Dopo la pandemia, la guerra. Dopo anni di inerzia politica, sulle strategie necessarie per mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto, la crisi energetica. Quest’ultima, innescata da meri fattori geopolitici, fin qui ha presentato tratti marcatamente speculativi piuttosto che una effettiva e irrimediabile scarsità delle fonti di approvvigionamento. Proprio per questo, le soluzioni proposte – sempre all’insegna dello scaricabarile colpevolizzante – sono davvero difficili da metabolizzare. Ancora una volta, insomma, ci troviamo ad affrontare sfide epocali, con la trita e ritrita retorica emergenziale che richiede ulteriori sacrifici ai comuni cittadini, con la sola prospettiva di un continuo peggioramento della qualità della vita delle masse, mentre le sacche minoritarie di privilegio consolidato continuano a sprecare l’equivalente dei consumi standard di migliaia di persone.
Questa ennesima emergenza, in realtà, si innesta sullo sfondo di una stagnazione salariale che, nel nostro Paese, si stratifica da decenni per precise scelte ideologiche. La precarizzazione dei rapporti di lavoro, esplosa a inizio millennio, ha amplificato una tendenza che era già in atto da diversi anni. Attualmente, in Italia il rapporto a tempo indeterminato rappresenta meno di un quinto (18,8%) delle nuove assunzioni. Correlativamente, è il contratto a termine la nuova forma di lavoro dominante: circa due nuovi posti di lavoro su tre sono a tempo determinato (64,8%). In ogni caso, se per ogni 100 nuove assunzioni, ben 81 di queste corrispondono a forme contrattuali che non sono minimamente stabili, è del tutto evidente che siamo in presenza di un altro enorme problema, accanto a quello storico dello squilibrio tra occasioni di lavoro effettivamente disponibili e reale consistenza numerica delle persone che hanno bisogno di lavorare per vivere. In altri termini, non solo la domanda di lavoro da parte delle imprese private continua a essere largamente insufficiente per garantire un lavoro a tutte le persone in cerca di una occupazione (i disoccupati sono circa due milioni al momento), ma le nuove occasioni di lavoro sono in larghissima maggioranza prive di quel requisito di stabilità economica che è basilare per un pieno e libero sviluppo della persona umana.
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La lunga stagione della precarizzazione del lavoro, del resto, è il frutto avvelenato di una politica economica che ha scelto di puntare tutto sulla moderazione salariale. Con quali risultati? L’Italia vanta oggi il disonorevole primato di unico Paese europeo in cui i salari sono addirittura più bassi di quelli di trent’anni fa. In tal senso, la pietra dello scandalo – sulla quale purtroppo non vi è ancora un’ampia e diffusa consapevolezza – è rappresentata dalla persistente diffusione di forme di lavoro gratuito e semigratuito. Per capire quanto sia scandalosa la cosa, nonostante passi regolarmente sotto silenzio, nel dibattito politico mediatico, basti pensare innanzi tutto al fatto che esistono due diversi modelli di stage o tirocinio nel nostro sistema: curriculare ed extracurriculare; solo il secondo dei due prevede quanto meno il versamento di una misera somma a titolo di rimborso spese. Si tratta delle cosiddette indennità di partecipazione, ovvero una delle principali «misure per contrastare gli abusi nell’ambito dello svolgimento dei tirocini extra-curriculari». E a quanto ammontano queste indennità previste a tutela degli stagisti? Le competenze in materia sono regionali e, quindi, i rimborsi erogati variano da regione e regione, tuttavia un dato medio che si aggira intorno ai 500 euro lordi al mese, rappresenta una quantificazione abbastanza precisa del valore di queste prestazioni lavorative di serie B. Sul punto è bene chiarirsi: formalmente gli stage non sono prestazioni di lavoro e quindi non c’è retribuzione (per questo si prevede appunto una forma di indennizzo). Ma nella sostanza è sufficiente leggere, con attenzione, le principali misure contro l’uso distorto dello stage, per comprendere quanto sia facile che, sotto la facciata del tirocinio formativo, si nascondano invece frequenti casi di sfruttamento abusivo della manodopera altrui. Tra l’altro, l’indennità di partecipazione, per quanto misera, è considerata uno degli elementi qualificanti del tirocinio extracurriculare: perché allora questo elemento dovrebbe essere escluso tutte le volte in cui il tirocinio viene svolto nell’ambito di un determinato percorso di studi? In altri termini, per quale motivo i tirocini curriculari – ovvero quelli promossi da scuole, università o enti di formazione accreditati – non dovrebbero remunerare, almeno in parte, le attività concrete svolte dai partecipanti sui luoghi di lavoro dove risultano impegnati, spesso con orario di lavoro e mansioni identiche a quelle dei dipendenti veri e propri? Può essere sufficiente, poi, la definizione dei cosiddetti livelli essenziali della formazione per evitare ogni abuso? La necessità di fissare una durata massima degli stage (comprensiva di eventuali rinnovi), l’eventuale previsione di limiti specifici al numero di tirocini attivabili da ciascuna impresa (collegandolo alle sue dimensioni), l’idea stessa di vincolare l’attivazione di nuovi tirocini a quote minime di stagisti assunti con regolare contratto per ogni ciclo di tirocini che l’impresa ha già effettuato, non rappresentano la prova provata di quanto facilmente lo stage si presti al sopruso?
Se si considerano i dati ministeriali delle sole attivazioni di nuovi tirocini extracurriculari, nel corso dell’ultimo triennio, ci sono state in media, ogni anno, circa 300mila posizioni da coprire, più o meno equamente divise tra i tanti settori produttivi (PA inclusa). Se si dà valore alla sostanza, che si evidenzia nelle linee guida per prevenire gli abusi, che si sono qui dettagliatamente esaminate, appare chiaro che vi è una malcelata tolleranza verso la prassi aziendalista di delegare agli stagisti una quota di mansioni e di prestazioni che di fatto vengono sottopagate o addirittura mai pagate. Non è nemmeno un fenomeno che riguarda solo i giovani: anche se la fascia di età di stagisti in maggioranza relativa è quella fino a 24 anni, la fascia superiore (25-34) ha numeri di poco inferiori e, purtroppo, anche se complessivamente minoritari, si registrano dati in crescita nelle fasce di età più mature, compresi gli over 55.
A questo punto, il lettore più attento si starà chiedendo, come mai, non si pretenda, a gran voce e con vasta eco mediatica, l’immediata abolizione di ogni forma di stage. Il lettore più smaliziato, inoltre, avrà senz’altro notato l’incredibile dissonanza che si registra tra la persistente campagna mediatica per l’abolizione del Reddito di Cittadinanza (RdC) e la sostanziale indifferenza verso il rischio concreto di avere, mediante gli stage, non solo un diffuso sfruttamento della manodopera gratuita degli studenti di ogni ordine e grado, ma anche ampie sacche di lavoro semigratuito, tra i non più giovani. Del resto, se si considera che l’importo medio effettivamente erogato ai percettori di RdC è di circa 570 euro, ovvero poco più di quello che ottengono in media gli stagisti con l’indennità di partecipazione, si comprende perfettamente il senso della dichiarazione del massimo rappresentante degli industriali italiani che definisce il reddito di cittadinanza «un grande competitor quando cerchiamo i giovani». E sia chiaro che accanto alle circa 300mila posizioni di tirocinio extracurricolare, che risultano attivate ogni anno stando ai dati ministeriali dell’ultimo triennio, ci sono altre decine di migliaia di percorsi che sono attivati come tirocini curriculari (secondo Eleonora Valtolina, gli stagisti non censiti sono almeno 150mila) e, quindi, senza comunicazione obbligatoria e relative statistiche certe e, soprattutto, senza alcun tipo di pagamento per il servizio reso.
Che succederebbe se la legge vietasse definitivamente l’utilizzo di ogni forma di stage? I percorsi professionali che realmente necessitano di un periodo di formazione assistita potrebbero tranquillamente essere coperti con contratti di apprendistato che compensano il contenuto di formazione, offerto dalle parti datoriali, con una riduzione in percentuale del trattamento retributivo, ma comunque prevedono una paga regolare e tendono più agevolmente a trasformarsi in lavoro stabile, una volta completato il percorso. Anche se con mille cautele e difficoltà, in ambito europeo il tema del superamento degli stage gratuiti è all’ordine del giorno. Anche se con mille cautele e difficoltà, in ambito europeo il tema del superamento degli stage gratuiti è all’ordine del giorno, essendo questo tipo di attività «una forma di sfruttamento dei giovani lavoratori e una violazione dei loro diritti». Ed è appena il caso di ricordare che la Costituzione italiana, nel dare concretezza all’idea di una Repubblica «fondata sul lavoro» (art. 1), evidenzia come la condizione basilare per «un’esistenza libera e dignitosa» è la retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36). Il lavoro secondo Costituzione deve cioè essere sempre pagato. E la retribuzione deve essere senz’altro proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto; ma non può mai essere inferiore a quel minimo basilare che garantisca la piena soddisfazione di tutti i bisogni esistenziali, ovvero anche di quei bisogni non vitali ma comunque necessari per vivere liberamente e dignitosamente. La trappola del lavoro povero (working poor), precario, sottopagato e, nel caso deprecabile degli stage, addirittura svolto a condizioni gratuite o semigratuite è pertanto il più grande tradimento dello spirito e della lettera della Costituzione repubblicana e dei suoi principi fondamentali di natura solidaristica (art. 2) ed egalitaria (art. 3).
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Come uscire dunque dalla trappola del lavoro povero, precario e talvolta anche non retribuito? Una prospettiva costituzionalmente orientata si può realizzare con tre mosse semplici ma rivoluzionarie, note le tendenze degli ultimi decenni. Il primo passo è appunto l’abolizione degli stage, con correlata valorizzazione dei soli percorsi di apprendistato professionalizzante (quindi con lavoro retribuito e con stabilizzazione di ciascun lavoratore al termine del percorso formativo). Il passo successivo è la riforma dei contratti di lavoro per ristabilire la centralità del lavoro a tempo indeterminato, da presidiare con la reintroduzione e la generalizzazione della tutela reale in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Il terzo passo, il più importante, è la costruzione di un sistema integrato di protezione sociale di tutte le persone che lavorano in condizione di subordinazione (anche solo sostanziale), che valorizzi la complementarità di salario minimo e reddito minimo, prevenendo strutturalmente ogni forma di sopruso.
Quest’ultimo passaggio merita di essere approfondito perché, se ben implementato, potrebbe essere già di per sé sufficiente a riequilibrare le posizioni in sede di contrattazione individuale, garantendo quindi al contraente che si trova strutturalmente in posizione di debolezza, di contrattare invece ad armi pari. Sul punto, occorre richiamare brevemente altre due disposizioni fondamentali della nostra Costituzione repubblicana. La disposizione che riconosce la libera iniziativa economica (art. 41) precisa però, al secondo comma, che questa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» e che (ultimo comma) «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». La disposizione che prevede il diritto all’assistenza sociale (art. 38) invece, sempre al secondo comma, sancisce che «in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria», per i lavoratori colpiti da questi eventi avversi, dovranno essere «preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita». Un sistema che preveda dunque un reddito minimo garantito come misura di protezione sociale universale contro la disoccupazione involontaria costituisce, senz’altro, il più efficace antidoto al veleno del ricatto occupazionale. Lo squilibrio di potere tra le parti, in sede di contrattazione individuale, sta tutto nelle diverse condizioni economiche di partenza: chi offre il proprio tempo, le proprie competenze e la propria energia vitale all’azienda che le utilizzerà nel proprio progetto imprenditoriale, solitamente, ha un bisogno vitale di quel salario che andrà a pagare il lavoro svolto; questo bisogno impellente, unito allo squilibrio tra posti di lavoro disponibili e persone che cercano lavoro (i due milioni di disoccupati attuali che, in altri momenti, sono stati anche molti di più), dà al datore di lavoro un potere enorme; il datore di lavoro può cioè continuare a cercare, tra le tante persone che hanno bisogno di lavorare, e che sono in grado di svolgere il lavoro, quella che accetterà le condizioni migliori per l’azienda (massimo tempo, ceduto al minimo prezzo). Questo squilibrio è strutturale e vede rarissime eccezioni in quelle figure professionali che hanno competenze molto specifiche e rare: solo in questi casi eccezionali, il potere contrattuale individuale del lavoratore è tale da potergli permettere di dettare le condizioni e ottenere quindi di poter lavorare con i suoi tempi e al prezzo deciso da lui. Il ricatto occupazionale, insomma, è la regola: queste sono le ore di lavoro, questa è la paga, prendere o lasciare (tanto fuori c’è la fila per ottenere questo posto). Un reddito minimo garantito immediatamente accessibile in tutti i casi di disoccupazione involontaria sana questo squilibrio e pone un solido argine alla moderazione salariale. Un argine che è tanto più solido quanto più è alto il livello del salario minimo legale a cui il reddito minimo andrà parametrato in un senso più o meno favorevole per i lavoratori (tanto più favorevole per i lavoratori, quanto più sarà vicino al livello del salario minimo, insomma). Il presidio più efficace contro gli abusi, quello che mette immediatamente a tacere tutta la retorica sui presunti percettori di reddito che poi andrebbero a lavorare in nero, è letteralmente la quadratura del cerchio: il percettore del reddito svolge un numero di ore di formazione professionale, presso enti pubblici da istituire ad hoc, pari all’orario di lavoro settimanale previsto dalla legge; il percorso di formazione è tarato per assistere e sostenere economicamente ogni cittadino che non sta lavorando fino al momento del suo inserimento o reinserimento in pianta stabile nel mondo del lavoro. Naturalmente, questo sistema sarà tanto più efficace quanto più lo Stato sarà disponibile a rimettersi in gioco e ricominciare a svolgere il suo ruolo di regolatore del mercato, anche offrendo direttamente lavoro alle condizioni previste dai principi costituzionali, che abbiamo già esaminato sopra, in maniera sintetica ma dettagliata.
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Discorso a parte va fatto, da ultimo, sulla spinosa questione della normativa per la definizione di un equo compenso che offra una tutela generalizzata ai liberi professionisti, mettendoli al riparo dagli squilibri del mercato e dalle spinte ribassiste. Quale che sia l’esito conclusivo del testo di legge che attualmente sembra essersi arenato in Senato, la questione del compenso professionale presenta delle specificità rispetto a quella salariale che non possono essere ignorate. Il richiamo all’art. 36 Cost., in questo caso, dovrebbe mirare a valorizzare in special modo la qualità del lavoro prestato. Il prestatore d’opera, infatti, nel definire il prezzo del lavoro finito non solo deve avere modo di fare pesare la sua capacità professionale, garantita dai titoli acquisiti, ma deve al contempo godere di un compenso che sia tale da coprire adeguatamente tutte le spese necessarie, la non regolarità delle entrate e l’eventuale scarsa frequenza che sono appunto elementi tipici di una attività che dovrebbe ragionare, sempre e comunque, in termini di fatturato annuo piuttosto che di stipendio mensile. Sotto questo aspetto, un primo elemento di difficoltà è quello di trovare dunque un livello adeguato per l’equo compenso che, da un lato, tenga nel dovuto conto le categorie professionali e i riferimenti ordinistici e, dall’altro, possa poi essere concretamente ed effettivamente ottenuto, senza restare lettera morta. Nello specifico, la parte interessante della proposta di legge ferma in parlamento è senz’altro quella che cerca di limitare la tendenza ribassista imposta ai professionisti dai contraenti forti, ovvero da quelle imprese private che predispongono moduli contrattuali con tariffe di indubbio favore per la propria parte e che spesso risultano, in concreto, ben al di sotto dai tariffari ordinistici. La soluzione offerta è quella di permettere l’immediata sostituzione di queste tariffe con quelle in linea con la normativa sull’equo compenso, con una operazione analoga a quella della invalidità delle clausole vessatorie nei contratti predisposti dai professionisti nei confronti dei consumatori. A presidio di questa prospettiva si prevede altresì la possibilità per il giudice di condannare il contraente che abusa della sua posizione di forza non solo al pagamento della differenza tra il compenso inadeguato e quello equo ma anche una ulteriore somma a titolo di indennizzo, fermo restando il risarcimento di eventuali danni.
Meno convincente è l’ipotesi di prevedere delle sanzioni deontologiche per ciascun professionista che accetti incarichi con tariffe ribassiste. Qui, in sostanza, emerge l’intenzione di punire la condotta di chi, svendendo la propria professionalità, fa concorrenza sleale ai colleghi e contribuisce allo svilimento complessivo della categoria. Tuttavia sarebbe forse il caso di distinguere tra chi accetta tariffe indecenti (si pensi al caso dell’archeologo che lavorava per 6 euro l’ora), perché spinto dalla necessità vitale di avere comunque delle entrate e chi, invece, cerca di fare ugualmente profitto puntando sulle economie di scala e quindi cercando di recuperare la bassa tariffa lavorando sulle grandi quantità. Nel primo caso, probabilmente, la soluzione migliore sarebbe quella di permettere, in qualche modo, l’accesso al reddito minimo anche ai professionisti in condizione di difficoltà economica. Chiaramente, l’aspetto più controverso di questo tipo di soluzione è quello del percorso formativo che il professionista percettore di reddito dovrebbe fare per riavviare la propria attività e riprendere ad accettare, quindi, solo lavori ben pagati. Molto più interessante è invece la questione dei ribassi accettati per fare profitto con le economie di scala. Qui è chiaro che occorrono enormi volumi di affari per permettere alle tariffe al ribasso di garantire comunque buoni margini di profitto. Pertanto è difficile che sia un singolo a mettere in atto una strategia commerciale del genere: anche volendo farsi carico personalmente di tutto il volume di affari necessario per aumentare il guadagno, puntando tutto sulla quantità, oltre a peggiorare inevitabilmente il risultato sul piano qualitativo, resta in ogni caso il limite invalicabile del tempo che anche il più infaticabile dei professionisti può dedicare al lavoro. La qualità del lavoro è comunque una funzione che dipende in larga misura dal tempo che al lavoro si dedica. L’operazione che punta dunque ad accaparrarsi un maggiore volume di affari, andando incontro agli interessi delle parti forti che propongono tariffe estremamente basse, promettendo in cambio un maggior numero di incarichi, è operazione che può rivelarsi vantaggiosa per il professionista che la accetta solo se questi, poi, scarica le basse tariffe sui collaboratori di cui si avvarrà, pagandoli una miseria o non pagandoli affatto, facendo ricorso ai tirocinanti. Questo tipo di condotta, per quanto possa giustificare l’eventuale sanzione di natura deontologica, trova invece la migliore sanzione economica nell’assistenza da dare ai collaboratori di questi studi professionali. Queste figure professionali si trovano a loro volta in posizione di contraente debole, nei confronti del titolare dello studio con grossi volumi di affari, e per questo motivo – anche se non risultano formalmente come dipendenti – devono avere la possibilità di esigere un compenso fisso mensile parametrato al monte ore del servizio effettuato. Anche qui la possibilità di accedere immediatamente al reddito minimo in caso di difficoltà economica sarebbe molto preziosa.
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In conclusione, sarebbe doveroso dare una diversa direzione e un senso nuovo a questa ennesima stagione emergenziale, apertasi con la pandemia del 2020-2021 e che ora prosegue col ritorno della guerra in Europa, dopo la sanguinaria vicenda dello smembramento della ex Jugoslavia, iniziata negli anni Novanta del secolo scorso. Lo si potrebbe fare, scegliendo di valorizzare il lavoro, capovolgendo la tendenza normativa dei decenni scorsi e puntando tutto sulla necessità di assistere i soggetti più deboli, dotandoli di strumenti effettivi per poter contrattare alla pari il prezzo di cessione del proprio tempo e delle proprie energie. Sul valore del tempo, poi, ci sarebbe davvero molto altro da scrivere, ma in questo contesto dovrebbe essere sufficiente ricordare come il già più volte richiamato art. 36 Cost., per garantire a tutte le persone che lavorano un’esistenza libera dignitosa, abbia previsto non solo l’adeguatezza della retribuzione, ma anche la durata massima della giornata lavorativa stabilita per legge, e soprattutto l’irrinunziabilità del diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite. Perché una vita che è sempre e solo tempo di lavoro non è una vita dignitosa. E non potrà mai essere una vita libera