Antonio Rei
Le larghe intese non le vuole mai nessuno, ma alla fine si fanno. Finisce sempre così, quando non c’è alternativa. E il rischio è che anche le elezioni politiche del 25 settembre producano uno scenario del genere. Da mesi si parla di Fratelli d’Italia come d’una corazzata invincibile, destinata a fare sfaceli, addirittura a guidare una coalizione capace di ottenere i due terzi dei seggi e quindi di cambiare la Costituzione a proprio piacimento, senza passare per il referendum confermativo. Se però si guardano i sondaggi, la verità appare molto lontana da questa narrazione. Secondo numeri elaborati da Demos per Repubblica, al momento Fdi si fermerebbe sotto il 25% (al 24,6%), poco sopra il Pd (22,4%), mentre la Lega non andrebbe oltre il 12%, facendosi superare anche dal Movimento 5 Stelle (13,8%). Forza Italia dovrebbe invece accontentarsi del 7,7% e il cosiddetto Terzo Polo, a dispetto del nome, arriverebbe molto lontano dal terzo posto, non riuscendo a mettere insieme fra Azione e Italia Viva più del 6,8% dei voti.
Ora, è vero che negli ultimi anni i sondaggi hanno sbagliato quasi sempre (e non solo in Italia: basti pensare a sfondoni di portata storica come quelli su Brexit e Trump-Clinton). Forse ha perfino ragione Salvini quando dice che “valgono quanto gli oroscopi”, perché è la struttura stessa del sistema elettorale italiano a non consentire previsioni precise. In base allo sciagurato Rosatellum che Pd e M5S hanno avuto la colpa di non provare nemmeno a modificare, infatti, un terzo dei seggi sarà attribuito con l’uninominale secco: un candidato solo per ogni lista o coalizione e chi prende anche un solo voto in più degli altri vince il seggio. Una lotteria, praticamente. Ma anche una fonte di gigantesca incertezza preelettorale, tanto più quest’anno che i seggi da assegnare sono la metà di quelli del passato, in virtù della maledetta riforma costituzionale del 2021, ancora più sciagurata del Rosatellum.
Detto ciò, sarà anche vero che i sondaggi valgono poco, ma di sicuro non valgono meno delle nostre impressioni epidermiche o delle narrazioni favolistiche basate sul nulla. Ad oggi, quindi, non solo non esistono argomenti razionali per sostenere che il centrodestra stravincerà le prossime elezioni, ma si deve addirittura ipotizzare che di vincitori non ce ne saranno. Al di là delle invenzioni e della propaganda, l’esito più probabile rimane l’ingovernabilità, ovvero che nessuna coalizione (reale o potenziale) abbia la maggioranza in Parlamento.
E allora cosa succederà? Quello che succede sempre quando non ci sono alternative: le larghe intese, appunto. Ma non è detto che per Giorgia Meloni questa prospettiva sia una disgrazia. Tutt’altro. L’inverno in arrivo sarà probabilmente uno dei più duri degli ultimi decenni e il governo dovrà affrontare un cocktail d’emergenze di portata epocale: l’arrivo di una nuova recessione economica; la corsa senza sosta dell’inflazione; la crisi energetica con la conseguente necessità di razionare il gas a famiglie e imprese; la guerra in Ucraina. E, nel frattempo, ci sarà da portare avanti anche il Pnrr, per non perdere una quantità di miliardi già promessi agli amministratori nostrani.
Uno scenario del genere non fa venire una gran voglia di entrare a Palazzo Chigi. Il rischio è di cadere entro pochi mesi, bruciando così per sempre (e in fretta) le speranze di portare avanti una lunga carriera ai vertici delle istituzioni. Per Meloni il pericolo è ancora più grave perché non può contare su alleati affidabili: né Salvini né Berlusconi la vogliono come presidente del Consiglio e il leader della Lega si industria da tempo per picconare la credibilità internazionale dell’alleata, proponendo di continuo il suo contro-coro sulla Russia e sul gas.
Meloni cerca di resistere e si sforza di ricostruirsi una reputazione decente: da un lato, per far dimenticare all’Europa il rapporto con Orban, si dice più che favorevole al price cap sul metano (un’idea partita ufficialmente da Draghi); dall’altro, con Washinton, non fa che ripetere professioni di fede alla causa atlantista, sperando di far dimenticare all’amministrazione Biden la sua vecchia simpatia per Trump e il fatto che oggi è alleata con un tizio che ha chiesto soldi al Cremlino.
Quello che emerge, insomma, non è esattamente il ritratto di una leader politica forte. Per questo, alla fine, Meloni potrebbe accettare la soluzione delle larghe intese, magari perfino con una conferma di Draghi alla presidenza del Consiglio. In questo modo porterebbe a casa due risultati: superare indenne questo inverno da incubo e, forse, convincere l’Europa e gli Stati Uniti di essere pronta a governare
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