Una affermazione che è direttamente portatrice di una ammissione, seppure nascosta tra le pieghe dei discorsi e dei comizi di campagna elettorale. Enrico Letta sostiene che Renzi e Calenda vogliono, con il loro progetto politico del terzo polo, distruggere praticamente il PD. Forse si riferisca, seppure non precisandolo, anche agli alleati di +Europa e di Impegno civico, perché quella è la vera anima della coalizione molto inopportunamente chiamata, sulla scia di un semplificazionismo mediatico, di una sintesi estrema (ed anche un po’ estremista), “centrosinistra“.
L’affannoso continuo riferimento alla competizione a due, all’alternativa unica tra lui e la Meloni, tra le destre e chi, con i satelliti centristi e l’appendice rosso-verde, pretenderebbe di gareggiare per il primo posto elettorale, parlamentare e scongiurare l’avvento della Giorgia nazionale a Palazzo Chigi, ha ora una vera e propria ragione di esistere.
Non si tratta, infatti, soltanto di competere con i sovranisti sul terreno della rappresentanza degli interessi del ceto medio-alto, dell’impresa e della finanza; si tratta pure di evitare di essere, se non proprio raggiunti, quanto meno lambiti da un risultato a due cifre dell’accoppiata tra Azione e Italia Viva. Mai come ora, non fosse altro nel raffronto con gli ultimi lustri, la competizione elettorale si gioca davvero al centro, molto a destra e quasi per niente a sinistra. Se per sinistra si intende ciò che sinistra non è: il PD anzitutto.
La risalita nei sondaggi delle percentuali riguardanti i Cinquestelle sono un segnale allarmante per Di Maio, un altro campanello non rassicurante per Letta e una sola buona notizia per chi vorrebbe costruire quell’ormai “quarto polo” della sinistra e del progressismo – come chiesto da Unione Popolare più e più volte – di cui l’Italia ha bisogno se il disagio sociale deve trovare una sponda politica cui aggrapparsi per avere voce in Parlamento, per avere una rete di supporto sociale nella quotidianità dei tanti problemi che si affacciano sulla scena delle resistenze e delle sopravvivenze di milioni e milioni di persone.
La contesa neocentrista da tanta parte esclude qualunque potenzialità che sia all’origine di un fronte repubblicano che sganci il progetto delle destre dalle rassicurazioni che le classi dirigenti economico-finanziarie del Paese vogliono e che non trovano nell’indecisione democratica, nella ancora troppo fragile bicicletta calendiano-renziana, pensando al modello draghiano come ristrutturazione della politica italiana anche per il domani.
Una continuazione che, invece, i partiti che hanno fatto cadere Draghi hanno pensato vagamente con la formula abusata dell’”agenda“, ma senza ripensarne i contenuti, senza ripensarla, soprattutto, con Draghi stesso.
Gli unici a fornire questa speranza al padronato e ai grandi azionisti, agli speculatori e alle banche, sono proprio Calenda e Renzi. Ma, almeno per il momento, vista la brevità della campagna elettorale e l’improvvisazione del loro soggetto politico, nato un po’ per caso dopo la separazione repentina dal PD, e un po’ per fortuna, anche per evitarsi l’uno la raccolta delle firme per presentarsi al voto e l’altro il rischio di non arrivare al 3%, il progetto neocentrista non raccoglie, non intercetta quei vasti consensi popolari che gli sarebbe utili per mettere davvero in crisi il campo ristretto di Letta.
La preoccupazione di quest’ultimo, dunque, è più che giustificata, anche se, sul breve termine, quindi entro il confine temporale delle elezioni, quasi sicuramente saranno le destre ad avere purtroppo la meglio sulle debolezze strutturali di un finto progressismo che, da quando è nato con Veltroni nell’ottobre del 2007, non ha avuto coerenza meglio rintracciabile di quella che lo ha sempre più reso partito di governo, partito di riferimento di un liberismo che, dopo il berlusconismo e i tecnicismi falliti in breve tempo, cercava una sponda sicura, un sostegno rappresentativo nelle istituzioni di tutte quelle istanze private che rischiavano di rimanere orfane di un approdo politico certo.
I Cinquestelle, del resto, per storia, per nuova e vecchia vocazione al tempo stesso, non possono essere quel soggetto capace di intercettare ancora una volta il grande disagio sociale, quello delle classi meno abbienti.
Quello che è il ventre molle di una Italia in cui si pensa ad una distribuzione dei soldi del PNRR prevalentemente alle imprese e non si compensa questa sperequazione con una attenzione ai redditi da lavoro, da pensione, al precariato, all’inattività forzata, ma si fa polemica esclusivamente sul mantenimento o meno dell’unica misura timidamente sociale portata avanti in questi anni da un esecutivo: il reddito di cittadinanza.
Questa fetta enorme di cittadini, in gran parte giovani e giovanissimi, si rifugiano in un astensionismo che è sinonimo di incomprensibilità della complessità di una politica che, in tutta evidenza, parla linguaggi che non sono i loro e, peggio ancora, declina i temi per il futuro delle generazioni del nuovo millennio in un generico trattamento dal sapore esizialmente riformistico, troppo accondiscendente con le leve di quel potere economico che ha già dato prova di inefficacia, perché soltanto rivolto verso la conservazione e la perpetuazione di una serie di contraddizioni irrisolvibili se non con un cambiamento radicale dell’economia e della società intera.
Il resto della sinistra diffusa, che sta tentando di organizzarsi in Unione Popolare, indipendente da tutti questi poli, è oggettivamente fuori dai giochi di governo, ma non certo fuori da quelli di ridare alle lavoratrici e ai lavoratori una nuova rappresentanza in Parlamento, per aprire un faglia di contraddizioni sul terreno dell’uniformità e dell’unilateralismo liberista che imperversa trasversalmente, seppure con toni e sfumature differenti da campo a campo.
Unione Popolare non contende nulla al PD sul piano programmatico. Praticamente niente. Diverso è invece il discorso che riguarda i rapporti con Sinistra Italiana, Verdi e Cinquestelle.
Una parte dell’elettorato che UP può intercettare è indubbiamente indeciso su chi preferire e, per la prima volta dopo molto tempo, le differenze sono sostanziali sul piano meramente tattico dell’oggi, ma possono esserlo meno in una visione strategica dove, appena un minuto dopo il voto, si ricerchi un comune denominatore per agire insieme tanto nel Parlamento della Repubblica quanto con vertenze sociali e politiche nella pancia del Paese, in quello reale che affronta tutti i giorni enormi problemi di sostenibilità.
L’importanza di superare la fatidica soglia del 3% nazionale permetterebbe di ottenere un triplice utilissimo risultato: mostrare che esiste ancora una coscienza critica, sociale che si rivolge ad una forza costituenda che pretende di essere altro dal cosiddetto centrosinistra, dal centro e ovviamente dalle destre; investire su un progetto di alternativa di società che metta in discussione tutti i dogmi del liberismo, compreso quello di uno Stato dipendente dalle variabili economiche della produttività privata; aprire la prospettiva di una rinascita della sinistra veramente progressista e di alternativa in Italia, così come avvenuto in Francia.
Ma dobbiamo essere consapevoli delle difficoltà che tutto questo comporta: la frammentazione delle forze politiche, soprattutto a sinistra, è tale da permettere alla dispersione del voto di farla da padrone.
Non si tratta di invocare un “voto utile” per Unione Popolare, ma di far prevalere una visione pragmatica dei temi sociali unitamente ad una difesa della Costituzione in tutto e per tutto, creando i presupposti per fare di UP il primo mattoncino su cui edificare una casa più ampia e sempre più partecipata.
Per questo l’idea condominale della costituzione del quarto polo progressista non deve essere sepolta dal risultato del voto. Qualunque sarà, non è consentito crearsi alibi per disinteressarsi ad una necessità politico-organizzativa che non viene certo meno dopo che tutte le schede saranno state scrutinate e avremo chiara la geopolitica del nuovo Parlamento italiano.
Anche perché gli altri partiti non smobiliteranno. Ci saranno, senza ombra di dubbio, movimenti tellurici di grande rilevanza, cambi di casacca, di campo, rinverdimenti del tradizionale trasformismo italico, ma le aggregazioni che abbiamo visto nascere bislaccamente in questi ultimi mesi cercheranno di darsi continuità, pensando in particolare alle elezioni amministrative dei prossimi anni in un contesto internazionale che peggiorerà lo standard di vita della popolazione e supporterà sommovimento sociali di non poco conto.
La nostra prospettiva antiliberista e anticapitalista deve stare in questa dimensione a tinte foschissime, avendo ben presente che ci muoviamo in un presente ricco di conflittualità interconnesse fra loro, che vanno ben oltre l’angusto ambito nazionale, con una sconfitta storica dei comunisti e delle sinistre alle spalle, con una prospettiva nettamente di lungo corso. Precipitazioni in avanti e languide frustrazioni rassegnate all’indietro non sono utili alla Causa. Quella con la ci maiuscola.
Per quanto possa sembrarci difficile reggere tutto ciò, pensiamo a Calenda, Renzi, Letta, Bonino e Di Maio, alla contesa neocentrista in atto. Non è forse più sconfortante delle tante grane che toccherà affrontare da sinistra, per la sinistra, con un nuovo orizzonte sociale tutto da reinventare?
MARCO SFERINI