Luigi Pandolfi

La Nota al DEF appena varata dal Governo si limita a descrivere la “tendenza” dell’economia italiana per i prossimi anni, «senza definire gli obiettivi programmatici di finanza pubblica per il triennio 2023-2025». Non poteva essere altrimenti, visto che si è votato per il rinnovo del Parlamento da pochi giorni. Le previsioni sono prudenti, ma non pessimistiche: +3,3% di PIL nel 2022 (dal +3,1% delle stime di aprile), +0,6% nel 2023 (dal +2,4% nel DEF). Si coglie il clima negativo che c’è in Europa, ma si prova a esorcizzare la recessione. Che invece è ormai data per certa in Germania, ovvero nel cuore del sistema manifatturiero europeo. PIL con il segno negativo già nel terzo trimestre di quest’anno e per tutto il 2023 (-0,4%), con l’inflazione ormai al 10% (dato più alto a settembre dal 1950). Anche queste stime (condivise da tutti i centri studi economici), nondimeno, sono troppo ottimistiche. Non considerano l’impatto sull’economia tedesca della definitiva interruzione delle forniture di gas russo per il tramite del North Stream. Si ragiona come in un tempo sospeso, mentre il “sabotaggio” della linea baltica di approvvigionamento di metano da Mosca già lascia prefigurare scenari foschi per la “locomotiva d’Europa”. Le due linee del North Stream non sono semplici tubazioni di gas. Per oltre due decenni hanno rappresentato, fisicamente e simbolicamente, l’anello di congiunzione tra l’industria di trasformazione europea e quella estrattiva russa. Un rapporto di tipo funzionale, strategico, perciò incompatibile con le strategie geopolitiche di Washington (risibili le accuse di “autosabotaggio” rivolte a Mosca).

Quando si dice “Europa unita” è alla “manifattura tedesca allargata”, di cui l’Italia è un segmento importante, che bisogna pensare. Il massimo dell’integrazione si è raggiunto in questi anni sul terreno della produzione, non certo su quello politico. Un’integrazione resa possibile anche dall’accesso alle materie prime di cui il sottosuolo russo è ricchissimo. Materie prime, manifattura, esportazioni. Anche la strategia neomercantilista della Germania, alla quale si sono piegate le altre economie continentali, è figlia di questo sistema. Viene alla mente un teorico poco noto del vecchio mercantilismo del Sei-Settecento: il calabrese Antonio Serra. In un’epoca dove l’idea di ricchezza coincideva con quella di accumulazione di oro-moneta attraverso i traffici commerciali, egli si chiedeva quali strade bisognasse imboccare per «far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere». La risposta: «Quantità d’artìfici, traffico grande de negozi e provisione di quel che governa». Che, tradotto, significava sviluppo dell’industria manifatturiera, espansione del commercio e politiche statali volte a favorire il conseguimento di questi due obiettivi. Idee modernissime per quei tempi, quando di rapporto tra industria e surplus commerciali non parlava praticamente nessuno. Dopo quattro secoli siamo ancora qui.

Ma adesso le cose si stanno complicando. Con la messa fuori uso del North Stream, la Germania rischia grosso (le riserve di gas sarebbero sufficienti per meno di tre mesi). E con essa tutti i Paesi che ruotano intorno alla sua manifattura. A cominciare dall’ItaliaPer Berlino, il rischio è quello di dover tagliare la produzione industriale del 25%. Crollo della produzione, giù le esportazioni. Non ci vogliono analisi sofisticate per comprendere ciò. La fine di un ciclo. Che, in queste condizioni, non rappresenterebbe tuttavia un passo in avanti per i popoli europei. I limiti e le storture del modello export-led imposto dalla Germania all’Europa sono noti e sufficientemente stigmatizzati. Ne hanno fatto le spese in questi anni il lavoro (disoccupazione, bassi salari, precarietà) e la qualità dei servizi pubblici essenziali. Ma adesso l’alternativa quale sarebbe? Non certo un’economia dei beni comuni, della socializzazione degli investimenti, dell’autorganizzazione dal basso della produzione, del pieno impiego e dell’equa distribuzione del prodotto sociale. L’alternativa non sarebbe il socialismo, per intenderci, ma un’Europa ridotta a periferia deindustrializzata del polo occidentale a guida statunitense (già iniziata la delocalizzazione di alcune imprese tedesche proprio negli Usa). Ciò che i predecessori di Biden auspicavano già nell’immediato dopoguerra: Europa come “grande area” dove esportare merci e capitali. Una prospettiva che col gas è già realtà. Da gennaio ad oggi il 74% del gas liquefatto prodotto negli Usa è stato esportato in Europa (nel 2021 era il 34%), a un prezzo sette volte superiore a quello praticato al proprio interno. Una mazzata per la competitività delle imprese europee, del sistema nel suo complesso. Serve altro per andare oltre il mantra «c’è un aggressore e un aggredito» nella spiegazione della guerra russo-ucraina?

Piuttosto, avremmo bisogno della «provisione di quel che governa», per citare di nuovo il Serra, ma al timone dell’Europa e degli Stati membri si vedono soltanto dei sonnambuli, per di più in preda a manie autolesioniste. Torniamo alla nostra NADEF. L’impressione è che i numeri contenuti nel documento siano stati elaborati in vitro, senza tener conto dello tsunami che sta per abbattersi sull’Europa. Ma non è una novità. La “scienza” economica ci ha abituati da tempo a clamorosi scarti tra ciò che torna sui grafici e il dato di realtà. Questa crisi, in ogni caso, un pregio ce l’ha: l’aver riportato in primo piano ciò che è “strutturale” (mezzi produttivi, materie prime, forza-lavoro), dopo decenni in cui al centro del dibattito e dell’attenzione c’erano solo le banche centrali e le politiche monetarie. D’altro canto, gas e petrolio non si ottengono né manovrando i tassi d’interesse né acquistando titoli di stato sul mercato secondario. L’impotenza dei banchieri. Che in Europa fa il paio con la miopia dei governanti

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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