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 di Federico Giusti

La pandemia ha avuto effetti negativi sul Pil dei paesi a capitalismo avanzato, ma ha anche acuito alcune contraddizioni. Per esempio, i costi di spostamento delle merci e della logistica sono saliti alle stelle, le forniture sono andate a rilento subendo anche le conseguenze nefaste dell’embargo alla Russia.

L’economia globale, nei due anni pandemici, ha fatto i conti con gli effetti del covid, la paralisi del sistema sanitario pubblico, dopo anni di tagli che saranno per altro intensificati nel prossimo biennio, il rallentamento della circolazione delle merci, le difficoltà a reperire in tempi rapidi materie prime, il sorgere di nuove alleanze e potenze regionali che hanno in parte modificato gli equilibri geopolitici esistenti.

Le previsioni per l’autunno 2022 erano fin troppo ottimiste nella misura in cui si prevedeva il superamento delle difficoltà degli ultimi due anni, la ripresa del Pil e il ritorno alla circolazione delle merci ai livelli antecedenti la pandemia.

Ma nel frattempo è esplosa la guerra in Ucraina, sono arrivate le sanzioni e i paesi a capitalismo avanzato hanno dovuto diversificare i rifornimenti energetici e non solo quelli.

Gli effetti della crisi sono particolarmente forti per i paesi meno sviluppati, costretti a fronteggiare l’aumento esponenziale dei costi dei generi alimentari provenienti da Russia e Ucraina, ma hanno avuto un impatto negativo anche sulle economie avanzate per effetto dei rincari energetici.

La reinternalizzazione delle produzioni è stata a lungo un cavallo di battaglia della sinistra radicale per contrastare i processi di delocalizzazione produttiva e le esternalizzazioni ma le difficoltà oggettive per realizzare questi nobili intenti vanno analizzate e comprese.

I primi a resistere a questa ipotesi sono le multinazionali che hanno delocalizzato laddove il costo del lavoro è minore, in paesi nei quali sono stati creati regimi fiscali agevolati se non incentivi veri e propri.

Delocalizzare le produzioni è stato conveniente per due ragioni elementari: l’abbassamento del costo del lavoro e il superamento di ogni ostacolo alla produzione ove per ostacoli intendiamo le normative di tutela dell’ambiente, i vincoli paesaggisti. Da questa esigenza derivano anche le legislazioni in materia di lavoro costruite a uso e consumo tanto delle multinazionali quanto di una miriade di piccole imprese che si reggono in gran parte sull’evasione fiscale, sul supersfruttamento del lavoro e sul mancato rispetto delle tutele sociali e ambientali.

Qualsiasi ragionamento inerente la reinternalizzazione produttiva dovrà affrontare gli aspetti globali della produzione e soprattutto fare i conti con il colossale giro di affari costruito attorno alle esternalizzazioni e privatizzazioni.

Chi pensa invece che il problema sia legato a un semplice atto di volontà o a un mero programma elettorale fatto di buoni intenti palesa, ancora una volta, una visione ideologica dei processi produttivi e non fa i conti con la realtà del capitalismo odierno.

Il mondo sindacale occidentale ha sempre peccato di autorefenzialità. Gli scioperi europei si sono limitati a sporadici casi all’interno di qualche vertenza, dimostrando invece disattenzione cronica verso la classe operaia dei paesi emergenti e di quelli economicamente più deboli.

Non vogliamo negare la necessità di un’inversione di tendenza rispetto ai processi di privatizzazione ed esternalizzazione, ma per raggiungere questi obiettivi urge un salto di qualità del sindacato e della stessa politica, una visione globale delle contraddizioni capitaliste, presupposti necessari per quella conflittualità senza la quale i nobili obiettivi non potranno essere raggiunti

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/le-conseguenze-sociali-della-pandemia-e-della-guerra

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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