di Gianfranco Laccone (ripreso da comune-info.net)
Sotto una coltre di colpevole silenzio (soprattutto in Italia), stanno passando all’interno della UE scelte che condizioneranno la produzione agricola dei prossimi anni e si rimangeranno il timido orientamento al rispetto dell’ambiente ed alla qualità dei prodotti agroalimentari che si era cercato di ottenere prima della pandemia e della guerra. Con una campagna a tamburo battente di tutte le lobby del sistema industriale e con il colpevole consenso delle organizzazioni agricole della UE si cerca di tornare indietro nel tempo. Si rispolverano vecchi discorsi sulla sicurezza alimentare del pianeta che sarebbe raggiungibile solo attraverso la tecnologia e le proteine animali, sicurezza che, a sua volta, necessiterebbe il ripristino di tutti i più arcaici sistemi ad energia fossile o nucleare per essere ottenuta. Un discorso che torna tanto indietro nel tempo da riabilitare i metodi da “campagna del grano” di mussoliniana memoria, da chiedere di utilizzare a scopi produttivi tutte le terre coltivabili e, di conseguenza, che porti alla chiusura delle frontiere anche per gli alimenti (per i migranti già esiste…). Sotto la giustificazione di voler fornire cibo a tutti e di voler mantenere il “benessere energetico” dei cittadini dell’Unione Europea, si chiede di sospendere qualunque approccio rispettoso dell’ambiente, con la motivazione: “siamo in emergenza!” e di accettare come innovazione solo quella sotto il brevetto ed il controllo delle multinazionali che, come tutti sanno, lavorano per migliorare la vita del genere umano e non per avere profitti…
In un mélange di nazionalismo (perché vale per qualunque Paese l’affermazione: “Il nostro cibo è sempre il migliore!”), di neocolonialismo e nostalgia dei bei tempi della società industriale, si cerca di far passare alcuni provvedimenti: la sospensione della riforma della Politica Agricola Comune (PAC) considerata troppo ambientalista (invece lo è troppo poco), la deroga al rispetto delle norme contro l’inquinamento (come se il cambiamento climatico non ne fosse diretta conseguenza), l’utilizzo di modificazioni genetiche di nuova generazione considerate la soluzione a tutti i problemi (ovviamente, senza solide prove a carico). In particolare in Italia, luogo in cui l’agricoltura negli ultimi trent’anni si è sempre più affidata al sistema del mercato globale aumentando il proprio export, internazionalizzando la proprietà dell’agroalimentare.
Il risultato è stato che la retorica glamour del made in Italy e del Paese dove si mangia meglio non corrisponde ai fatti: i cittadini italiani riducono il consumo di cibo locale e si affidano sempre più ad un sistema di alimentazione standardizzato, simile in tutti i paesi industriali. Di conseguenza aumentano i consumi di cibo con eccesso di proteine animali, di zuccheri, di additivi, a scapito di un’equilibrata dieta mediterranea o di quella vegetariana. Aumentano quindi le patologie derivanti da questi squilibri alimentari (obesità, cardiopatie, malattie dell’apparato digerente, allergie) ma contemporaneamente non si riducono quelle collegate all’alimentazione “povera” che, viste le condizioni economiche in cui stanno ricadendo molte famiglie, tendono ad aumentare in particolari fasce della popolazione (anziani e famiglie a basso reddito).
In questo quadro poco rassicurante, il Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali (MIPAAF), con una vista simile a quella della talpa, ha proposto un Piano Strategico Nazionale (PSN) di applicazione della PAC riformata che è stato respinto dalla Commissione di Bruxelles, a cui si invierà una nuova proposta a settembre. I Piani nazionali strategici che ciascun Paese comunitario è chiamato a redigere sono i tasselli del mosaico della nuova PAC; i primi in via di approvazione sono stati proposti da Portogallo, Polonia, Spagna e Francia che così si candidano ad essere la guida per la riforma della PAC fondata su di un orientamento timidamente ambientalista, ma considerato troppo innovativo dal mondo agricolo italiano arroccato sulla difesa dello status quo.
Per capire quanto poco abbia prodotto questo atteggiamento, vale la pena riportare un passo del giudizio espresso dalla Commissione che mette in evidenza le gravi carenze esistenti nel PSN italiano: “Il piano, nella sua forma attuale, non è sufficiente. La Commissione osserva che numerosi elementi del piano, descritti nelle sezioni successive, sono mancanti, incompleti o incoerenti; non è pertanto possibile effettuare una valutazione approfondita della coerenza tra l’analisi SWOT, le esigenze individuate e la strategia, né dell’ambizione e dell’accettabilità del piano. In particolare, in assenza di target finali quantificati per gli indicatori di risultato, non è possibile valutare l’adeguatezza e il livello di ambizione della logica di intervento proposta per ciascun obiettivo specifico.”
Il giudizio coinvolge non solo l’amministrazione ma anche le maggiori organizzazioni di settore che, nonostante l’importanza dell’agroalimentare italiano nel tessuto produttivo europeo, non sono state in grado di inserirsi autorevolmente nel discorso comune, considerando secondari alcuni aspetti relativi al rispetto e miglioramento sia delle condizioni ambientali nei territori di produzione, sia della tutela dei consumatori.
Nella società italiana, nel corso degli ultimi trent’anni, si è accentuata la spaccatura tra una fascia di consumatori attenta a ciò che mangia, spesso favorita da un reddito superiore alla media, e un’altra che ha il problema di far quadrare i bilanci familiari e che acquista ciò che costa meno e riempie più lo stomaco. La modifica delle patologie alimentari collegata alla fascia di reddito e al livello culturale dei consumatori è un dato da cui partire per evitare che la visione veicolata dai messaggi pubblicitari del made in Italy sostituisca quella fondata sui dati reali.
La discussione avviata tra “gli alternativi” (ambientalisti, produttori bio, animalisti, consumeristi, fautori della decrescita, ecc.) purtroppo è ancora insufficiente, e avviene a livelli molto teorici e poco integrati tra le diverse anime che compongono questa parte della società perché possa svolgere un’influenza egemonica. Per parte dei consumatori (sono tra i responsabili di ACU – Associazione Consumatori Utenti, accreditata a livello nazionale) abbiamo cercato di non mantenere la voce critica isolata inserendoci nella coalizione “Cambiamo l’agricoltura!”, nata nel 2017 a livello comunitario proprio per seguire il processo che ha portato alla PAC post 2020, è sostenuta in Italia da oltre 80 sigle tra Associazioni dei consumatori, ambientaliste e dell’agricoltura biologica. Si tratta della parte nuova e propositiva del sistema agroalimentare che dovrebbe essere considerata punto di riferimento per quanti vogliono un’agricoltura a misura di vivente (uomo, animale, vegetali). Le nostre proposte, inviate puntualmente, sembrano cadere nel vuoto rispetto alla formulazione del PSN e non abbiamo avuto contezza né della revisione approntata, né di quante delle nostre proposte essa contenga; constatiamo che le lobbies italiane di settore sono ancora troppo forti, anche se risultano più isolate che in passato a livello comunitario.
Ma il freno al cambiamento viene anche dalla società: per il cittadino medio è ancora valido il discorso di difesa del made in Italy, senza una valutazione critica dei sistemi produttivi del made in Italy che hanno contribuito, in modo anche inconsapevole, all’inquinamento e al degrado delle risorse del Paese. Un consenso dato indipendentemente dai propri consumi, poiché spesso ciò che si consuma è scollegato dalle campagne che circondano il luogo in cui si abita e l’attenzione alle etichette dei prodotti è posta frettolosamente solo alla loro data scadenza e quasi mai agli ingredienti o al sistema di produzione e commercializzazione dei prodotti. Si è contrari al lavoro illegale ed ai contratti informali per quanto riguarda se stessi, ma poi si comprano pomodori, banane, prosciutto senza chiedersi da dove vengano e come vengano prodotti. Quando ci si pone tali domande e si agisce di conseguenza, si constata che il costo della spesa aumenta e, in genere, non si riorganizzano i propri consumi e il proprio stile di vita, cose che richiedono impegno e costanza, ma si infila la testa nella sabbia e si continua come prima
Sarà il cambiamento climatico a condizionare i nostri comportamenti, anche se oggi esso è visto come fatto “emergenziale” e non strutturale. Ogni comportamento che prescinda da questa considerazione sarà destinato al fallimento e dovremmo ritenere la decrescita programmata un obbligo, anche in campo agroalimentare. Le posizioni espresse dal mondo ambientalista e consumerista, ormai, non rappresentano in astratto la tutela di valori sociali o ambientali, ma sono concrete indicazioni per gli agricoltori che praticano produzioni biologiche e producono risultati evidenti. Non è per caso che aumenta il numero di chi pratica un’agricoltura solidale o rispettosa dell’ambiente (anzitutto biologica), poiché i risultati economici ci sono e spesso sono consistenti. Questi coltivatori, oggi, nonostante le avversità, riescono a mantenere le strutture produttive, che rappresentano la punta di diamante della cosiddetta resilienza in ambito agricolo.
Per cercare di rompere l’orizzonte chiuso che chiude in una sorta di riserva dorata quelle che potrebbero essere i modelli produttivi futuri e per superare l’incapacità di pensiero condiviso ed egemonico da parte degli “alternativi”, pongo tre questioni per sviluppare un PSN agricolo a favore dei consumatori e per avviare una riforma della politica agricola che coinvolga i cittadini e non solo gli addetti ai lavori, con l‘obiettivo di sviluppare a livello comunitario la “politica del cibo” e non solo quella della produzione agricola.
- Come facciamo per favorire anche in agricoltura la circolarità del sistema e l’inversione del consumo energetico?
Meglio di me, Stefano Mancuso in Italia ed in precedenza molti studiosi in altri Paesi hanno messo in evidenza le capacità delle strutture vegetali di diventare modelli per il contrasto ai cambiamenti climatici e per la capacità di accumulare CO2, liberare ossigeno e catturare energia rendendola disponibile. Cosa c’è di più circolare del funzionamento delle piante? Non mi sembra che tale assunto sia diventato strumento guida per orientare le produzioni ed il comportamento degli agricoltori e che il PSN italiano favorisca la produzione vegetale rispetto a quella zootecnica per rispondere, ad esempio, alla carenza idrica. Poiché dal punto di vista alimentare la riduzione del consumo di proteine animali è una priorità, come consumatori siamo favorevoli a campagne di promozione di consumi alimentari diversi, e gradiremmo che l’amministrazione pubblica favorisse tali campagne, come quelle per il benessere animale contro gli allevamenti intensivi. Soprattutto, che il PSN articolasse percorsi di uscita dal ciclo produttivo carneo o riconversione qualitativa delle aziende. Invece verifichiamo il ricorso a interventi emergenziali ed il sostegno piuttosto massiccio e indiscriminato del settore, ripetendo il metodo miope utilizzato nel settore siderurgico allorquando, dinanzi alla sicura prospettiva di riduzione dell’utilizzo di acciaio di ogni tipo e di immane inquinamento causato dalle aziende siderurgiche, invece che riconvertire e disinquinare, i governi e le forze sociali scelsero di sostenere un settore in perdita. Mi sembra che un settore come quello zootecnico meriti una fine meno ingloriosa di quella affidata al settore siderurgico
In merito al consumo energetico, sottolineo come sotto tale voce non ci sia solo l’utilizzo di concimi, antiparassitari, macchinari energivori largamente impiegati dalle aziende del settore, le quali ora, per motivi facilmente intuibili, si guarderanno bene dallo sprecare soldi in prodotti che non garantiscano un sicuro reddito e che, oltretutto finiranno nelle falde, aumentando l’inquinamento o, nel caso di carburante e antiparassitari, peggioreranno la qualità dell’aria che respiriamo. Ormai anche l’acqua è un fattore costoso e limitante, e pone il problema del suo impiego, dell’eccessivo consumo, dei mancati piani di bacino. Sono stati consigliati/obbligati gli agricoltori di determinate zone a mettere colture più resistenti alla carenza idrica, a ridurre i capi di bestiame, a utilizzare le acque reflue? Se non lo si è fatto, perché? E se lo si è fatto perché le indicazioni fornite non sono state seguite? Il Piano cosa prevede per tutto ciò? Intendo non solo come grandi investimenti o utilizzo di tecnologia innovativa e costosa, che solo alcuni potranno permettersi. Il PSN punta molto su strumenti finanziari, come le assicurazioni, per limitare i danni dei cambiamenti climatici, ma non sarà certamente l’utilizzo generalizzato delle assicurazioni a tirare fuori il settore dalle secche in cui è entrato. Il contributo di esperienza che le associazioni di tutela dei consumatori hanno accumulato in altri settori (auto) ci spinge a ritenere necessario un organismo di controllo con la nostra presenza, necessari in tanti settori per meglio tutelare gli agricoltori . Tutto ciò è previsto dal PSN revisionato?
- Come riusciamo a tutelare i prezzi a consumo e i prezzi alla produzione, favorendo il consumo di cibo di qualità e sapendo che la massa dei consumatori ha un reddito medio-basso?
Vorrei che fossero fornite spiegazioni convincenti su come mai un anno di pandemia globale, di blocco delle attività produttive e della circolazione delle merci non abbia causato gli stessi danni al sistema alimentare di quanto realizzato con pochi mesi di guerra (aumento incontrollato dei prezzi al consumo e dei mezzi tecnici in agricoltura). E perché dopo pochi mesi di guerra (che ci vede ancora poco coinvolti) si chieda lo stato di emergenza nel settore agricolo e addirittura il ripristino di condizioni di politica agricola “vecchio stampo” con l’aumento delle produzioni (unitarie e complessive), la messa a coltura delle superfici oggi escluse ed altre iniziative che ricordano nella sostanza quelle autarchiche? Credo che l’interesse dei consumatori non sia quello di una tutela a ombrello di un settore che non cerca di sottrarsi al massacro dei cosiddetti “mercati globali”, causa prima del disastro economico ed ambientale, e che il PSN dovrebbe prevedere delle vie d’uscita da un sistema globale, in cui non esiste il giusto ricavo ma solo la speculazione, senza chiudere la porta al sistema di scambio. Ad esempio, alcune iniziative come: la creazione di microaree di interesse reciproco con i paesi rivieraschi del mediterraneo, la creazione di un sistema prezzi di scambio che si separi dal sistema internazionale e che valorizzi gli sforzi produttivi di area, mantenendo comunque rispetto per il sistema energetico, credo che siano strade da percorrere per evitare le guerre di settore ed una politica di aiuti che, svolta in un momento di necessità, ricorda molto quella neocoloniale e venga vista con diffidenza dalle popolazioni interessate.
Mi sembra evidente che tra settore agricolo e settore energetico ci sia un legame ben più profondo di quello sino ad ora considerato, e che tra consumatori e produttori il legame non possa prescindere dalla presa in carico dei due settori. Energia e alimentazione non sono cose estranee, sono come un albero: se noi ci limitiamo a considerare quello che vediamo (come abbiamo fatto sino ad ora) diremmo che l’albero è fatto da tronco, rami, foglie, frutti. Se includiamo ciò che non vediamo, sapremo che le radici ed il fusto sottoterra sono componenti di eguale valore e importanza. Sino ad oggi abbiamo considerato energia e produzione agricola cose separate, dovremo imparare a considerarle assieme. Il PSN dovrebbe aprire questa strada.
Cosa c’entra tutto ciò con i prezzi alla produzione e quelli al consumo? C’entra più di quanto noi pensiamo, perché solo le produzioni che si baseranno su energia rinnovabile e su mezzi tecnici originati da prodotti riciclati o materie seconde saranno in grado di offrire prodotti alimentari di qualità a basso prezzo, senza essere in perdita e mostrandosi in grado di sostenere il sistema della concorrenza. Inoltre, solo comunità energetiche che vedano partecipi della base produttiva i consumatori delle aree urbane ed i produttori agricoli della stessa area saranno in grado di offrire prodotti a basso costo per i consumi collettivi e riceveranno in cambio i residui alimentari come materia per la produzione del compost. Tutto su base locale e possibilmente bio, senza concimi ed antiparassitari di sintesi. Cosa prevede il PSN per la creazione di un grande sistema a rete, capillare, che sostenga la ripresa produttiva di area, la tutela dei salari non solo agricoli, la defiscalizzazione e l’incentivo per le aziende che si inseriscono nel circuito? Ed in queste valutazioni non ho inserito gli aspetti d’interesse collettivo come la qualità dell’aria, quella del suolo, quella delle acque, della raccolta rifiuti che marcheranno i costi di tassazione locale oggi altissimi nelle aree a più alta concentrazione abitativa. Penso ad un piano che in ogni Paese della UE sia in grado di collegare i diversi settori e i più disparati investimenti.
- Come potremo passare dalla politica agricola comune alla politica del cibo comune?
Le maggiori organizzazioni agricole sono favorevoli ad un ulteriore ritardo nell’avvio della riforma della PAC e ad una moratoria su diverse questioni relative alla produzione/consumo di alimenti, invece di favorire la modifica dell’orizzonte d’intervento a favore del coinvolgimento dei cittadini o dell’applicazione rapida dell’indirizzo “farm to fork” individuato dal Parlamento Europeo come guida per il futuro. A nostro avviso, ritardare l’applicazione della PAC significa, semplicemente, perdere un’occasione. L’attuale proposta della “nuova PAC” in realtà è ancora una mezza proposta, priva di quelle gambe ideologiche che furono il sostegno al momento della sua creazione nel MEC e che restarono valide sino agli anni Novanta. La politica di protezione delle produzioni ed il sistema di prezzi interni separati da quelli del resto del mondo, se ha protetto la crescita interna per oltre un ventennio (dalla creazione del MEC sino alla fine degli anni Ottanta) ma ha portato con sé anche le disparità preesistenti. La riforma detta “Mac Sharry”, avviata all’inizio degli anni Novanta, con la sua apertura al mercato mondiale, riteneva di poter sostituire con compensazioni e sviluppo commerciale la fine della protezione realizzata dal sistema dei prezzi interni e si poneva l’obiettivo di riuscire a ridurre attraverso il commercio mondiale un sistema diventato iniquo nel corso degli anni (l’80% degli aiuti al reddito agricolo era rimasto a vantaggio del 20% delle imprese per tutto il periodo precedente). Ma il mercato mondiale, principalmente a causa del mortifero allineamento dei sistemi di produzione/commercio agricolo (ciclici per natura) ai sistemi finanziari, ha causato il fallimento di se stesso. I prodotti agricoli sono diventati come un qualunque servizio alla collettività, dove il fallimento del mercato è garantito dalla impossibilità dei privati a sostenerne i costi e della necessità di sostegno esterno attraverso la loro distribuzione all’insieme della società. Oggi viene avviata una ulteriore riforma constatando che, nonostante le riforme passate, ancora il 20% delle imprese di settore assorbe l’80% degli aiuti, constatando la loro “necessità strutturale”
Invece il sistema agricolo sarebbe in grado di sostenersi da sé, di vivere all’interno di microaree con lo scambio energia/alimenti e con la creazione di sistemi complessi (ma facili a realizzarsi) che distribuiscano non i costi, ma il consumo delle risorse e ne minimizzino gli impatti. I vegetali hanno un bilancio energetico positivo, perché non lo utilizziamo come base per un sistema meno inquinante ed energivoro dell’attuale? Anche nella dimensione commerciale s’impone un cambiamento: il sistema delle filiere è un modo di rettificare la linea di produzione (e di distribuzione) che ha visto sempre perdenti i produttori e i consumatori proprio per definizione. Va ripristinato il sistema circolare, creando una rete locale in cui gli attori sono misti, dove i consumatori non solo acquistano prodotti alimentari, ma forniscono materia seconda, energia e residui organici alle aziende agricole produttrici e dove le reti di distribuzione sono anche reti di raccolta e quelle di produzione energetica anche di distribuzione e organizzazione. Si partirà da alcune produzioni, si modificheranno alcuni consumi, ma la vita sarà meno costosa e migliorerà, perché risulterà più comprensibile di quella attuale.
Poiché le figure del sistema di filiera sono in mutamento, in particolare i consumatori, i sogni di ritorno a PAC di vecchio stampo, dove all’aumento delle produzioni corrispondeva un aumento di reddito, sono vani e pericolosi. Quindi, la PAC va cambiata, coinvolgendo il resto della società e non solo i produttori.
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Cambiare la Politica Agricola Comune
La PAC, ai sensi dell’articolo 39 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, persegue i seguenti obiettivi: incrementare la produttività dell’agricoltura; assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola; stabilizzare i mercati; garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Scritta quando gli agricoltori rappresentavano una parte consistente degli abitanti dei Paesi comunitari, essa aveva un senso su alcuni presupposti politici anch’essi oggi decaduti o superati: evitare un conflitto tra Stati usciti da poco dalla guerra; dare un senso a potenze ex coloniali attraverso la lotta al blocco sovietico; garantire l’autoapprovvigionamento di aree urbane in via di rapido popolamento e la creazione di una società industriale europea. Presupposti oggi fuori tempo, che il green deal ed il PNRR cercano di sostituire con basi strategiche più consone a garantire il futuro delle nuove generazioni.
Ma quali degli obiettivi dell’articolo 39 possiamo dire che oggi sia perseguito con coerenza? Nessuno, poiché le forze del settore, consistenti all’epoca della sua scrittura, sono oggi minoritarie, diventate espressione di gruppi finanziari e fornitrici di servizi che spesso hanno poco a che vedere con le condizioni di vita degli agricoltori. Solo un patto con i consumatori, solo la creazione di un sistema circolare, l’utilizzo di basi energetiche rinnovabili e di sistemi produttivi fondati sul massiccio investimento in vegetali potrà dare futuro e prosperità al settore. Passare dalla PAC alla PAEC, cioè dalla Politica Agricola Comune alla politica Alimentare Energetica Comune sarà un obiettivo necessario, assieme alla costruzione di presupposti politici meno ancorati a velleità egemoniche, oggi riemergenti con il conflitto ucraino. A mio parere sarà più difficile a pensare e poi a dirsi che a farsi. E potete scommettere che vedrà coinvolti ed interessati tutti i cittadini che ora non sanno o diffidano, della UE, dei politici, persino di ciò che mangiano.
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