Credits: La disoccupazione giovanile in Italia continua a crescere (fanpage.it)
Qualche breve considerazione a proposito dell’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), riferito all’occupazione lavorativa dei giovani tra i 15 e i 24 anni. Per loro, la perdita del posto di lavoro è stata di molto superiore a quella degli adulti, tanto che il numero dei giovani disoccupati a livello globale, alla fine del 2022 arriverà a essere di 73 milioni. Leggermente inferiore ai 75 milioni registrati nel 2021, ma comunque superiore di 6 milioni al 2019, periodo precedente la pandemia, che ha pesantemente inciso sui dati. Nel 2020, si è anche raggiunto il maggior picco di giovani non solo privi di lavoro, ma anche di istruzione e formazione, registrato da oltre 15 anni (23,3%, un incremento di 1,5 punti percentuali rispetto all’anno precedente).
Molto evidente, anche qui, la penalizzazione delle ragazze rispetto ai ragazzi. Per il 2022 si prevede che le giovani disoccupate saranno il 27,4% della popolazione giovanile femminile complessiva, mentre resterà senza lavoro il 40,3% dei giovani maschi presenti nel mondo.
Per quel che riguarda i paesi dell’America Latina, l’indice di disoccupazione giovanile continua a essere assai elevato, e si prevede arrivi al 20,5% nel 2022, e che continui ad accentuare il divario di genere già esistente. Lo studio ha fornito alla destra venezuelana l’occasione per riproporre statistiche catastrofiche e parziali, provenienti dal Fondo Monetario Internazionale (che non ha uffici in Venezuela, ma pretende di avere i dati più aggiornati), o da indagini orientate dalla stessa visione: nel 2021, la disoccupazione in totale sarebbe stata del 58,3%, la più alta del mondo. Per il governo bolivariano, invece, sarebbe stata tra i 7 e l’8%, e pur considerando gli effetti devastanti delle misure coercitive unilaterali, aggravati dalla pandemia. La guerra mediatica cerca di contrastare il trend positivo dell’economia venezuelana, riconosciuto anche dagli organismi internazionali: il Pil è cresciuto del 17,04% nel primo trimestre di quest’anno, la più alta crescita della regione, e il paese è uscito dall’iperinflazione. Si ripropone a tutti i costi l’immagine del “socialismo fallito”, quando lo stesso rapporto Ilo raccomanda che, nei settori che promettono una maggior occupazione giovanile (il digitale, l’economia “verde” e i lavori di cura), questa sia accompagnata da condizioni di lavoro dignitose, di cui difettano i sistemi capitalisti. Le offerte di lavoro ai giovani delle classi popolari, sempre più lontani dai processi formativi, sono spesso al di sotto della decenza. In Venezuela, al contrario, pur con tutte le difficoltà, sono quasi 5 milioni i lavoratori che hanno ottenuto un titolo di tecnico superiore universitario. Il piano di formazione e impiego per i giovani dai 15 anni ai 35, Chamba Juvenil, attivo dal 2017, prevede un compenso di primo impiego pari al salario minimo e un sussidio di formazione, oltreché alle altre agevolazioni previste per fasce di reddito o categorie. Il sistema che la destra vorrebbe ripristinare in Venezuela per tornare a far man bassa delle risorse, ponendole nelle mani di pochi, invece, deve mettere a profitto, sia in termini economici che ideologici, anche la disoccupazione, in quanto prodotto necessario dell’accumulazione capitalista: perché ha bisogno di una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale. Come ha spiegato Marx, anche in presenza di quella che oggi si chiamerebbe “crescita economica”, che può dar luogo a un aumento assoluto del capitale variabile, con assunzione di lavoratori, quell’aumento risulta sempre in proporzione decrescente rispetto al capitale costante. E così, all’interno della divisione globale del lavoro, che si serve di zone a più intenso sfruttamento del lavoro vivo, e nella crisi sistemica del modello, caratterizzata da crisi di sovrapproduzione, si legge con molta meno enfasi di quella esibita dai media egemonici il dato del rapporto Ilo, secondo cui in Nordamerica si prevede un indice di disoccupazione giovanile all’8,3%, inferiore alla media mondiale.
L’analisi marxiana della sovrappopolazione è uno dei primi tentativi di fornire una spiegazione storica e teorica della tendenza del sistema capitalistico a generare, in virtù delle sue proprie dinamiche, una quota di popolazione eccedente rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale.
Se è vero che quella che oggi chiameremmo la “crescita economica” può determinare un aumento assoluto del capitale variabile, destinato ad assumere lavoratori, tale aumento, tuttavia, risulta sempre in proporzione decrescente rispetto al capitale costante. In altri termini: il procedere dell’innovazione tecnologica e dell’accumulazione capitalistica può anche determinare un aumento assoluto dei lavoratori impiegati, ma non può eliminare la presenza sempre crescente di una sovrappopolazione relativa, rapportata, cioè, ai lavoratori occupati dal capitale. Non vi è alcuna garanzia, sulla base delle regole di funzionamento dell’economia di mercato capitalistica, che i lavoratori disoccupati soppiantati dalle macchine trovino un lavoro in altri rami produttivi o in altri stabilimenti.
L’attrazione o la repulsione dei lavoratori dal processo produttivo è soggetta anche agli andamenti ciclici degli investimenti tipici dell’economia capitalistica: ieri come oggi, infatti, i lavoratori tendono a subire passivamente le decisioni di chi possiede i mezzi di produzione, andando incontro periodicamente all’aumento del pericolo della disoccupazione.
La produzione capitalistica tende quindi a produrre, per le leggi stesse del suo funzionamento, una popolazione eccedente rispetto alle esigenze del capitale, una sovrappopolazione che è “artificiale”, cioè legata a tale specifica forma, storicamente determinata, di produrre la ricchezza sociale.
Anche i flussi migratori, interni o esterni a un paese, sono in larga misura un prodotto della sovrappopolazione relativa, e andrebbero studiati in relazione alle dinamiche della produzione e del mercato del lavoro.
Le diverse forme di disoccupazione (o sovrappopolazione) prodotte dal capitalismo diventano anche una condizione di esistenza e consolidamento di tale modo di produzione. I lavoratori disoccupati costituiscono una riserva di manodopera sempre a disposizione del capitale, avente sia la funzione di rendere sempre possibile un aumento della produzione, nei momenti espansivi del ciclo economico, sia di tenere bassi i salari, grazie alla concorrenza fra lavoratori occupati e disoccupati: questi ultimi, pur di lavorare, sono quasi sempre disposti ad accettare salari più bassi. È soprattutto in relazione a questi aspetti che si comprende meglio l’uso da parte di Marx dell’espressione “esercito industriale di riserva”, una metafora militare che compare in Inghilterra intorno al 1840, e viene ripresa dal movimento cartista. L’esercito industriale di riserva costituisce una forza lavoro temporaneamente disoccupata ma sempre a disposizione delle imprese, che possono servirsene quando intendono accrescere la produzione o quando intendono avvalersene per diminuire le pretese salariali dei lavoratori occupati. La teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva si rivela utile anche per comprendere la dinamica dei salari. Il livello del salario, secondo Marx, è determinato essenzialmente dal livello della disoccupazione:
I movimenti generali del salario del lavoro sono regolati esclusivamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, le quali corrispondono all’alternarsi dei periodi del ciclo industriale. Non sono dunque determinati dal movimento del numero assoluto della popolazione lavoratrice, ma dal mutevole rapporto in cui la classe dei lavoratori si scinde in esercito attivo e in esercito di riserva, dall’aumento e dalla diminuzione del volume relativo della sovrappopolazione, dal grado in cui questa viene ora assorbita ora di nuovo messa in libertà (ivi, p. 705).
La presenza della disoccupazione, dunque, è un fatto normale e necessario in un’economia capitalistica. Come è accaduto nel corso della storia dell’età contemporanea, il peso della sovrappopolazione può essere alleggerito attraverso diversi rimedi (come i flussi migratori fra aree geografiche o mediante la riduzione delle classi di età ammesse al lavoro, con l’innalzamento dell’obbligo scolastico o l’estensione dei sistemi pensionistici) ma mai del tutto eliminato. Quando, per diverse ragioni, intervengono fattori politici straordinari che consentono il raggiungimento della piena occupazione, la sopravvivenza del sistema capitalistico è messa a dura prova, a causa del tendenziale annullamento dei margini di profitto, della crescita dei salari e dell’aumento del potere rivendicativo del movimento operaio. Questo aspetto è stato pienamente colto da molti economisti del Novecento, come Beveridge e Kalecki, ed è illustrato pienamente da molte circostanze della storia del Novecento che videro l’ingresso dello Stato quale principale attore economico (ad esempio la Prima guerra mondiale o l’intervento pubblico degli anni Cinquanta-Settanta).
Sempre nel ventitreesimo capitolo del Libro primo del Capitale Marx fornisce infine un’accurata analisi dei diversi strati che possono comporre l’esercito industriale di riserva, offrendo categorie di analisi utili anche per la comprensione del presente. “La sovrappopolazione relativa – osserva Marx – esiste in tutte le sfumature possibili. Ne fa parte ogni lavoratore durante il periodo in cui è occupato a metà o non è occupato affatto” (ivi, p. 709). Come si può osservare, Marx si riferisce in questo caso non soltanto alla disoccupazione vera e propria, ma anche alla sottoccupazione, come ad esempio il lavoro a tempo parziale. Le tre principali forme in cui può manifestarsi la sovrappopolazione sono: quella fluida (fluttuante), quella latente e quella stagnante.
La sovrappopolazione fluttuante è quella corrispondente al periodico fluire e defluire dei lavoratori dagli impieghi offerti dal sistema produttivo, in funzione del ciclo economico. Nei momenti di crescita l’occupazione aumenta, mentre nelle fasi di crisi aumenta il numero di persone che perdono un lavoro. La divisione del lavoro tipica del sistema capitalistico (ossia la specializzazione e la separazione fra i diversi settori lavorativi) può anche generare fenomeni di sovrappopolazione limitati solo a determinati rami produttivi, con il paradosso che in alcune industrie si può registrare una mancanza di braccia, mentre in altre può persistere un’elevata disoccupazione.
Nelle fasi iniziali del moderno sistema di produzione, con lo sviluppo del capitalismo nelle campagne, si diffonde anche la proletarizzazione dei lavoratori agricoli che, nella misura in cui diventano lavoratori salariati, divengono costantemente esposti al rischio della disoccupazione, alimentando spostamenti di popolazione dalle campagne alle città e ingrossando le file del proletariato urbano disoccupato. Quest’ultimo processo comporta la formazione di una popolazione contadina sovrabbondante, una sovrappopolazione che rimane latente (e quindi non immediatamente visibile) fintantoché i canali di deflusso verso le città non si aprono in maniera consistente. L’esistenza di questa forma di sovrappopolazione latente coincide con la sottoccupazione rurale presente nelle economie non ancora pienamente industriali: una riserva di manodopera inutilizzata che resta “nascosta” nelle pieghe dell’economia contadina tradizionale. In quelle condizioni di norma si lavora meno di quanto si potrebbe, in condizioni di bassi guadagni e povertà diffusa.
La terza categoria della sovrappopolazione relativa – quella stagnante – coincide con quello che oggi chiamiamo il lavoro precario o irregolare, ovvero la cosiddetta fascia “secondaria” del mercato del lavoro. Secondo Marx la sovrappopolazione stagnante, infatti, “costituisce una parte dell’esercito lavoratore attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe dei lavoratori, e proprio questo ne fa la larga base di particolari branche di sfruttamento del capitale. Le sue caratteristiche sono: massimo di tempo di lavoro e minimo di salario” (ivi, p. 712).
Al di sotto di queste tre forme di sovrappopolazione, infine, secondo Marx va collocata la sfera del pauperismo, che affianca le diverse figure che compongono il sottoproletariato in senso stretto (vagabondi, delinquenti e prostitute). Lo strato del pauperismo consiste a sua volta di tre grandi categorie: le persone capaci di lavorare, gli orfani e i figli di poveri, e infine gli inabili al lavoro, spesso vittime dello stesso sistema di fabbrica
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