di Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)*
PROCESSI DI CONCENTRAZIONE NEOLIBERALE DEL POTERE,STATO D’ECCEZIONE E RICOLONIZZAZIONE DEL MONDO
1. Antifascismo degradato a propaganda
Non c’è dubbio che in Fratelli d’Italia – il partito di Giorgia Meloni che tutti i sondaggi indicano come vincitore delle prossime elezioni con il 24% circa dei consensi – ci siano forti nostalgie fasciste o fascisteggianti. Diversi suoi esponenti nazionali e locali rappresentano già per la loro biografia la continuità con il MSI, la formazione che dopo la nascita della Repubblica italiana aveva raccolto gli eredi del fascismo sconfitto e che è stato a lungo guidato da Giorgio Almirante (un funzionario della Repubblica di Salò che nel contesto della Guerra Fredda seppe subito riposizionarsi in chiave filoamericana e anti-PCI).
E la stessa Meloni è stata dirigente del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del MSI incline a un impegno “sociale” e “movimentista” e attiva nelle scuole e nelle Università; un’organizzazione il cui nome venne cambiato in Azione Giovani dopo che quel partito era stato a sua volta ridenominato come Alleanza Nazionale da Gianfranco Fini, allo scopo di essere ammesso al governo, e della quale la Meloni divenne a quel punto leader. Tra l’altro, se Alleanza Nazionale si presentava nel 1994 come un’operazione di fuoriuscita della destra italiana dall’orizzonte della nostalgia e di apertura a un’impostazione dichiaratamente liberalconservatrice, Fratelli d’Italia – che nasce nel 2012 proprio dal fallimento di quell’operazione – ha certamente rappresentato ai suoi esordi un ritorno verso un orizzonte più chiuso. Dobbiamo poi notare un’inquietante ricorrenza storica: il partito che sin dal simbolo si richiama all’eredità del fascismo (la fiamma tricolore che si innalza dalla bara stilizzata del Duce) potrebbe andare al potere esattamente 100 anni dopo la Marcia su Roma di Mussolini.
Possiamo già immaginare la soddisfazione e il sentimento di vendetta di quel ceto politico e dei militanti più accesi di quel partito. E possiamo prevedere anche l’operazione di revisionismo storico e di ulteriore normalizzazione o riabilitazione del fascismo alla quale questa infausta coincidenza darà avvio nel dibattito pubblico.
Pensando al grido d’allarme lanciato da David Broder sul “New York Times” a proposito di una possibile fascistizzazione del contesto politico italiano, non intendo sottovalutare questi pericoli, dunque, e non c’è nessun motivo per essere ottimisti: che le previsioni di voto si avverino o meno, ci aspetta un periodo la cui durata non è adesso definibile ma che sarà comunque molto difficile. Il problema è però a mio avviso un altro e riguarda la sostanza e l’oggettività dei processi, che è più importante delle nostalgie soggettive e delle paure che queste possono legittimamente suscitare. Ammessa la presenza di questi elementi di continuità e della loro persistenza nel ceto politico di destra – ma anche in alcuni settori della società italiana che hanno tradizionalmente animato i pellegrinaggi a Predappio o quantomeno non si sono mai scandalizzati per essi –, possiamo per questo parlare tout court di un ritorno del fascismo per via elettorale in Italia nel 2022? L’Italia si avvia a ridiventare un paese fascista e siamo dunque alle soglie di un suicidio della democrazia e di una possibile dittatura, con la proibizione dei partiti politici e dei sindacati, la reintroduzione della censura e del carcere speciale, la discriminazione delle minoranze e una legislazione razziale? È questo il cuore del problema italiano e più in generale è su questo terreno, e cioè nelle dinamiche di radicalizzazione del confronto politico in chiave antiliberale – come anche diversi altri intellettuali hanno paventato – che nascono oggi rischi di fascismo e le minacce alla libertà e alla pace? Non ne sono convinto e questa considerazione vale per il nostro come per altri paesi europei interessati da fenomeni analoghi di reviviscenza delle destre più o meno estreme.
In primo luogo, dobbiamo notare come la denuncia del pericolo del “fascismo alle porte” sia l’argomento propagandistico principale usato dai media di orientamento liberaldemocratico, e dunque vicini al PD e al centrosinistra; i quali cercano in questa maniera di delegittimare l’avversario e di spaccare in due il campo politico, semplificandolo in una chiave bipolare per mobilitare i propri simpatizzanti e attirare il “voto utile” degli elettori indecisi dopo averli terrorizzati. È probabilmente l’unico argomento che hanno a disposizione ma si tratta di un argomento disperato e perdente, perché le ragioni del possibile successo e comunque del prevedibile risultato di Meloni non vanno individuate affatto in un improvviso revival dell’autoritarismo fascista o in un’ostilità di massa verso il liberalismo. Va ricordato che solo 4 anni fa, quando agli inizi della sua esperienza aveva messo in atto un’operazione marcatamente nostalgica ritrattando in gran parte l’evoluzione impressa alla destra italiana da Fini, il partito di Meloni aveva appena il 4,3% dei consensi: dove erano, all’epoca, tutti questi fascisti che starebbero oggi per rialzare la testa? Erano tutti nascosti? Perché non si manifestavano, se l’Italia era un paese così illiberale e ricettivo nei confronti del fascismo? Del resto, non si tratta di una novità. Anche ai tempi dell’ingresso di Alleanza Nazionale al governo con Berlusconi, in realtà, la retorica antifascista utilizzata dai media del centrosinistra non era stata per nulla diversa e meno allarmistica rispetto a quella di questi giorni. Qualche anno dopo, invece, gli stessi media non avrebbero esitato a fare di Fini – fino a poco prima denunciato come il presunto nuovo Duce – un eroe della democrazia liberale, nel momento in cui questi è arrivato a una rottura con Berlusconi aprendo le porte al governo di Mario Monti promosso dall’Unione Europea e dalla BCE. Ma al di là di questa coazione a ripetere, c’è anche una controprova assai significativa e che ci tornerà utile al momento della conclusione di questa analisi: è un dato di fatto che mentre si impegnano a contare le croci celtiche e le svastiche tatuate sulle braccia dei militanti di Fratelli d’Italia, le stesse forze politiche che si definiscono fieramente liberali e antifasciste non esitano a sostenere la legittimità democratica di formazioni che al nazifascismo si richiamano in maniera esplicita, come le organizzazioni paramilitari ucraine, inviando loro anche armi con un voto in Parlamento…
Quale credibilità possiamo dare, allora, a questa retorica incoerente e ad intermittenza? Personalmente non ne do nessuna, senza per questo minimizzare la portata del problema. Dobbiamo però pensare che in Italia esista un 24% di persone inclini al fascismo che vogliono rovesciare gli ordinamenti liberali? Ed è per la sua natura fascista che questo 24% di elettorato voterà Fratelli d’Italia? Non lo credo. Si tratta di una normale propaganda elettoralistica che è speculare a quella delle destre stesse, le quali sostengono a loro volta ad ogni pie’ sospinto e con sprezzo del ridicolo che il loro principale avversario nel centrosinistra, il PD, è una forza neocomunista.
Di recente, per fare un esempio emblematico, persino un intellettuale liberale ritenuto autorevole come Paolo Mieli – ex direttore del “Corriere della Sera”, collaboratore della televisione di Stato per i programmi culturali e sempre attento a fiutare l’aria che tira per riposizionarsi e rimanere a galla – ha sostenuto che nel PD ci sono dirigenti che conservano ancora gli ideali della Rivoluzione d’Ottobre. È un’affermazione lunare e chiaramente propagandistica, questa, spesa in nome di un posizionamento centrista; ma lo stesso discorso vale a parti invertite per la propaganda contro Fratelli d’Italia. Certo, è comprensibile utilizzare per ragioni polemiche e nel vivo della battaglia contingente l’argomento del “fascismo” di Meloni, intendendo con questo termine un’accesa ma generica propensione all’autoritarismo e a politiche discriminatorie; se dovessimo invece prendere sul serio questa propaganda e intendere questo termine in un senso più tecnico, però, sbaglieremmo. E comunque non avremmo altra possibilità che cedere al ricatto del voto utile e affidarci ai sedicenti neopartigiani. Al fine – quantomeno – di costruire un vasto fronte antifascista per fermare il nemico assoluto o ridurne il danno, come avvenne nella Seconda guerra mondiale!
2. Crisi organica e rivolta dei ceti medi
Proprio nella prospettiva di contrastare i pericoli che minacciamo realmente la democrazia, questa sarebbe tuttavia una scelta miope che non risolverebbe in alcun modo il problema della presenza di una o di più destre e della loro forza nel paese. E sarebbe miope perché – come dicevo – l’ascesa di Fratelli d’Italia dal nucleo nostalgico originario verso i più ampi consensi attuali non è dovuta affatto a un improvviso revival del fascismo o a un rigetto del liberalismo ma nasce da una dinamica molto diversa e strutturale, che chiama in causa i rapporti tra le classi ma anche le responsabilità del liberalismo stesso e che deve essere compresa in maniera rigorosa per poter essere affrontata. Questa ascesa nasce infatti dal persistere di una gravissima crisi organica di lunga durata del sistema politico italiano. Una crisi per la quale già dalla fine della Prima Repubblica e cioè dagli anni Novanta, e in misura crescente dopo l’esplosione della crisi economica del capitalismo mondiale del 2008, le liberalissime classi dominanti stabilite e i loro funzionari politici di tutti gli schieramenti, ma anche i funzionari tecnici inviati come commissari salvifici dagli organismi sovranazionali per imporre l’austerità e le politiche di rientro dal debito, non sono più stati in grado di esercitare una direzione stabile sulla società e sui suoi conflitti. Così che il quadro politico è stato soggetto a disgregazione e a continui sommovimenti e scossoni, ma sempre nel contesto della tendenza generale a un logoramento oggettivo dei rapporti di forza tra le classi e dunque sempre nel contesto di un deciso slittamento complessivo a destra del sistema. Nell’ambito, in altre parole, di un’incalzante destrutturazione della democrazia moderna – ossia della democrazia integrale che abbiamo conosciuto fino alla fine del Novecento – che non comincia ora e non ha aspettato l’ascesa attuale delle destre per manifestarsi ma che è in atto da tempo. E che da tempo si accompagna a un processo di deemancipazione sostanziale delle classi subalterne e alla ricerca di forme alternative, postmoderne e più esclusiviste, di democrazia.
È una crisi che in questo senso riguarda l’Italia ma parla anche di tutti i paesi occidentali e che è legata soprattutto ai concreti processi di impauperimento dei ceti medi e della piccola borghesia. Strati sociali che non si sentono più tutelati da quelle classi dominanti nazionali alle quali erano stati legati in un blocco di alleanza per tutto il secondo dopoguerra (e in parte ancora nell’epoca del confronto tra Berlusconi e Prodi), dal momento che queste classi dominanti riescono oggi a mala pena a tutelare se stesse, non sono più in grado di redistribuire risorse e si trovano alle prese con una lotta furibonda di frazione con i competitori internazionali e al loro interno. Ed è la medesima e ben nota crisi che ad un certo punto ha prodotto il ribellismo populista italiano gonfiando il consenso del M5Stelle delle origini e quello della Lega di Matteo Salvini, due partiti la cui ascesa sembrava sino a poco fa inarrestabile: di fronte al fallimento dei ceti dirigenti tradizionali e al prodursi di forti squilibri sociali, è normale che larghi strati di popolazione, i quali vedono gravemente indebolito il proprio status e il proprio potere d’acquisto, si sentano traditi dall’establishment e rimangano senza guida. Ed è altrettanto normale che, radicalizzati dal bisogno e abituati ormai a usare la comunicazione digitale e a mobilitarsi in rete, questi strati cerchino tra gli outsider nuovi punti di riferimento che catalizzino le loro frustrazioni e impotenze, individuandoli ora in questo, ora in quel significante politico (Laclau) che si presti a tale funzione. In quel significante o in quell’attore, cioè, che per qualche ragione appare meno compromesso con l’establishment “traditore” e che – elemento decisivo – in questa sua apparente estraneità al “sistema” si dimostra in grado di mettere in atto una comunicazione con il “popolo” che sia la più diretta e immediata possibile, simulando così una partecipazione di massa. Un attore che viene identificato in un movimento o in un leader che tocchi la dimensione dell’immediatezza, dunque, e che fornisca perciò soluzioni elementari e persino rozze a problemi complessi, costruendo di volta in volta un facile capro espiatorio e un nemico esterno comune a tutti gli strati; un nemico che possa incarnare una chiave complessiva di spiegazione dei fenomeni e al quale possa essere addossata tutta la sofferenza della società: la casta dei politici, l’UE e i tecnocrati di Bruxelles, i fannulloni del pubblico impiego, i marginali, i migranti, e così via.
Inoltre – e questo aspetto punisce molto più il centrosinistra, ossia la sinistra liberale, di quanto non punisca i liberalconservatori e le destre estreme e spiega la parziale “verginità” di quest’ultima area e la consistenza del suo consenso attuale, di contro alla perdita di consenso della prima –, poiché l’orientamento ideologico e culturale prevalente dei ceti dirigenti nazionali e continentali è stato ed è ancora di tipo formalmente progressista e universalista astratto (pensiamo al cosmopolitismo europeista, al politicamente corretto, all’empowerment femminile di classe, al cosiddetto greenwashing a spese dei più poveri o alla questione dei diritti civili…), questi strati impauperiti e arrabbiati si rivolgono assai più favorevolmente, per reazione – e per lo più persino contro i propri stessi interessi, dei quali hanno una percezione confusa – alle tendenze particolariste e conservatrici, sovraniste e socialscioviniste. A tendenze, cioè, che in questa ideologia universalista sono meno coinvolte e a quelle che sono rimaste per lungo tempo ai margini. E che – additate dai media come inaffidabili e pericolose per la tenuta del sistema e percepite per questo come antagoniste o persino “rivoluzionarie”, pur se esprimono anch’esse gli interessi delle classi dominanti o sono comunque ad esse subordinate e si collocano del tutto all’interno delle compatibilità di una visione del mondo liberale e proprietaria –, agitano i contrapposti valori tradizionali e conservatori di una comunità compatta ma immaginaria. Vellicando la nostalgia degli anni d’oro e il bisogno popolare di protezione e rassicurazione, in una gara ininterrotta e convulsa a chi scavalca l’altro sempre più a destra con programmi politici sempre più reazionari.
3. Lo slittamento a destra della sinistra storica e la sua adesione al neoliberalismo
Del resto, c’è anche una ragione molto più concreta e banale che spiega perché la crisi interna del liberalismo abbia preso questa direzione particolarista e non si sia orientata, al contrario, a favore dei progressisti universalisti: la ribellione populista e questa deriva sono in gran parte conseguenza delle politiche neoliberali antisociali che proprio questi ambienti hanno avuto il compito di adottare nelle loro ripetute esperienze di governo, assieme alla concomitante ideologia consumerista, desiderante e competitiva. Ed essa è dunque anche conseguenza dell’incapacità del PD e del centrosinistra – un’area che immaginava una prosecuzione ininterrotta della fase espansiva della globalizzazione clintoniana degli anni Novanta e che ha agito spesso come mandataria del direttorio delle classi dominanti che dispone e coordina le politiche europee – di riconoscere sul serio la crisi e di governarla in maniera equilibrata, tenendo conto dei settori in difficoltà tramite adeguate politiche redistributive e di Welfare. Il Welfare, il pilastro della democrazia moderna, dal centrosinistra illuminista è stato invece scientificamente smantellato, così che non è un caso che proprio il PD – un partito erede della sinistra storica ma approdato da tempo a un orizzonte liberaldemocratico e che solo per ragioni di geografia sistemica e di nomenclatura continuiamo ad ascrivere a quest’area – venga percepito oggi come il partito per eccellenza dei ricchi e degli istruiti, in contrapposizione ai poveri e al “popolo”. Al contempo, i desideri di accesso al consumo e di affermazione individuale dei più venivano frustrati, senza che ci fossero più reti di protezione sociale ad attutire la caduta di questo lungo sogno di massa. In questo senso, la crisi dei ceti medi trova sbocchi soltanto a destra e non anche a sinistra – pur non mettendo minimamente in discussione il liberalismo come unico orizzonte possibile – perché la sinistra, dopo la sconfitta storica subita alla fine del Novecento, si è già da lungo tempo spostata a sua volta a destra. E non esiste dunque più di fatto nel paese una sinistra reale – una sinistra in grado di incidere sulla realtà – che possa intercettare le enormi contraddizioni che sono esplose e le nuove forme delle lotte tra le classi emerse dopo la fine della Guerra Fredda, dando loro un orientamento progressivo.
Non si tratta soltanto di una questione economicistica. Anche sul piano culturale, dobbiamo dire, la sinistra si è spostata colpevolmente a destra, assecondando la vittoria dei ceti proprietari che l’avevano sconfitta, e ha prodotto disastri. Prendiamo ad esempio una questione cruciale e cioè la questione fiscale. Prevale ancora lievemente in Italia una preferenza verso la progressività delle imposte. Tuttavia, quasi la metà del paese, anche nella parte subordinata e a reddito basso e fisso, apprezza ormai secondo i sondaggi la flat tax, l’espressione più cinica e beffarda del dominio di classe e dell’inganno neoliberale. Così che i più poveri, nella loro totale inconsapevolezza, sarebbero ben contenti di finanziare i più ricchi, perché si sentono comunque borghesi o potenzialmente tali e non possono che pensare con le idee dei dominanti anche quando queste idee vanno palesemente contro i propri interessi. L’operaio si immagina padroncino. Il commesso pensa di poter diventare mercante. Il verduraio si vede quotato in borsa. Il bagnino vota la stessa cosa del ladro di concessione balneare. La piccola partita Iva si confronta con il notaio o il dentista. Tutti immaginano che l’imprenditore crei lavoro e ricchezza e nessuno intravvede un’alternativa di sistema. Nulla forse illustra la catastrofe culturale e la disgregazione organica che ha colpito i subalterni quanto questo fenomeno, che muovendo dall’immaginario tocca la “biopolitica” autentica in quanto è legato alle necessità della riproduzione sociale stessa. E in questa catastrofe, ancora una volta, le forze eredi della sinistra storica hanno una responsabilità precisa. Perché, sopravvissute alla propria stessa catastrofe, non sono state in grado nemmeno di elaborare un programma socialdemocratico e sono state spostate integralmente dai rapporti di forza sul terreno del liberalismo, per quanto progressista sul piano dei valori e della cultura. E da quel momento hanno fatto propria e promosso l’ideologia del mercato sregolato, con il suo individualismo proprietario ostile allo Stato e a quella responsabilità sociale nella quale tra le altre cose rientra anche il pagamento delle imposte, senza poter offrire forme di coscienza alternative né poter spiegare mai quanto le imposte siano essenziali per il Welfare e per un modello solidale di convivenza democratica.
Che questo non sia l’esito di un “tradimento” delle ex sinistre verso le classi popolari, come vuole una certa vulgata complottista e socialsciovinista oggi in voga, ma la conseguenza tragica di una sconfitta e dell’arretratezza dei rapporti di forza politico-sociali, è un elemento importante di comprensione della storia recente ma non cambia purtroppo il risultato finale. Con quale legittimità quelle forze che hanno contribuito con ostinazione da neofiti a smantellare gli elementi di modernità della democrazia – quegli elementi che i progenitori di queste stesse forze, e cioè il PCI e persino la DC, avevano costruito con tanta fatica nell’Italia del dopoguerra – lamentano oggi il rischio di un’involuzione democratica del paese? Non ha senso, dunque, seguire un intellettuale come Mario Tronti – pur molto ascoltato persino nel mondo comunista e comunque lucido nel derubricare il “fascismo” di Meloni a semplice conservatorismo liberale –, nel suo invito a sostenere questo campo nonostante i danni sociali e politici che ha fatto, per paura che gli avversari mettano a rischio la Costituzione e nell’illusione di rispostarlo un giorno a sinistra e riavvicinarlo ai ceti popolari. Tanto più che nemmeno il centrosinistra crede davvero a questa propria propaganda, dato che ha rifiutato l’unica cosa che avrebbe potuto porre un minimo di argine a questo “fascismo alle porte” e cioè l’alleanza elettorale con il M5Stelle; un partito reo però, quest’ultimo, di aver messo timidamente in discussione la solidarietà atlantica contro la Russia e di aver ostacolato il governo del premier uscente Mario Draghi, nella cui “agenda” neoliberale il centrosinistra si identifica invece in maniera religiosa. Si tratta di una propaganda fuori bersaglio e contraddittoria, che appare persino controproducente. Continuando con questa sorta di stalking puramente ideologico nei confronti delle destre – e tenendosi alla larga, di conseguenza, dalle vere questioni sul tappeto, rispetto alle quali non possiedono soluzioni diverse dalla riproposizione di un programma neoliberale di stampo tecnocratico ormai delegittimato –, è infatti possibile che gli organi di stampa e i dirigenti delle forze di centrosinistra o liberaldemocratiche riescano nel capolavoro di portare per reazione la coalizione di Meloni ben oltre il 65%, perché questa comunicazione terroristica potrebbe indurre molte persone poco ideologizzate a votare a destra anche solo per dispetto.
Evitiamo allora di parlare di fascismo in ogni circostanza, se vogliamo comprendere davvero la realtà e se vogliamo evitare di logorare questo concetto rendendolo inservibile. Se tutto è fascismo, infatti, nulla è effettivamente più fascismo, al punto che anche le misure di contenimento della pandemia – a mio avviso in gran parte giustificate nella situazione data – sono state tacciate di fascismo anche da alcuni settori delle sinistre. Dobbiamo sfuggire però al riflesso pavloviano, eredità della storia del movimento socialista, che ci induce a usare questa retorica di fronte ad ogni genere di avversario. E dobbiamo invece prendere consapevolezza di un fatto molto semplice: non è necessario etichettare sempre e comunque le destre come fasciste, perché la destra si trova anche dove meno ce l’aspettiamo, ha tante facce e sa essere pericolosa anche se non può essere identificata con il fascismo, che è stata un’esperienza storica determinata rispetto alla quale le analogie vanno usate con cautela e nei casi in cui è realmente possibile. Teniamo conto, poi, che nella società dello spettacolo queste espressioni fenomeniche della ribellione dei ceti medi suscitano sempre elevatissime aspettative di cambiamento ma – non meno delle rare esperienze di governo della sinistra vera e propria – si scontrano presto con la realtà del governo e perciò deludono e si consumano velocemente. Semmai, molto più significativo è il fatto che questa continua consunzione di vedettes (per usare ancora le categorie di Guy Debord) avvenga nel contesto di una dissoluzione della democrazia moderna e di un continuo spostamento a destra dell’assetto liberale. Fenomeno che costituisce – esso sì – la vera costante della politica nazionale della quale bisognerebbe occuparsi e preoccuparsi, per poi capire se e dove si dia oggi il pericolo di un fascismo possibile.
4. Un processo di concentrazione neoliberale e neobonapartista del potere
Cerchiamo di chiarire meglio, allora, i processi in corso. Ci troviamo oggi in una fase molto diversa da quella della prima metà del Novecento: in una fase nella quale all’interno dei sistemi liberali e nei rapporti tra essi non c’è nessuna esigenza di un fascismo in senso classico che prevenga la democrazia integrale o regoli i contenziosi. E il problema delle classi dominanti occidentali è semmai quello di elaborare una forma stabile di democrazia liberale postmoderna, mentre al contempo gestiscono i contraccolpi della Grande Convergenza del mondo ex coloniale e cercano di contenerla o ricacciarla indietro.
Anzitutto, alcune osservazioni che ci consentono di individuare la tendenza. La restrizione censitaria del suffragio riassumeva nel XIX secolo la concezione liberale originaria della democrazia come mero riconoscimento tra pari, ovvero tra i membri dapprima dell’aristocrazia, nel loro sforzo di limitare i poteri di un sovrano che aveva travalicato il patto alla base della sua investitura, e poi delle classi proprietarie in generale, nella loro distinzione dai lavoratori manuali e dalla loro condizione necessariamente servile. Solo la lotta politica autonoma di questi ultimi, dei lavoratori organizzati nei partiti socialisti, ha condotto al progressivo allargamento del suffragio, laddove le estensioni legate alla nazionalizzazione delle masse in coincidenza delle missioni coloniali, pur rilevanti, vanno considerate invece come procedimenti di cooptazione selettiva socialsciovinista che non rompevano la subalternità di classe e ribadivano una concezione Herrenvolk ed esclusivista della democrazia proiettata su scala planetaria. Ora, cosa rappresenta il crescente astensionismo odierno – che non è una conseguenza indesiderata ma un obiettivo programmatico ben ponderato del neoliberalismo, secondo il modello della società americana – se non l’equivalente postmoderno della restrizione censitaria e dunque una forma di deemancipazione indiretta che vede l’espulsione di vasti strati di popolazione dal processo democratico? Un’altra osservazione. La presentazione delle liste elettorali ha richiesto ai soggetti politici che non erano «costituiti in gruppo parlamentare in almeno una delle due Camere» o non avessero «presentato candidature con proprio contrassegno alle ultime elezioni della Camera dei deputati o alle ultime elezioni dei membri del Parlamento europeo» la raccolta di 60.000 sottoscrizioni nel pieno del mese di agosto, mentre ha esonerato da questo gravosissimo impegno i partiti che in parlamento erano già presenti e che si sono ritagliati su misura questa norma. Un’osservazione ancora. A parte questi dettagli procedurali, il 25 settembre gli italiani voteranno sulla base di una recente riforma costituzionale che ha dimezzato la rappresentanza parlamentare, in seguito a un referendum con il quale, per punire la “casta dei politici”, hanno finito per rafforzarla e per punire se stessi…
Di cosa ci parlano questi esempi, ai quali numerosi altri potrebbero aggiungersi? Ci dicono che siamo da tempo in presenza, in Italia, di un gigantesco fenomeno di crescente concentrazione del potere, parallelo a un altrettanto imponente processo di concentrazione della ricchezza, che avviene tutto sul terreno del liberalismo. Ora, non c’è dubbio che un’ampia vittoria delle destre, soprattutto qualora queste dovessero ottenere più del 65% dei seggi, ci metterà di fronte al pericolo di uno stravolgimento in senso più esclusivista della Costituzione e dell’impianto parlamentare della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista, forse con l’introduzione – come è stato già preannunciato – di una forma di governo presidenzialista. Ma questo pericolo, che è grave e reale e va contrastato, non è affatto la «linea di penetrazione per uno sviluppo illiberale», come teme Carlo Galli, perché si installa esattamente in questa tendenza alla concentrazione del potere che è ben precedente all’ascesa di Meloni e che è, al contrario, proprio la conseguenza della vittoria incontrastata del liberalismo; una tendenza che anche il centrosinistra e i liberademocratici hanno a loro volta promosso e interpretato a proprio modo, progettando riforme o meglio controriforme che vanno nella medesima direzione, e che costituisce la sostanza del processo in corso. In questo senso, gli attuali contendenti, i quali sono tutti espressioni della fase, si somigliano molto più di ciò che vorrebbero e che dicono. Meloni – va riconosciuto pur senza minimizzarne il pericolo – non fa che proseguire con coerenza e maggior radicalità di obiettivi e metodi, oltre che in una prospettiva particolarista, un lavoro che è stato iniziato da altri, che ha ragioni strutturali e nel cui solco, semmai, la sua proposta specifica si installa. Ed è chiaro che da questa prospettiva, che riempie di contenuti e illustra quel processo formale di continuo slittamento a destra di cui parlavo prima, le differenze tra il centrosinistra o la liberaldemocrazia e il liberalconservatorismo nelle sue diverse varianti si rivelano certo significative e tutt’altro che irrilevanti, dato che la forma è anche sostanza; così che è sempre preferibile qualcuno che imbelletta lo smantellamento dei diritti sociali con un’esaltazione ipocrita dei diritti civili, come fanno i liberaldemocratici, a qualcun altro che, come i liberalconservatori, nello smantellare i primi smantella anche i secondi e discrimina le minoranze per dare un capro espiatorio al “popolo”. E però rimangono differenze secondarie rispetto alla condivisione di un terreno comune.
Questo è l’aspetto principale, allora, senza considerare il quale non è possibile comprendere la fase in corso e sul quale dobbiamo dunque concentrarci, anche per poter poi fare le necessarie distinzioni: siamo di fronte non a un processo di fascistizzazione e di rifiuto del liberalismo ma alle diverse proposte di sperimentazione di una tendenza bonapartista che è riemersa dopo la fine della Guerra Fredda e dopo la vittoria di sistema di un liberalismo che non ha più avversari strategici in grado di condizionarlo. Un liberalismo che nella forma odierna del neoliberalismo, avendo sconfitto l’avversario di classe sul terreno politico come su quello culturale, si presenta perciò come un liberalismo assoluto e cioè senza limiti e freni nel suo esprimere gli interessi dominanti; come un liberalismo in purezza, si può dire, sul cui terreno si sono riposizionati e ridefiniti via via tutti gli attori politici, eredi a destra come a sinistra di un mondo ormai tramontato e di tradizioni ormai sconfitte e consunte. È questo il terreno condiviso tanto dai liberal universalisti eredi della sinistra storica quanto dai liberalconservatori particolaristi, al cui campo va ormai ascritto il partito di Fratelli d’Italia erede della destra: sono tutti soggetti che interpretano, ciascuno a proprio modo e con le proprie varianti – chi in chiave più astrattamente universalista, chi in chiave particolarista e più retriva: le differenze ci sono e non vanno rimosse –, la fine della democrazia moderna e i processi di concentrazione bonapartista del potere che questa fine accompagnano.
Il problema all’ordine del giorno non è dunque quello del fascismo o della fascistizzazione antiliberale del paese ma quello di un liberalismo privo di alternative e abbandonato a se stesso che produce deemancipazione in misura maggiore o minore, diretta o indiretta. È chiaro, poi, che più questo processo di concentrazione del potere va avanti, più è possibile che a qualche forma di autoritarismo ad un certo punto esso possa sempre dar vita, come già è accaduto in passato, qualora lo stato d’eccezione lo renda necessario. Ma questo stato d’eccezione, come vedremo subito, non minaccia il liberalismo dall’interno dei suoi sistemi politici – sia la destra liberalconservatrice che i movimenti populisti e sovranisti rimangono su questo terreno – e sussiste semmai oggi in primo luogo nelle relazioni globali che questi sistemi sono in grado di impostare con il resto del mondo. Così che è proprio su questo piano – e dunque in una forma sorprendente che esula completamente dalla vista e dalle preoccupazioni dei liberali di tutti gli orientamenti, i quali cercano semmai di rimuoverlo o di nasconderlo – che il vero rischio di fascismo d’ora in avanti si pone in Italia e in Occidente.
5. Bonapartismo e stato d’eccezione ieri e oggi: la ricolonizzazione del mondo e il vero rischio di fascismo
Richiamandosi alle analisi di Marx sulle lotte di classe in Francia, Domenico Losurdo ha spiegato come dopo il 1848 il liberalismo europeo abbia affrontato l’avvento della società di massa con una strategia bonapartista. Lasciandosi alle spalle, cioè, le obsolete discriminazioni censitarie che ho citato poco sopra e cercando invece di cavalcare il suffragio universale, ritenuto ormai inevitabile, ma di neutralizzarne i rischi attraverso l’elaborazione di una forma politica inedita; una forma che svuotava la democrazia elettorale dall’interno tramite l’instaurazione di un rapporto diretto e immediato tra il leader carismatico e le masse entrate in politica, le quali venivano private, così, di ogni autonomia ideologica e organizzativa. Come ho detto, solo il confronto con il movimento socialista – e dunque il conflitto politico-sociale – avrebbe obbligato alla lunga il liberalismo ad accettare la democrazia e avrebbe posto le premesse di quella democrazia moderna che si è poi affermata, al costo di due guerre mondiali e dopo la sconfitta del fascismo internazionale, nella seconda metà del Novecento.
Ma la democrazia moderna, come personalmente ho cercato di spiegare più volte – e cioè la democrazia fondata sul conseguimento conflittuale di un equilibrio relativo dei rapporti di forza tra le classi e dunque sul Welfare e su un meccanismo di redistribuzione della ricchezza, del potere e del riconoscimento – è stata una solo breve parentesi ed è finita ormai da tempo, in seguito alla sconfitta storica delle classi subalterne europee a partire dagli anni Settanta e poi alla conclusione della Guerra Fredda, con la piena riscossa delle classi dominanti. Ed è subito stata sostituita dal ritorno in grande stile della pulsione bonapartista e dalla conseguente ricerca ossessiva di nuove forme istituzionali adeguate ai nuovi rapporti di forza, secondo le normali propensioni di un liberalismo che, come espressione spontanea dei ceti proprietari e dei loro interessi unitari e di frazione, è a sua volta tornato alle proprie forme ideologiche più esclusiviste. Tanto più che da quel momento questo liberalismo vittorioso, libero di dispiegarsi senza impacci perché non più incalzato dal conflitto sociale dal basso dopo la dissoluzione delle forme di coscienza novecentesche delle classi subalterne e delle loro organizzazioni, ha occupato tutto il campo e si è messo nelle condizioni di coprire tutti i bisogni ideologici e politici tramite le sue diverse varianti. Le quali – dai liberal ai tecnocrati, dai liberalconservatori ai populisti e sovranisti – interpretano ciascuna a proprio modo questa medesima tendenza di fondo alla concentrazione del potere rispondendo ai loro specifici committenti all’interno dei dominanti.
Che bisogno c’è allora del fascismo inteso in senso classico, in una situazione di questo tipo e dopo questa netta vittoria di fase? Il fascismo degli anni Venti e Trenta non è stato soltanto il braccio armato del capitale contro la classe operaia, come è stato detto in maniera semplicistica ai suoi esordi: come già la Terza Internazionale ha presto appreso a proprie spese, è stato un movimento reazionario di massa con una funzione controrivoluzionaria integrale, nel senso che si è opposto alla rivoluzione democratica internazionale intesa nel suo duplice contenuto di rivoluzione sociale (che può condurre al socialismo o, per quanto riguarda l’Occidente, alla democrazia moderna) e di rivoluzione anticoloniale. In politica interna, nel contrastare la rivoluzione sociale in un contesto nel quale questa era viva e attuale e le masse erano forti, consapevoli e organizzate e nel prevenire i processi di democratizzazione, il fascismo ha importato i metodi della repressione coloniale e cioè la violenza privata delle bande dei pionieri o dei predoni che diviene violenza di Stato. La medesima violenza coloniale, e cioè in questo caso la guerra totale, è stata impiegata però ad un certo punto anche in politica estera, quando i conflitti inter-imperialistici tra le potenze europee, acuiti dagli esordi della decolonizzazione e dall’emergere del Grande Spazio americano con le sue ambizioni imperiali, erano diventati ingestibili e gli obiettivi di mera egemonia continentale – essendo all’epoca impossibile ogni ipotesi federalistica e fallito prima di nascere anche il progetto mitteleuropeo – erano andati sfumando in obiettivi essi stessi apertamente coloniali. Tanto più che la Rivoluzione d’Ottobre, nel rendere ancora più acuti i conflitti di classe all’interno delle singole potenze portandoli sul piano di una guerra civile per la vita o per la morte, aveva svelato il volto asiatico e “di colore” della Russia, sino a un attimo prima membro della famiglia europea già per il sangue che scorreva nelle vene della sua Casa regnante. Sfidando l’ordine Herrenvolk bianco con immenso terrore delle classi dirigenti di tutto l’Occidente, ma facendo al contempo di questo sterminato territorio il possibile obiettivo di una guerra ideologica in nome della libertà e della democrazia (pensiamo al sostegno delle potenze occidentali alle armate controrivoluzionarie bianche) ma anche di una conquista coloniale spietata da parte di chi, come la Germania, alle colonie non aveva sino a quel momento avuto il dovuto e meritato accesso.
Sotto questo aspetto, il fascismo è stato la traslazione sul sacro suolo d’Europa dei metodi e delle ideologie della tradizione coloniale liberale; quei metodi e quelle ideologie, cioè, che il liberalismo ha sempre adottato dove sunt leones (genocidio compreso) ma che inaspettatamente sono stati fatti valere anche dentro e tra le potenze che sino ad un attimo prima si riconoscevano reciprocamente come pari. E questa traslazione – come sempre Domenico Losurdo ha spiegato – è stata determinata da un duplice stato d’eccezione, dovuto da un lato a un conflitto sociale acutissimo che diveniva guerra civile all’interno di ogni paese; e dall’altro a un altrettanto acuto conflitto tra le potenze per le colonie e per il controllo coloniale della stessa Europa (basti citare, per darne un’ulteriore prova, al trattamento della Germania a Versailles, con la riduzione del paese a una semicolonia, e a episodi come l’occupazione della Ruhr). Un duplice stato d’eccezione di proporzioni gigantesche, dunque, che ha sollecitato il passaggio dal precedente tipo di bonapartismo con il quale dal XIX secolo il liberalismo aveva cercato di gestire l’avvento della società di massa in forme soft, che abbiamo appena visto, a una forma feroce di bonapartismo di guerra, senza che nessuno fosse più in grado di tornare indietro se non dopo una catastrofe.
Oggi, dopo la Guerra Fredda e la globalizzazione, la situazione è però molto diversa, perché la crisi organica di ieri non è sovrapponibile a quella attuale e non esistono le condizioni per una riproposizione del fascismo classico nelle modalità storiche che conosciamo. In politica interna, non esiste nessun pericolo “rivoluzionario” che metta in discussione il dominio liberale in Occidente, dove le classi subalterne sono egemonizzate e prive di autonomia e la stessa democrazia moderna è già stata sconfitta. E non c’è dunque nessuno stato d’eccezione e nessuna necessità di applicare in quest’ambito e per una lotta di classe già abbondantemente vinta i metodi della violenza coloniale tradotti nelle forme squadriste o della violenza di Stato, o qualcosa di simile. Perché non esiste nessuna alternativa politico-sociale strategica e perché nei rapporti di forza dati è più che sufficiente, dunque, qualche tipo di concentrazione bonapartista del potere – in chiave universalista o particolarista che sia – che aggiorni le forme costituzionali e istituzionali alle nuove gerarchie sociali e assorba la rivolta dei ceti medi o la tenga sotto controllo dandole sfogo parziale.
Allo stesso modo, poi, non c’è oggi nessun conflitto inter-imperialistico strategico per le colonie e dunque nessuno stato d’eccezione tra le potenze occidentali, dato che il problema coloniale o neocoloniale si pone – assai diversamente dall’epoca dei fascismi – nei termini prevalenti di uno sforzo complessivo di ricolonizzazione del mondo da parte dell’Occidente, un’area geopolitica e di civiltà che si contrappone in quanto tale e in maniera unitaria (un’unità che in parte è consensuale e in parte è coatta) alla Grande Convergenza, intesa come una sfida globale del mondo ex coloniale al primato occidentale. Non c’è quindi oggi, come all’epoca del brodo di coltura del fascismo classico, un conflitto prevalente tra l’imperialismo tedesco in ascesa ma frustrato e l’impero britannico o francese in declino ma stabilito, o un conflitto tra Italia e Francia nel Mediterraneo, o uno insorgente tra il Vecchio Continente e il mondo anglosassone; ma c’è, per essere più precisi, un conflitto tra l’ordine stabilito dall’imperialismo dominante statunitense – che è l’unico imperialismo degno di questo nome, perché stabilisce le regole del gioco e assegna i nomi alle cose – e il mondo ex coloniale. Un conflitto nel cui quadro generale le potenze occidentali, divenute subalterne dopo la Seconda guerra mondiale (Unione Europea e singoli Stati UE compresi e disposti secondo ben precise gerarchie), competono certamente tra loro sui dettagli ma sono comunque schierate dalla stessa parte nella partita più importante. E, pur competendo, cercano soprattutto di lucrare posizioni vantaggiose, in un ruolo sub-imperiale che è al tempo stesso un ruolo di protettorato americano. Così che nessuna guerra fratricida tra potenze “bianche” è immaginabile, come è avvenuto invece in passato già con la Prima guerra mondiale e poi con la guerra tra l’Asse e gli Alleati occidentali. Mentre nella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui ha parlato Bergoglio rischia invece di approssimarsi a passi accelerati – e questa è la novità più importante di tutte, anche se sempre rimossa – una guerra tra l’Occidente nel suo complesso trascinato dagli USA e aree del mondo vaste e importanti che sono all’avanguardia della decolonizzazione (una guerra che è semmai assimilabile a quella che avrebbe potuto essere la guerra tra un blocco euroamericano e la Russia sovietizzata, come auspicato da non pochi settori anche nel mondo anglosassone, qualora la competizione inter-imperialistica e l’ingordigia dei vincitori di Versailles non avesse portato la Germania hitleriana ad infrangere la fratellanza Herrenvolk bianca).
Eccolo – allora e finalmente – il cuore del problema, ignorato o occultato dai liberali pronti a denunciare il fascismo in ogni altra circostanza e a rigettarlo sulle spalle dei propri avversari senza mai vederne le tracce in casa propria. Lo stato d’eccezione oggi c’è sicuramente ed è altrettanto sicuramente macroscopico. Ma esso non è più collocato all’interno della comunità dei Liberi e non la lacera né nelle nazioni che la compongono, né nei rapporti tra queste nazioni (come a suo tempo lamentava Spengler guardando agli esiti della Grande Guerra), bensì contrappone questa comunità nel suo complesso al resto del mondo che di essa non fa parte. È nel rapporto tra l’Occidente unito nell’Impero Americano e il mondo che rifiuta la sua egemonia, ovvero – visto dall’altro lato – nell’aggressione occidentale al mondo ex coloniale e nel tentativo di risottometterlo, che sussistono oggi la vera contraddizione principale e il vero conflitto cruciale. Ed è esattamente in questo conflitto, che le potenze liberali non subiscono ma promuovono attivamente per non perdere il loro primato e che genera uno stato d’eccezione globale alla lunga insostenibile, che alberga allora il vero rischio del fascismo odierno, il quale va inteso perciò in primo luogo come il rischio di una possibile fascistizzazione delle relazioni tra le nazioni e tra i popoli. Ossia come un’escalation politica e ideologica che assuma un carattere così fondamentalista e fanatico da trasformare il contenzioso materiale, ovvero il conflitto di interessi per il potere e le risorse, in uno scontro di civiltà e di fedi politiche. E da escludere ogni possibile mediazione, mettendo così fuori gioco il diritto e la diplomazia e spostando i rapporti tra i popoli o le regioni del mondo sul terreno militare. Un’escalation che lungo questa strada si dispone alla preparazione di quel possibile conflitto finale per la ricolonizzazione del mondo che al fine di riaffermare la supremazia occidentale sul dispotismo asiatico non esita a mettere in conto la guerra totale. E che lo fa – grazie al lavoro ideologico di diversi decenni di rivoluzione passiva e di detournement delle parole – in nome della libertà, della democrazia, dei diritti universali e persino della responsabilità e della solidarietà antifascista contro i totalitarismi!
Nell’odierna denuncia reiterata del fascismo da parte dei liberali, un dato di fatto storico pur molto semplice e banale rimane per lo più ignorato: il fascismo e il nazismo sono figli diretti della guerra totale e dei conflitti che l’hanno provocata, quando l’accumulo delle contraddizioni oggettive della politica europea e internazionale ha fatto il salto dalla quantità alla qualità e ha determinato lo stato d’eccezione. Dalle trincee della Prima guerra mondiale sono venuti i legionari di Fiume e poi i componenti delle prime squadracce fasciste, che il ceto dirigente liberale si illudeva di poter usare e tenere sotto controllo. E dalle medesime trincee sono usciti i Freikorps tedeschi che, dopo aver presidiato la marca orientale di frontiera in particolare nei paesi baltici contro il bolscevismo asiatico che si era affermato in Russia, combatteranno gli spartachisti a Weimar per poi riversarsi nelle fila delle SA. L’intero armamentario ideologico del fascismo e del nazismo nasce, del resto, dall’ideologia della guerra consolidatasi in tutti i paesi coinvolti in quel conflitto. È assai probabile, ci dice perciò la lezione della storia, che una simile fascistizzazione delle relazioni internazionali, in seguito all’accerchiamento o addirittura a un’aggressione alla Russia o alla Cina, si riverserebbe immediatamente sui singoli paesi. E potrebbe portare anche a una fascistizzazione della politica interna, perché solleciterebbe immediatamente una mobilitazione totale di tipo aggressivo all’interno delle nazioni coinvolte e la conseguente irreggimentazione della società civile e delle forme di coscienza. Tanto più che, come abbiamo visto, in queste nazioni già da tempo è in corso un autonomo processo di concentrazione del potere che può sempre prendere una direzione più autoritaria.
Del resto, abbiamo già alcuni sintomi inquietanti che vanno proprio in questa direzione. Come sappiamo, la cintura occidentale attorno alla Russia, per citarne uno, già ben prima della sciagurata invasione del Sud-Est dell’Ucraina da parte di Mosca si è servita massicciamente di organizzazioni fasciste o parafasciste, minimizzandone la natura a semplici espressioni di nazionalismo o giustificandola con la necessità di contrastare un fascismo ancora più grande e pericoloso, e lo fa con il diretto coinvolgimento formativo o logistico delle organizzazioni militari dei paesi Nato se non della Nato stessa. Inoltre, mentre sono impegnati in sede elettorale a denunciare in chiave propagandistica il fascismo alle porte, al fine di fronteggiare lo stato d’eccezione dovuto alla guerra che divampa ai propri confini e la conseguente crisi del gas russo, i liberali italiani e dell’Unione Europea, compresi quelli di centrosinistra, si apprestano a far propria su vasta scala una delle più ambiziose (e più improbabili) misure del fascismo storico: l’autarchia. Della quale hanno già cominciato a vantare le virtù morali e la funzione pedagogica nei confronti delle masse egoiste e indisciplinate: masse bambine abituate a vivere al di sopra dei propri mezzi e a consumare a più non posso approfittando del lavoro e del merito altrui. E non è la censura di Stato già attiva in alcuni paesi europei, con la proibizione dei media accusati di diffondere notizie propagandistiche sulla guerra su presunta committenza dello Stato russo, una forma di mobilitazione totale della quale i fascismi hanno fatto largo uso? Cosa dire poi di iniziative surreali per fortuna rientrate, come la proibizione di parlare di Dostoevskij e in generale della cultura russa? Ricorda, questa zelante misura, la proposta di proibire la musica di Beethoven al fine di evitare ogni contaminazione con la cultura tedesca, avanzata in Francia nel corso della Prima guerra mondiale.
Ora, per tornare alla situazione italiana, rispetto a questi problemi giganteschi e a queste dinamiche fondamentali, il centrosinistra e la liberaldemocrazia non hanno nessun progetto alternativo da contrapporre agli avversari liberalconservatori di centrodestra e nemmeno a quelli esplicitamente di destra o ai populisti, dato che si collocano esattamente sul loro medesimo terreno e sono interpreti delle medesime esigenze sistemiche e dei medesimi processi di trasformazione globali.
Sul piano della gestione della società di massa, anche il centrosinistra e la liberaldemocrazia condividono l’obiettivo sistemico di elaborare una forma postmoderna di democrazia liberale limitata e delegata, che sulle ceneri della democrazia moderna novecentesca sia capace di neutralizzare le contraddizioni sociali e culturali tramite una nuova formula bonapartista di concentrazione del potere all’altezza dei nuovi rapporti di forza tra le classi. La via “epistocratica” al bonapartismo postmoderno da quest’area ripetutamente proposta negli ultimi tempi – e cioè la formula del “governo dei migliori”, o “dei competenti”, o “dei tecnici”, che vorrebbe coniugarsi a una mobilitazione ideale di tipo universalista (l’idea illuminista di diritti umani) – trova però ormai diversi ostacoli in Italia e in tutto l’Occidente è oggi in difficoltà. E i confini del suo consenso sono strutturalmente limitati, proprio per via di quella crisi di egemonia che ha ragioni storiche profonde nei sommovimenti del sistema-mondo: l’universalismo globalizzatore progressista e tecnocratico, che è stato egemone sul piano intellettuale per una lunga fase, ha ridotto la quota di risorse a disposizione delle classi medie e della piccola borghesia d’Occidente, oltre che delle classi subalterne sconfitte, ed è dunque percepito come sinonimo di impauperimento e livellamento sociale. In un paese come il nostro, oltretutto storicamente assai frammentato e segnato da una decomposizione marcescente delle aggregazioni e delle identità sociali, è molto più facile allora interpretare il medesimo progetto bonapartista postmoderno, ossia la medesima esigenza di concentrazione del potere, in una prospettiva apertamente di destra e secondo la chiave particolarista. E cioè, come si diceva, cavalcando l’immediatezza e appellandosi a semplici quanto improbabili valori tradizionali in un range di possibilità che va dal liberalconservatorismo al populismo-sovranismo. Si tratta di due strade diverse, certamente, e tra le quali è necessario distinguere, perché una è più immediatamente pericolosa dell’altra. Ma di due strade che conducono entrambe a scavalcare la democrazia moderna e alle quali è necessario contrapporre un’alternativa che questa modernità democratica cerchi invece di ricostruire nelle condizioni nuove.
Il medesimo discorso va però fatto soprattutto per quanto riguarda le questioni internazionali, dalle quali come abbiamo visto scaturiscono i veri pericoli di fascistizzazione. In questo ambito però, ancora una volta, il centrosinistra e il centrodestra o la destra e anche i populisti-sovranisti, come espressioni diverse di frazioni diverse dell’egemonia liberale, non presentano posizioni diverse perché si identificano totalmente con l’Occidente e con la difesa del suo primato materiale e morale contro il mondo degli asiatici che attentano alla nostra civiltà e al nostro benessere, facendo anzi a gara a chi questa fede occidentalista meglio rappresenta.
Per gran parte del Novecento l’Occidente è stato impegnato a contrastare il processo di decolonizzazione e di costruzione universale e condivisa del genere umano e questo obiettivo è ancora oggi attuale. A decolonizzazione avvenuta, esso si presenta però ai nostri giorni non nella forma dei singoli imperialismi e della loro competizione ma come fronteggiamento unitario della Grande Convergenza del mondo extraeuropeo e come necessità di rinsaldare l’alleanza atlantica dei “bianchi” (compresi coloro che sono stati riconosciuti tali indipendentemente dal colore della pelle). Operando a partire da questo nucleo una manipolazione continua dei confini dello Spazio Sacro della libertà, ossia del Mondo Libero, del mondo che condivide i valori delle democrazie in stile occidentale, della Civiltà in opposizione al mondo caotico del dispotismo e della barbarie contestatrice dei diritti umani. E salvaguardando questi confini dalla minaccia costituita dall’Altro tramite operazioni di cooptazione selettiva e/o di esclusione di coloro che di volta in volta ricevono il riconoscimento come popoli liberi quando al dominio occidentale dimostrano di essere funzionali o se lo vedono negato o revocato quando per tale dominio sono inutili o dannosi. Ma questo dispositivo dell’imperialismo contemporaneo – che produce il vero stato d’eccezione e dunque la vera fonte del rischio di fascismo e che grazie a un drammatico errore strategico di Mosca vediamo all’opera in questi mesi nel conflitto tra l’Occidente a guida statunitense e la Russia per interposta Ucraina – non costituisce un discrimine bensì un terreno comune per i diversi soggetti politici, i quali si riconoscono tutti nel suprematismo occidentale e in esso trovano occasione di legittimazione, insider o outsider che siano. Così che se questo intento comune vale già per i liberali e Casa Pound – un’organizzazione extraparlamentare dichiaratamente fascista che ha ben compreso la posta in gioco e giustamente si stupisce della messa sotto accusa di un proprio militante, partito mercenario per difendere sul terreno quegli stessi valori occidentali per i quali il parlamento repubblicano borghese ha inviato a Zelensky le armi –, vale a maggior ragione per i liberali e Meloni; la quale e già andata ad accreditarsi presso tutti gli organismi statunitensi e sovranazionali che rilasciano la patente di adesione ai valori atlantici e che a favore di quell’invio di armi ha votato assieme al centrosinistra, ai liberaldemocratici e a quasi tutti coloro che la accusano di nostalgia del fascismo e le intimano di cambiare il simbolo del proprio partito.
6. Fuori dalla propaganda: liberalismo assoluto e fascismo
Anche per questa via troviamo un’ulteriore conferma delle riflessioni fatte sopra. Le accuse propagandistiche di “fascismo” con le quali il campo liberaldemocratico cerca di delegittimare le destre sono inefficaci non solo perché, come abbiamo visto, sbagliano bersaglio, e cioè perché non colgono la natura del consenso degli avversari, che non nasce da un’ostilità di principio al liberalismo e da un desiderio di dittatura ma da una profonda crisi sociale che per varie ragioni le destre meglio intercettano. Sono sbagliate anche sul piano concettuale, in quanto non colgono la sostanza di ciò che il fascismo è stato storicamente e di cosa esso può essere oggi. E vengono formulate non alla luce di un antifascismo autentico ma del suo surrogato attuale, ossia di un antifascismo meramente retorico che finisce per nascondere l’unico vero rischio odierno di fascismo: secondo l’“antifascistismo” strumentale dirittumanista divenuto falsa coscienza del primato morale e del diritto sovrano ed esclusivo alla guerra da parte delle democrazie occidentali a guida statunitense.
Se però il fascismo è inteso in questo modo, nel senso della teoria del totalitarismo e cioè nel senso dell’alternativa artificiosa e ideologica tra dispotismo eterno e libertà liberale – un’alternativa per cui tutto ciò che non è ascrivibile all’Occidente e alla liberaldemocrazia è dispotico e fascista per definizione, in primis la Russia e la Cina, mentre fascista non è proprio chi si arroga il diritto di ridurre il mondo alla propria mercé e di strangolare o aggredire gli altri –, Meloni, non ha nessuna ragione per non aderire a questo “antifascismo” strumentale o a questo “antifascistismo”, che è funzionale alla ricolonizzazione del mondo, e non avrà difficoltà nemmeno nel convincere pedagogicamente la propria base più nostalgica. Ciò che Meloni non potrà mai rinnegare è invece la natura reale del fascismo come movimento reazionario di massa che si pone in contrapposizione alla rivoluzione democratica internazionale e cioè al processo di emancipazione delle classi subalterne nel suo nesso con il processo di decolonizzazione e di costruzione universale e condivisa del genere; una contrapposizione che nell’epoca del socialismo possibile in Europa e della lotta delle potenze per le colonie non poteva che esprimersi nelle forme militari della violenza squadrista e della guerra di conquista intraeuropea ma che oggi si esprime anzitutto nel progetto neoimperialista statunitense promosso tramite le guerre della Nato. Questa sostanza del fascismo – alla quale possiamo solo sperare che la Russia non abbia fatto un favore –, nemmeno il liberalismo odierno potrà mai rinnegarla fino in fondo, però, perché la alberga nel proprio seno.
C’è un segreto impronunciabile in comune tra i liberali e Meloni, allora. C’è un’affinità di fondo che la benedizione “femminista” di Hillary Clinton aiuta a mettere a fuoco. Tanto più che anche Mario Draghi ha dichiarato alla platea riminese di Comunione e Liberazione di essere «convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili», annunciando così il via libera da parte dell’establishment. Nell’epoca in cui il nuovo premier inglese Liz Truss può rivendicare il «dovere» di premere il pulsante nucleare affermando con orgoglio di essere «pronta» a farlo, dove si trova il vero fascismo? È sufficiente in questo contesto che Meloni renda un po’ più esplicita la domanda di iscrizione al club dei pari, rimarcando meglio la propria fedeltà ai valori occidentali e atlantici (pur se in una declinazione in chiave più sovranista e sciovinista), e avrà presto piena cittadinanza, oltre alla simpatia dei media, dello stesso liberalismo democratico italiano e forse un giorno persino del “New York Times”. E a quel punto potrà tranquillamente esaltare e praticare il vero possibile fascismo dei nostri giorni, unendosi alla Santa Crociata del Mondo Libero contro le dittature che minacciano la democrazia e i diritti umani e trovando in questa impresa una vasta compagnia di “camerati”.
È necessario, perciò, non credere troppo alle trappole propagandistiche della guerra tra le frazioni del partito liberale e dei ceti proprietari, soprattutto in campagna elettorale. Ed è necessario anche un autonomo revisionismo storico di sinistra, che lavori per ribaltare il senso comune. All’opposto di quanto viene sostenuto nel discorso dominante, non c’è nessuna affinità o continuità totalitaria e antiliberale o antidemocratica tra socialismo e fascismo, nemici necessari perché filosoficamente e antropologicamente inconciliabili. Ed esiste invece affinità e continuità storica e concettuale tra il fascismo e il liberalismo assoluto e cioè privo di limiti, il quale in fascismo può trasformarsi o il fascismo può generare per la gestione dello stato d’eccezione e che sembra oggi incline a non scartare questa opzione pur di regolare una volta per tutte la questione coloniale. Ecco allora che non solo la storia della democrazia moderna ma anche la storia della pace nel mondo appare in una luce diversa da quella nella quale è stata scritta negli ultimi decenni, perché anch’essa si rivela inscindibile dalla storia del movimento socialista e dalla sua capacità di porre limiti al liberalismo e salvarlo da se stesso. Rendendolo autenticamente “liberale” nel senso che davamo a questa parola prima del neoliberalismo – e cioè nel senso di quel liberalismo che si coniuga realmente con la democrazia all’interno delle nazioni e tra esse – e rendendo impossibile a monte, in tal modo, qualsiasi forma di fascismo, vecchio o nuovo che sia.
Purtroppo, però – e per concludere –, non esiste più o non esiste ancora in Italia una sinistra autonoma che sia in grado di farsi carico di questi problemi di così vasta portata. Lacerata in troppe e minuscole organizzazioni autoreferenziali e assai confusa sul piano teorico, come è inevitabile che sia in una fase di disgregazione delle identità di classe e di ritirata, quel poco che di essa rimane – ossia quel poco che è rimasto a sinistra e non ha assecondato lo slittamento a destra complessivo del quadro politico sulla scorta dei nuovi rapporti di forza tra le classi – non ha preso ben coscienza della necessità di dar vita a un processo di convergenza organizzativa e di riconnessione con i conflitti sociali che unisca ciò che è stato diviso. E sembra in grado di mobilitarsi e trovare una parziale unità momentanea soltanto in occasione delle elezioni, senza però aver prima fatto quel complicato e faticoso lavoro di lunga durata che potrebbe darle un minimo di coesione e di radicamento. Così che, al di là delle occasioni contingenti, è destinata ad andare sempre di nuovo in pezzi e a ricominciare a litigare. Lasciandoci prigionieri della nostra tragedia politica e del terribile ricatto che ne consegue: dover scegliere, da spettatori impotenti, tra un liberalismo universalista che decora di valori progressisti e con la retorica dei diritti umani e dell’antifascismo la concentrazione del potere nelle mani delle classi dominanti e la loro volontà di guerra globale; e un liberalismo particolarista che persegue un progetto di deemancipazione non diverso ma che, nella sua rozzezza, non possiede nemmeno queste accortezze formali e finisce inevitabilmente per risultare ancora più pericoloso.
* Fonte: “Dialettica e Filosofia”, settembre 2022. Questo testo è stato pensato e scritto su richiesta di una rivista tedesca. Ciò spiega la presenza di alcune spiegazioni che possono essere ovvie e scontate per un lettore italiano. L’analisi sviluppata prescinde inoltre da quelli che sono stati i risultati effettivi delle elezioni italiane del 25 settembre, visto che i riferimenti all’attualità più contingente sono solo un punto d’appiglio per un ragionamento più ampio
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