Non solo la politica: sono stati gli italiani come popolo a decidere di diventare una brutta copia degli Stati Uniti, ad accoglierne le catene commerciali, lo stile di vita, i modelli di comportamento, l’ossessione per le novità
Siamo la brutta copia degli Stati Uniti
Di Francesco Erspamer*
Cito dalla «Storia della prima Repubblica» di Aurelio Lepre, uscita nel 1993 insieme a numerose altre sullo stesso argomento per soddisfare un pressante bisogno di attualità, di compiaciuto appiattimento nel presente, sino ad allora abbastanza estranei alla cultura italiana e propri invece di quella americana, ormai vincente dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Ecco il passo: «Sul piano interno, la società italiana, già negli anni Settanta, tendeva ai consumi individuali. Gli “elementi di socialismo” che Berlinguer avrebbe voluto introdurvi avrebbero frenato proprio il raggiungimento o il miglioramento del benessere fondato sui consumi che restava il principale obiettivo della maggior parte delle famiglie italiane».
Analisi corretta: Lepre non poteva saperlo ma un anno dopo la pubblicazione del suo libro Berlusconi avrebbe trionfato alle elezioni proprio proponendo agli italiani lo smantellamento del loro sistema di valori e l’abbandono della morale e delle tradizioni a vantaggio dell’individualismo edonista e consumista.
Perché ne parlo trent’anni dopo?
Perché l’Italia non potrà mai riscattarsi e iniziare un nuovo Risorgimento senza prima riconoscere le proprie responsabilità collettive: non è colpa della politica, dei cattivi maestri, di un destino cinico e baro, neppure di Berlusconi; sono stati gli italiani come popolo a decidere di diventare una brutta copia degli Stati Uniti, ad accoglierne le catene commerciali, lo stile di vita, i modelli di comportamento, l’ossessione per le novità, oltre alla correttezza politica e alla necessaria percentuale di minoranze per consentire a una destra che non vuole conservare niente di fingersi conservatrice e a una sinistra che non vuole cambiare niente di importante di fingersi progressista.
Quanto a coloro, penso numerosi, che in fondo non apprezzavano il nuovo corso e il modo in cui venne imposto al paese, se ne sono stati zitti: era ed è poco di moda mettere in discussione le liberalizzazioni e l’ideologia del piacere, si rischiava e rischia di apparire arretrati, superati, nostalgici, cosa intollerabile per giovani cresciuti nell’Italia da bere e di non più giovani lì invecchiati ma incapaci di accettarlo.
Per cambiare le cose occorrerà trovare il modo di far prendere coscienza alla gente: è sempre stato così e lo stesso liberismo si è affermato in quel modo, manipolando le coscienze.
Ma è un errore ignorare le difficoltà per farsi coraggio e, peggio, illudersi che gli italiani, inclusi quelli che si lamentano, siano pronti a cambiare.
Basta vedere il numero di bandiere ucraine sui balconi. Il liberismo resterà egemone finché se ne accetta il presupposto, che è la preminenza dell’individuo, col suo bisogno di realizzarsi e di esprimersi individualmente, di soddisfare i propri desideri personali senza curarsi delle conseguenze sociali e future.
L’alternativa richiederà dunque rinunce che a molti sembreranno sacrifici inaccettabili: porre limiti al bene privato in nome del bene comune (gli «elementi di socialismo» auspicati da Berlinguer mezzo secolo fa e rifiutati). Non sarà un pranzo di gala
* ripreso da Francesco Erspamer, professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill.