbero interpretare, unitamente, un contenimento delle prepotenze del mercato globale e continentale.

Il ruolo della sinistra vera, di alternativa, antiliberista, che ancora mette al centro del suo programma la proprietà comune dei mezzi di produzione (per quanto possa apparire anacronistico affermarlo, ma le evidenze dimostrano il contrario), deve potersi vedere chiaramente, distinguibile dall’uniformità che si crea tra i cosiddetti “centrodestra” e “centrosinistra” in una fase politica di ricatto continuo verso l’elettorato, molto poco credibile, in particolare oggi innanzi a numeri di sondaggi che scoraggerebbero chiunque a puntare su una vittoria della coalizione “progressista e democratica“.

L’obiettivo di Unione Popolare deve essere quello di far tornare in Parlamento e tra la società le istanze dei più deboli, per riaffermare così un legame, ormai molto dimenticato, tra piazza e palazzo, restituendo la politica a sé stessa. Tutto il resto non è noi, ma sono guai. Guai veramente seri che pagheremo noi che non dirigiamo aziende, che non abbiamo azioni e che non spartiamo alcun dividendo da quei cinici e spietati extra-profitti che, ad ora, sono la vergognosa quinta essenza di un capitalismo omicida.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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