L’impatto
Non è la prima volta che la destra si prende il governo del Paese. L’Italia è passata per due lunghi lustri di berlusconismo applicato da Palazzo Chigi e per un ventennio di rinnovato conservatorismo intriso di secessionismo leghista da un lato, di riconsiderazione del neofascismo dall’altro.
Tra Arcore e le Terme di Fiuggi, dopo la fine dei grandi partiti di massa, di quegli enormi contenitori di sentimenti, consensi e interessi anche di parte (per carità, tutti legittimi) che erano stati la DC il PCI e il PSI, la mutazione genetica della politica italiana ha seguito il corso di un affiancamento progressivo, tutt’altro che lento, ma certamente inesorabile, verso la sponda liberista di un thatcherismo e un reaganismo che non avevano mai smesso di far sentire la loro eco anche al di qua della della Manica e dell’Oceano.
Si dibatte qui il grande dilemma italiano della rappresentanza degli interessi popolari e di quelli dell’imprenditoria di moderno modellamento all’interno del grande impatto che la globalizzazione ha avuto un po’ ovunque e che ha, soprattutto a far data dalla crisi economica del 2008-2009, plasmato anche la fisiognomica di una Unione Europea matrigna piuttosto che madre.
Il tramonto del berlusconismo ha messo in crisi la destra solo per breve tempo: la capacità resiliente del conservatorismo e del neonazi-onalismo, espresso dal cosiddetto “post-fascismo” di partiti come Fratelli d’Italia, si è dimostrata attuale e fortemente competitiva con le altre proposte in campo. Un confronto che potrebbe essere riassumibile, almeno per la Meloni con un “ti piace vincere facile”, visto che i progressisti e democratici hanno davvero fatto tutto il possibile per renderle la campagna elettorale come una passeggiata verso Palazzo Chigi.
Il primo dato, nel confronto delle reciproche difficoltà tra le coalizioni, le singole forze politiche e tutte le proposte trovate sulle schede elettorali, è dunque l’estrema duttilità delle destre nel sapersi adattare ai tempi, alle contingenze immediate, alle crisi repentine di governo, gestendone il percorso travagliato e uscendone, alla fine, vincitrici.
L’impatto con questa realtà deve essere altrettanto franco e brutale come quello che riporta ai dati numerici in assoluto e in percentuale: il distacco tra le due principali coalizioni è di quasi cinque milioni di voti. Un dato enorme che, tuttavia, non si discosta molto dalle sconfitte subite dai quei centrosinistra precedenti a quello attuale (che davvero si fa fatica a poter chiamare in questo modo) perché la base di consenso delle destre viaggia sempre intorno al 40/45% dei voti espressi.
Anche quando Prodi vinse con “L’Ulivo” prima e con “L’Unione” poi, si rimescolarono più che altro i voti centristi e il sorpasso fu permesso da una indubbiamente molto più alta partecipazione alle tornate elettorali che – va detto – premiò ovviamente anche la Casa prima e il Popolo poi delle Libertà.
Dunque, l’impatto con la vittoria di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni è tutto ciò: una pesante eredità di un passato in cui l’Italia ha mostrato il suo carattere conservatore, reazionario e anche un po’ vandeano nel cercare una soluzione ai problemi collettivi che origini da un punto di vista non sociale, solidale, mutualistico, compenetrante e valorizzatore delle tante differenze che esistono, bensì in una risposta egoistica, dettata dalla disperazione di non riuscire più ad individuare una via di scampo dalle tante crisi che abbiamo attraversato nel corso degli ultimi trent’anni.
Le contraddizioni evidenti
Giorgia Meloni vince, Fratelli d’Italia si attesta sul 26%, mentre i suoi alleati vengono prosciugati: gran parte degli elettori della Lega si riversa sulla fiamma tricolore, puntando non sul nuovo ma – si dice – su ciò che ancora non si è sperimentato; Forza Italia, pur seguendo la sua inesorabile discesa, che si accompagna all’altrettanto inesorabile senescenza del Cavaliere nero di Arcore, non tracolla come ci si poteva aspettare. Ma, insieme, Salvini e Berlusconi superano appena la metà della della percentuale ottenuta dalla presidente dei conservatori europei.
Un gigante non inaspettato, ma di sicuro una Lega ridotta peggio di quello che tutti si attendevano. Ogni risultato sotto il 10% avrebbe potuto mettere in crisi la già consumata leadeship del capitano. Anche se, coloro che veramente potrebbero insidiarne il posto, i presidenti di regioni da tempo critici verso la sua linea oltranzisticamente xenofoba, antimigranti e ipersecuritaria, non hanno dalla loro dati confortanti del partito nei territori di reciproca appartenenza. A cominciare dal Veneto di Zaia.
Nella formazione del futuro governo, pertanto, peseranno tutte queste contraddizioni interne al centrodestra e peseranno come macigni, visto che i rapporti di forza della maggioranza parlamentare risponderanno a tutte le deviazioni perverse che il Rosatellum ha stabilito: tanto per i vinti quanto per i vincitori.
Sarebbe compito di una opposizione degna di questo nome approfittarne sin da subito, aprire dei varchi ancora maggiori in queste intercapedini. Purtroppo, in tutta oggettività, non ci si può aspettare da ciò un implementazione delle forze parlamentari che si richiamano al progressismo.
Semmai Lupi, Toti e Brugnaro, che sono, in quanto a risultato, speculari al centrismo rivendicato da Tabacci e Di Maio, si barcameneranno tra il richiamo alla stabilità del governo (avranno qualche ministro e dei sottosegretari) e la coltivazione di un sogno neocentrista su cui continueranno a lavorare tanto i settori moderati del PD quanto il terzo polo di Calenda e Renzi, divenuto nel frattempo “quarto”…
La resurrezione pentastellata
Mentre Letta, Bonino e Di Maio sono alle prese con una sconfitta preannunciata – perché tutto, davvero quasi tutto si è svolto secondo le emblematicamente tristi previsioni dei sondaggisti – appare sempre più netta, nonostante al Sud abbia votato un elettore su due (clamoroso il dato della Sardegna nel suo isolano complesso…), la rimonta dei Cinquestelle, passati nel giro di pochi mesi dal sostegno pieno al governo Draghi ad un ruolo di forza quasi socialdemocratica, certamente non lontana da tante proposte programmatiche condivisibili con Unione Popolare e con Sinistra Italiana ed Europa Verde.
Il 15% e più, raccolto da un movimento che era dato per spacciato, è, insieme al crollo verticale della Lega, il dato più significativo che gli studiosi dei flussi di voto dovranno analizzare: qui converge la maggior parte di un voto popolare che, solleticato dall’obiettivo delle due cifre e, quindi, della consistenza numerica in Parlamento, ha preferito scegliere il camaleontismo contiano rispetto alla genunità antiliberista e indefessamente antidraghiana di Unione Popolare.
Nemmeno Sinistra Italiana e i Verdi ottengono quel risultato che avrebbero voluto poter avere, portando “tecnicamente” in dote al centro democratico e progressista un 4 o 5% di consensi che avrebbe in parte mitigato la pochezza dell’impegno civico dell’ormai ex ministro degli esteri ed anche ex deputato della Repubblica.
Facendo leva su una rendita di consensi del passato, il Movimento 5 Stelle non ha subito la stessa sorte di Rifondazione Comunista quando venivano tolte le fiducie ai governi di centrosinistra prodiani. Almeno non nelle urne.
Invece di arretrare, di ridursi al lumicino e finire nell’irresidualità (cui Rifondazione, comunque, non è mai finita, nonostante le si sia augurata una prematura morte più e più volte), ha saputo rappresentare, tra la proposta un po’ classica di destra estrema, tra quella sistemica e da “agenda draghiana” dell’asse liberistissimo stabilito tra PD, Bonino e Di Maio, tra il progetto neo-centristra di Calenda e Renzi, una alternativa quasi di sinistra. Non ci vuole, del resto, poi molto nell’apparire sociali se ci si confronta con competitor che hanno come prima parola d’ordine il ristabilimento degli inderogabili dettami europei nella politica italiana sconquassata e bislacchissima di questo fine 2022.
Fatto sta che, tertium datur. In questo frangente la corsa solitaria di Conte e dei suoi ha elettoralmente pagato. Non siamo più in presenza del Movimento interclassista, antipolitico, a-ideologico delle origini: rottura drastica della maggioranza di unità nazionale, beata solitudo e profilo sociale hanno decretato per il partito di Giuseppe Conte una seconda giovinezza.
Ben al di sotto delle percentuali del 2018, ma certamente siamo in presenza di una inversione di tendenza e di un dato positivo che, in quello che poteva essere il fronte progressista con Unione Popolare e Sinistra Italiana , non si registra altrove.
Sarà interessante ora leggere le prime mosse parlamentari del M5S, per capire se condizionerà le future scelte del PD nel congresso primaverile appena annunciato, oppure se la convergenza i grillini la potranno stabilire solo con la pattuglia di deputati e senatori dell’Alleanza tra verdi e sinistra. Non è escluso che questo dialogo tra progressisti possa, ed anzi, debba avvenire anche fuori dal Parlamento.
Se a questo Paese si vuole dare, prima o poi, una vera alternativa progressista, bisogna iniziare, nel rispetto delle differenze che esistono tra le diverse forze, iniziare a convergere dentro e fuori il palazzo per creare una più larga piattaforma possibile su rivendicazioni sociali, in difesa del lavoro e in difesa di tutti quei diritti fondamentali che saranno sotto una nuova stagione di fuoco di fila nel momento in cui il governo Meloni sarà insediato a Palazzo Chigi.
L’alleanza mutilata
Non ancora sciolto il dilemma se sposare il progetto neo-centrista o se ridare vita da una sorta di laburismo all’italiana, il PD di Letta va sotto il 20% e non ha attorno a sé nemmeno alleati che possano sostenerlo in questa autodisfatta, in questo masochistico mandarsi al massacro pensando di poter favoleggiare di qualche rimonta competitiva con la corazzata meloniana negli ultimi giorni prima del voto.
Forse, adesso, il Partito democratico è arrivato davvero al suo redde rationem, più di altre forze politiche di sinistra che conoscevano, come Unione Popolare, il loro destino e che si battevano per far valere il loro diritto di rappresentanza in Parlamento ed iniziare così più utilmente e facilmente un cammino di rifondazione della vera sinistra di alternativa in questo disgraziatissimo Paese.
Il risultato della coalizione che doveva essere il famoso “campo largo”, è ascrivibile alla grigia indistinguibilità politica e (anti)sociale che i ruoli di governo assunti dal PD hanno avuto nel corso di questi anni. Non più percepiti solamente, ma chiaramente intesi come una forza istituzionalista, capace di essere interprete delle ragioni del privato, del mercato e delle compatibilità di sistema tanto nei governi tecnici quanto in quelli politici, piuttosto che degli interessi popolari, della povera gente cui si richiama indebitamente quando pretende di essere considerato “di sinistra”.
La crisi del draghismo è stato l’ultimo sprazzo di una avventura bidimensionale iniziata col veltronismo maturo alle prese con una dualità culturale, sociale e politica (socialismo democratico e popolarismo) che non poteva non inciampare, prima o poi, nelle tante contraddizioni che le circonvoluzioni del liberismo le avrebbero messo davanti.
E’ accaduto ai Cinquestelle, nelle tante mutazioni che hanno sviluppato una volta assaporato il confine del potere del cambiamento (più o meno questa soglia, anche nel caso della Meloni, si attesta sempre attorno alla maggioranza relativa del 30% come partito e quella assoluta in Parlamento) e del potere per il potere immediatamente dopo. E’ accaduto e riaccaduto proprio al PD che si pensava al riparo dai contraccolpi delle crisi sistemiche, delle grandi problematiche internazionali, completamente fedele e perfettamente aderente ai dettami liberisti, con una vena di riformismo tesa a mantenere una specie di “pace sociale” di nuovo modello.
Lo spazio politico del PD si è ridotto, in quanto a manovre tanto di centro quanto di sinistra, nel momento in cui hanno iniziato a prendere vita altri progetti, altre prospettive che, pure con un certo coraggio alla ventura, tesi a rimettere insieme i cocci: un po’ per disperazione, un po’ per necessità e opportunità colte una volta crollato il grande moloch draghiano.
Affibbiata la responsabilità della caduta del governo ai Cinquestelle, Letta ha composto coalizioni più sulla carta che sull’effettiva volontà dei partecipanti. Ha sottovalutato la natura fondante del neo-centrismo calendiano e ha dato, forse pure involontariamente, un assist non da poco al leader di Azione per smarcarsi da un abbraccio effettivamente infelice che, con gli occhi del poi, avrebbe, nonostante la pretestuosità della “natura tecnica” dell’alleanza con Fratoianni, la coalizione nel dubbio di cosa veramente avrebbe potuto essere in Parlamento.
Non si dubita del buon proposito di voler fermare le destre sulla via di Palazzo Chigi, ma viene proprio da pensare che non si siano studiati i rapporti di forza, anche quelli latamente previsionali, leggermente migliori delle divinazioni di quale aruspice del nuovo millennio.
Letta è rimasto molto più politicamente isolato e solo di quanto non lo fossero Conte da un lato e Calenda e Renzi dall’altro. La borghesia italiana ha scelto di unire i propri consensi, in maggioranza, all’umore popolare che viaggiava come vento in poppa della nave meloniana.
Ha scelto, come per sua natura di classe, di cavalcare quest’onda e non di affidarsi alle rassicurazioni sulla fedeltà all’”agenda draghiana”, al metodo di governo portato avanti dall’ex banchiere europeo declinato da un centro(sinistra) senza una vera guida, senza un progetto di difesa degli interessi privati che potesse anche solo sembrare realizzabile.
Letta e il PD perdono su tutti i fronti: dal lato centrista, dove si infrange al momento il patto con le élite del Paese, dal lato di sinistra, dove è sempre meno la percentuale di coloro che vedono nei democratici i difensori dei diritti dei più deboli. Non sono bastate tutte le controriforme antisociali portate avanti dai mutevoli centrosinistra degli ultimi lustri per fare gli elettori edotti di questa bipolarità malevola: serviva una frammentazione del bipolarismo parlamentare causata da grandi eventi come la pandemia e la guerra per dare uno scossone in questo senso.
Il vincitore silenzioso e rumoroso
Meno del 64% degli aventi diritto al voto è andato al seggio. Una retrocessione di ben nove punti in percentuale se si fa il raffronto, obbligato, con le precedenti politiche del 2018. Se esistesse un premio alla critica della politica che scontenta tutto e tutti, andrebbe sempre dato all’altro popolo, quello che non si esprime col voto, che diserta le urne, che, per punto ideologico, per disaffezione e disarmonia, per rabbia e compensazione della stessa, sceglie non scegliendo.
L’astensionismo dovrebbe interrogare un po’ tutte le coscienze, mentre finisce per essere un convitato di pietra, una ritualità scansabile, una abitudine consolidata.
Non si pretende di tornare alle percentuali del 1948, quando a votare andava quasi il 30% in più di tutti coloro che pochi giorni fa sono andati alle sezioni per esprimersi nel merito del rinnovo del Parlamento della Repubblica. Questo no. Ma, prima o poi, anche a sinistra sarebbe bene non calcolare solo l’endemicità di una parte del popolo dell’astensione o la sua incasellabilità nel perimetro del malcontento generale.
Perché i problemi di carattere nazionale, collettivo e, quindi, popolare, finiscono inevitabilmente col sommarsi e con il produrre effetti peggiori di quello che si potrebbe attendere. Dalla nascita della Repubblica fino ad oggi, quel 63,9% di partecipazione al voto in questo 2022 è il dato negativo più eclatante che si sia registrato in una chiamata all’espressione democratica del consenso per delega diretta. E’, fuori da tanti giri di parole, un altro campanello d’allarme per una democrazia in crisi di identità, in debolezza strutturale, in pericolo realmente di vita.
E qui non si tratta affatto di richiamare i fantasmi del fascismo mussoliniano come epifenomeni del post-fascismo meloniano. Sappiamo tutte e tutti cosa fin da giovane abbia abbracciato Giorgia Meloni: una eredità politica che stava al di fuori dell’arco costituzionale propriamente detto, che è stata tollerata proprio nel nome del rispetto della differenza delle idee e che ha scavato, aiutata tenacemente da chi aveva tutti gli interessi per dividere i poveri, governarne gli umori e dirigerli contro sé stessi facendo apparire tutto questo come l’unico interesse che potessero coltivare per salvarsi davanti ad un futuro escrementizio.
La destra non ha di che preoccuparsi del fenomeno esponenziale dell’astensionismo: gioca tutto a suo favore e, del resto, non ne è stata nemmeno scalfita. Semmai sono le forze di opposizione, soprattutto quelle che intendono ancora parlare agli strati più deboli della popolazione, a doversi chiedere come recuperare almeno un buon 20% di elettorato che non riconosce più nelle istituzioni e nei partiti dei punti di riferimento credibili e affidabili.
Il lavoro di erosione arriva da lontano, coinvolge tanto formazioni neofasciste che hanno carsicamente posto le basi per una destabilizzazione della collera singola e collettiva, quanto da un collaborazionismo indiretto fondato sulla atomizzazione dei diritti, sulla decomposizione di quello che rimaneva delle garanzie sociali a tutela del lavoro e del grande bacino del disagio, sempre più emergente.
L’ascesa a Palazzo Chigi di un partito post-fascista, che nel suo simbolo ha la fiamma tricolore di quell’MSI mai messo fuori legge come previsto invece dalla Costituzione nelle sue norme finali, addizionata alla crisi verticale della democrazia repubblicana, mette in serio pericolo l’equipollenza dei poteri, tanto da prefigurarne un “aggiornamento”, un tentativo di revisione della centralità del Parlamento a tutto vantaggio della forma presidenzialista che si vorrebbe dare alla Repubblica.
Non è un mistero che nei programmi del vecchio MSI, come della P2 di Gelli, questo fosse uno dei pilastri della trasformazione in chiave autoritaria dello Stato, per fare dell’Italia un regime in cui politica, militarismo e grande economia andassero tranquillamente a braccetto, dopo aver isolato le forze comuniste e progressiste, facendo venire meno proprio il carattere massivo della democrazia espresso attraverso i grandi partiti di allora.
Oggi, mutatis mutandis, la tentazione diventa forte, in presenza di consensi che mai i post-fascisti avevano avuto nel corso della loro storia…
Amaris in fundo?
Le prime considerazioni sul ruolo di Unione Popolare in tutta questa un po’ farsesca campagna elettorale, tocca farle partire dai fattori esterni (per così dire) che hanno influito sul risultato della coalizione nata dalla convergenza di Potere al popolo!, Rifondazione Comunista, DeMa e le parlamentari di ManifestA.
La tara occorre farla subito, per sgomberare il campo da ogni fraintendimento: in due mesi soltanto non si può far conoscere un simbolo e renderlo percepibile come una novità e, al tempo stesso, un richiamo alla tradizionale sinistra di alternativa, residuale ed ininfluente quanto si vuole.
Il fattore tempo, quindi, per primo ci ha zavorrato di uno svantaggio non indifferente. A ciò si è andata aggiungendo, mano a mano che le coalizioni si definivano in quanto tali, la mai presa in considerazione – da parte dei Cinquestelle e di Sinistra Italiana – della costituzione di un polo progressista che avrebbe potuto essere oggi, numeri alla mano, il terzo polo in tutto e per tutto.
Forse, preso atto di tutte le vicendevoli contraddizioni esistenti, Unione Popolare non sarebbe rimasta da sola a rappresentare ragioni che le erano e le sono proprie ma che trovavano un minimo comune denominatore anche nel Movimento di Conte, nell’ecologismo di Europa Verde e nell’eterno ritorno alla soglia del PD da parte di Fratoianni.
E’ stata una grande occasione mancata. Si poteva al tempo stesso fare un primo passo verso una nuova idea di sinistra da un lato e di progressismo anche moderato dall’altro, e impedire al PD di riesumare un etichettatura di centrosinistra che persino giornalisti come Aldo Cazzullo hanno valuto ormai desueta o, quanto meno, inappropriata. Non pericolosi bolscevichi, ma analisti e giornalisti di una stampa più che borghese non fanno che parlare dei democratici di Letta come di una forza centrista.
Abbiamo sottolineato che, nel voto appena passato, emerge con nettezza la convergenza sulla proposta unitaria delle destre da parte di un voto borghese che si lega ad un voto popolare: un voto che non riusciamo ad intercettare come sinistra di alternativa. Non lo intercettano nemmeno il PD e i suoi alleati che, tuttavia, contendono ad UP, insieme ai Cinquestelle, un bacino elettorale comune, purtroppo sedotto abbastanza facilmente dal ricatto del “voto utile“.
La maturità politica, sociale e civile impone di non abbandonarsi ai soliti isterismi del dopo-voto non soddisfacente (per usare un eufemismo). Troppe compagne e troppi compagni si lasciano andare ad una rassegnazione quasi da coazione a ripetere, ogni volta che un dato elettorale (per la verità spesso e troppo volentieri) ci piomba addosso e ci percuote.
Dobbiamo riflettere e ponderare in che modo possiamo essere utili a coloro che vogliamo rappresentare. Il magro risultato che Unione Popolare ha ottenuto (400.000 voti, pari all’1,4%) non va considerato altrimenti se non figlio dei tempi piuttosto che di scelte strategiche o tattiche sbagliate. Che avremmo potuto fare altrimenti? Cercare un accordo con la coalizione del PD come Sinistra Italiana, tradendo così i presupposti stessi della nostra esistenza? Saltare il turno e presentarci tra cinque anni per non inaugurare con una sconfitta il cammino di UP?
E adesso? Davvero si pensa che recriminando sui simboli storici del comunismo, sulle dimissioni delle dirigenze politiche si possa riequilibrare la grave crisi che attraversa la sinistra in Italia dal 2008 a questa parte? Questa sconfitta non è uguale alle altre, perché il progetto aveva intenzione di nascere e crescere nel corso di tempi più lunghi, arrivando al voto nella primavera del 2023.
Non è stato così e, nonostante tutto, abbiamo raccolto 60.000 firme, attivato le nostre residue organizzazioni sui territori, spesso fatto campagna elettorale con pochissimi mezzi, poche persone e completamente oscurati dai mass media. Non sono gli alibi che vanno cercati per giustificare il mancato superamento del 3% per accedere ai seggi in Parlamento.
Ma sono le ragioni oggettive, i fatti, a dirci che di autocritiche in tal senso ne abbiamo già tenute abbastanza e che ora è il momento di superare le delusioni, ancora una volta, sì, e procedere nell’autunno dell’insediamento del governo Meloni e della crisi economica globale, della pandemia irrisolta e della guerra apparentemente irrisolvibile, per dare una base sociale ad un progetto politico. Solo così – scriveva Gramsci – si creano quelle condizioni per i comunisti attraverso le quali si fa egemonia.
Si fa politica, si fa cultura, si fa anche ideologia. La prospettiva di un cambiamento sociale non può essere affidata solo al mercimonio della piccola politica di palazzo, tutta scambi tra pubblico e privato, fatta di prebende e impalmamenti di ogni tipo. Il lavoro che attende Rifondazione Comunista non è cambiato: mettersi al servizio di una proposta di alternativa che unifichi, che sia inclusiva e che si pensi oltre la strettoia elettorale. Nella quotidianità dei mille e mille problemi che ci attanagliano.
Un secolo dopo l’avvento del fascismo, siamo avvisati. Abbiamo la Storia come insegnante. Abbiamo i nostri errori come libri su cui studiare approfonditamente. Non ci possiamo permettere nessuna sottovalutazione, ma nemmeno possiamo perdere di vista gli obiettivi che, ieri come oggi, ci siamo dati per provare a migliorare questa società. Per farlo toccherà vigilare con circospezione e spirito collaborativo, per evitare danni alla Costituzione e alla struttura stessa del Paese.
Saranno tempi difficili e, per questo, non ci si può concedere nessuna pausa, nessuna pedanteria. Andiamo avanti con Unione Popolare, senza soluzione di continuità.
MARCO SFERINI