Giorgia Meloni non tollera le contestazioni. Interrompere o disturbare un comizio elettorale è un reato, è vero; ma dissentire è un diritto e, in teoria, quando vai a fare campagna elettorale puoi prendere sia applausi sia fischi. Anche da quello che puoi considerare il tuo stesso elettorato, quello che ti è venuto a sentire provare ad essere ancora più convinto di votarti.

Ma Giorgia Meloni, che non tollera nessun dissenso, invoca addirittura l’intervento del Ministero dell’Interno per mettere fine alle ripetute manifestazioni di protesta contro la sua propaganda conservatrice, presidenzialista, neonazi-onalista, vandeana sui diritti civili, liberista su quelli sociali.

Anche da questa predisposizione, indotta certamente anche dal suo passato che non passa, da quando portava, giovanissima, la croce celtica al collo, si può capire molto bene il tipo di atteggiamento che terrà nei confronti del diritto di critica e nell’esercizio dello stesso attraverso manifestazioni di piazza o spontaneismi movimentisti contro il governo che in tutta probabilità andrà a presiedere.

La domanda di oggi è questa: se si fosse trattato di parti inverse, e se quindi fossero stati dei militanti neo o post fascisti, conservatori, sovranisti che dir si voglia, a contestare un comizio di una qualunque altra forza politica, di un qualunque altro leader, le sarebbe piaciuto che questi suoi corifei e sodali fossero oggetto di una repressione poliziesca?

Possiamo pensare che, nonostante Meloni sia un’amante del connubio granitico tra legge e ordine, avrebbe arricciato il naso, aggrottato le ciglia e urlato contro la dittatura, lo Stato di polizia e quant’altro? Possiamo pensarlo. Perché a nessuno fa piacere essere represso nella sua più o meno spontanea voglia di manifestare le idee, il controcanto politico, culturale ed anche di altra natura che merita di stare in un contesto di dialettica civile e sociale.

Se il buongiorno ancora si vede dal mattino, oltre a tutto il retroterra oscuro, le cento sfumature di nero che sono la cronologia della storia di un neofascismo italiano che ritrova oggi una specie di rivincita nella saldatura creata tra le necessità dei grandi ricchi di proteggere i loro interessi e la disperazione dei poveri veicolata dai comizi meloniani dove fa presa il piglio deciso di una abilità oratoria che non si ferma mai, niente di buono si prospetta dopo il 25 settembre.

Alle preoccupazioni per le misure di carattere economico che il futuribile governo delle destre potrà realizzare, ai tentativi che certamente saranno fatti per cambiare la stessa memoria storica del nostro Paese, cominciando proprio dalla percezione che tutt’ora giustamente si ha della storia del neofascismo e del postfascismo ultimo, all’inquietudine per quel due terzi di parlamentari raggiungibili in entrambe le Camere, che consentirebbe al tridente nero di modificare l’impianto costituzionale della Repubblica, si va a sommare anche il tratto più propriamente quotidiano della vita di ognuno di noi.

Le difficoltà di tenuta sociale di una Italia maltrattata dalle politiche liberiste di Draghi, disunita, frammentata e parcellizzata dall’indirizzamento delle grandi risorse del PNRR verso le categorie esclusivamente imprenditoriali, lasciando la briciola di un bonus da 150 euro a novembre per luce e gas ai cittadini che non superano i 20.000 euro annui di reddito, finirà col non essere la sola minaccia tellurica per la fragile stabilità democratica di una Repubblica a cui le destre vogliono cambiare fisionomia, forma e sostanza.

L’intolleranza verso il dissenso mostrata da Meloni durante i suoi comizi, in cui la pacatezza (si fa per dire…) mostrata nei salotti televisivi lascia il posto all’aggressività e alla muscolarità di una verbosità ininterrotta, dove l’attacco è costante e supera la proposta politica stessa di Fratelli d’Italia.

E’ la cifra di una comportamentalità ereditata dal culturame di una destra che non ha mai fatto mistero di non essere democratica, di aderire convintamente al disprezzo per i valori egualitaria nel civismo emanato da una Costituzione che appartiene a tutti gli italiani ma che è fondata dagli antifascisti e sull’antifascismo.

Né Matteo Salvini né Giorgia Meloni hanno mai varcato quella soglia: mai hanno detto di essere antifascisti. Perché, molto banalmente, non lo sono e non lo possono essere. C’è un punto di non ritorno anche per le nostre incoscienze, per quello che mostriamo voler essere e che non possiamo fino in fondo essere. Pena, il convincerci di non sapere bene chi siamo diventati o chi eravamo prima.

E questa induzione all’indecisione, ad un eccesso di pragmatismo istituzionale che tutto trasforma e tutto modella secondo i protocolli dei rapporti internazionali (con le grandi centrali degli interessi capitalistici e con le cancellerie delle grandi potenze) che, sincretizzata con una possibilissima non granitica unità di coalizione e un crescente dissenso popolare nei confronti dell’esecutivo, potrebbe non dare la garanzia a Meloni e al suo partito di poter avviare una legislatura in cui realizzare i progetti che si prefigge da lungo tempo.

La differenza, tra l’altro, potrebbero farla due elementi non certo di secondo piano: la percentuale e i voti assoluti che FdI prenderà, quindi i rapporti di forza tra il partito meloniano e gli alleati, e il rapporto tra questi e il grado di partecipazione popolare alla tornata elettorale.

Se l’astensionismo sarà elevato, oltre il 40% degli aventi diritto al voto, sarà facile presentare tutto questo come una crisi strutturale della democrazia repubblicana per avviare una stagione di controriforme che mettano il Parlamento ancora di più nell’angolo, dipendente dalla volontà di Palazzo Chigi, trasformando la Presidenza della Repubblica in un tutto unico con quella del Consiglio dei Ministri.

L’attuale forma dello Stato, è lapalissiano, a Meloni e al suo partito non piace: il parlamentarismo deve essere superato per andare verso un semi o un intero presidenzialismo che, insieme a correttivi degli altri poteri dello Stato, potrebbe condurci ad uno squilibrio istituzionale molto pericoloso: l’indipendenza della magistratura come sarebbe garantita con un capo dello Stato che diventasse anche capo del governo?

Si riuscirebbe, in assenza di una formazione repentina di un blocco sociale, politico, sindacale, civile e culturale, con la sola opposizione parlamentare a fermare la torsione autocratica dei sovranisti? Gli interrogativi si potrebbero mettere in fila senza soluzione di continuità, ma finiremmo col macerarci soltanto in una inutile giaculatoria ansiogena, autoreferenziale e per niente politica nel trovare una soluzione ai tanti problemi che attendono l’Italia del voto oggi e quella del dopo urne immediatamente dopo.

La logica del voto utile è proprio la più dannosa per evitare che tutto questo accada. Bisogna comunicare ai cittadini, a tutti gli elettori, che tutti i voti sono utilissimi. Ogni voto sottratto all’astensione e dato ad una delle forze che non siano quelle di destra, è l’utilità in quinta essenza.

Questo non vuol dire che qualunque croce messa sulle schede raggiunga gli stessi obiettivi, altrimenti non vi sarebbero differenze nei programmi politici e non vi sarebbe nemmeno la preoccupazione che, forze non appartenenti al centrodestra, possano una volta in Parlamento fare comunella con la maggioranza meloniana su temi rilevanti per la vita del Paese.

Per questo ogni voto è da un lato importante per ridurre l’impatto delle destre sulla disarticolazione della democrazia repubblicana; dall’altro importantissimo se dato a forze politiche progressiste, di sinistra vera, di alternativa sociale come Unione Popolare. In un momento di crisi come il presente in cui ci troviamo, le risorse vanno trovate prendendo a chi ha di più e tutelando chi ne ha di meno o chi proprio non ne ha.

Ogni altra ipotesi di tassazione, di recupero di soldi attraverso una fiscalità fintamente egualitaria (la cosiddetta “flat tax“), è un pericoloso disequilibrio antisociale che, insieme ai propositi eversivi delle destre, può aumentare l’incertezza della quotidianità di tutte e tutti noi.

Scongiurare all’Italia questo scenario futuro è un dovere morale, politico e civile. Proteggere la Costituzione non vuol dire votare per chi l’ha fino ad oggi mortificata nei fatti e tutelata a parole: al semplice volto utile per battere le destre, preferiamo un voto utilissimo per evitare che abbiano una marea di consensi e per avviare una stagione di riforme sociali che aiuti i più deboli e, così, realizzi davvero quello spirito di uguaglianza che la Carta del 1948 echeggia inascoltata da tanto, tanto, troppo tempo.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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