Il Partito Democratico non è un partito-Stato. Una simile definizione invertirebbe il rapporto causale che lega i due termini. Non è, cioè, una grande organizzazione strutturata ideologicamente, gerarchica e capillare, in grado di orientare senza opposizione le scelte politiche di uno Stato tra una serie di possibilità date. Sarebbe meglio dire che il PD è la manifestazione partitica dello Stato, l’ombra proiettata dalle istituzioni depoliticizzate, dalla cooptazione delle cariche, dal consenso pressoché unanime dell’élite intellettuali e giornalistiche. È l’espressione tangibile di un sistema di potere. La loro non è “ideologia” nel senso alto del termine – visione del mondo, o prospettiva che vada dal medio termine all’escatologico – ma deteriore. Pertanto, il piddino rappresenta se stesso e il partito come espressione di una naturalità istituzionale prepolitica e a-ideologica. Per loro, la propria non è propaganda, perché la propaganda in sé è il Diavolo tentatore che prova ad allontanare dall’unica scelta possibile, in quanto scelta istituzionalmente obbligata. Questo è spiegato perfettamente dalla loro ultima recente ossessione comunicativa: l’“agenda Draghi”. L’“agenda Draghi” (ma, in generale, ogni “agenda” politica comparsa in campagna elettorale) non è un programma, ma un metodo, una prassi. Il gerundivo agenda rimanda a una idea di necessità, un elenco di priorità ineludibili e inaccessibili ai profani (ma vaticinabili dai competenti) che devono essere realizzate, ma non coincide con questo elenco. L’agenda è un diario, e il diario è qualcosa di personale. Le priorità sono tali perché decise dall’arbitrio del proprietario dell’agenda. Tutto ciò che non ne ricade all’interno – per lo più gli attriti e le sofferenze generate dall’incompatibilità tra realtà e arbitrio – può anche essere annotato, a matita, a margine di questa agenda immateriale. Ma queste istanze rimarranno lettera morta, utili al più per una finta connotazione politica in sede di campagna elettorale, e null’altro.
Non esistono argomentazioni razionali o strategie propagandistiche che permettano al Partito Democratico di persuadere un elettore di una qualunque classe sociale a votarlo (la decisione di diventarne elettore precede ed è indipendente dalle azioni e dalla comunicazione dello stesso PD). Il loro segretario potrebbe chiamarsi (e avere le stesse politiche di) Heinrich Himmler, e continuerebbero lo stesso ad avere il 20% dei voti per inerzia. Viceversa, ci sono infinite condizioni in cui un elettore, ritrovandosi in una situazione dove l’immagine arbitraria e idealizzata del partito, o comunque le ragioni autonarrate per giustificarne il voto, si scontra in modo non conciliabile con le effettive azioni del Partito Democratico. Ogni comunicazione del PD ha quindi un unico scopo: non avvicinare nuovi elettori, ma serrare i ranghi dei vecchi ed evitarne la diaspora. Questo è possibile nei seguenti due modi:
- A livello centralizzato (tramite dichiarazioni dei vertici del partito e post degli account ufficiali), il PD evita chirurgicamente ogni contatto con il Reale. Il movimento è tale e quale a quello di un gatto che passa attraverso castelli di carte o tasselli di domino con movimenti talmente sinuosi da non toccare o far cadere alcunché. La loro comunicazione è un tour de force semantico per lasciare al ricettore avveduto la vertigine dell’abisso sul Nulla. Le parole chiave, reiterate a tal punto da far perdere loro ogni ombra di significato, come donne, giovani, persone, concretezza e simili, stanno lì, aleggiano scisse da ogni tipo di riferimento a situazioni effettive, e meno che mai a classi sociali. Spesso sono messi in diadi due opposti, in modo che una categoria che potenzialmente potrebbe ridestare una connotazione ideologica (per esempio, lavoratori), venga subito disinnescata con il suo contrario (imprese) e, perché no, completate in vincolo trinitario da una ulteriore che le unisce astrattamente (famiglie, perché sia i lavoratori che gli imprenditori hanno le rispettive). Tutto ciò viene riproposto in modo formulare e ossessivo da ogni esponente del Partito Democratico, in una nenia melensa e impersonale di cui è possibile anticipare aprioristicamente frasi, parole chiave e concetti espressi. Loro si accontentano tuttalpiù di proporre. “Le nostre proposte”, come la scritta in ogni ristorante: un insieme rizomatico di opzioni marginali ed estetiche di cui, una volta scelto, puoi dimenticare il resto e, una volta consumato (una volta trovata una ragione per occultare la falsa coscienza per il voto al PD) puoi dimenticare la scelta stessa. Fondamentale è anche il riferimento a una generica Italia e al suo interesse, in uno spazio astratto e unificato in cui la Valle d’Aosta è interscambiabile con la Sicilia o il disoccupato in affitto nelle case popolari con il proprietario di villa. Ultima cosa, non meno importante: se per loro la Storia è morta (e loro ne sono i lumini votivi), e quindi lo Stato è la massima e ultima forma di organizzazione politico-istituzionale – di cui come abbiamo detto loro sono ombra – ne consegue che lo stato presente delle cose contiene già tutte e solo tutte le proprietà moralmente positive, seppur perfettibili. Pertanto, non useranno mai un aggettivo negativo (nel senso oppositivo e non morale) per indicare la loro direzione, ma solo maggiorativi di proprietà positive e già date. L’Italia è già giusta, inclusiva, sostenibile, europea; ma, grazie a loro, può diventare più giusta, più inclusiva, più sostenibile, più europea et similia.
- A livello periferico (sia come riferimenti per le correnti, sia a livello locale) è impossibile che il Vuoto del punto precedente permetta la proiezione della propria personale idea del Partito Democratico sul Partito Democratico stesso. È necessario quindi una normalizzazione del dissenso e della perplessità che passa attraverso la costruzione di apposite figure di intermediazione, in grado di – sotto una patina fintamente ideologica – compattare le varie anime portandole a convergere sulla linea centralizzata. I socialdemocratici non vedranno mai in Enrico Letta un socialdemocratico, ma daranno il loro voto perché hanno come punto di riferimento Provenzano o Cuperlo, che ritengono socialdemocratici. È per questo che all’interno del partito sono tollerate, a livello periferico, locale, o giovanile, posizioni incompatibili con la linea del partito (per esempio, sulla Palestina, su Assange, su trivelle e rigassificatori e simili). Servono come riferimento naturale per la falsa coscienza di sinistra della base militante ed elettorale, perlopiù composta da vecchi rincoglioniti che leggono Repubblica e che non hanno capito che il PCI non esiste più da più di trent’anni.
Quale insegnamento trarre da quanto scritto, anche in vista della campagna elettorale? In primis, si eviti ogni dibattito e confronto politico con un esponente (politico, militante o simpatizzante) del Partito Democratico in quanto nella discussione non sono in grado di rendere conto dell’alterità, e pertanto sono naturalmente portati, per malafede o per autentici deficit cognitivi, a deformare ogni concetto espresso da altri, per portarlo sul loro piano, a costo di spostare tutto sull’offesa personale o sull’autovittimismo (“tu non hai rispetto per la straordinaria comunità del PD”, e altre amenità). In secundis – cosa ancora più importante – si costruisca l’alterità al di fuori degli spazi concessi e controllati dal Partito Democratico stesso. In questi spazi non esiste alterità ma solo alternativa, e l’alternativa è negazione di opzioni date (“il PD è l’unica alternativa alla destra”, “la destra è l’unica alternativa al PD”), è tacito assenso sul campo di battaglia favorevole al nemico, è essere determinati strutturalmente e programmaticamente dal Partito Democratico stesso. Si costruisca l’alterità politica, la si radichi nel Reale, e il PD e i suoi occhi di tigre di carta si scioglieranno come sotto la pioggia, e di loro non rimarrà che un breve sogno.