Correva l’anno 1989, fummo in molti con l’inizio della fine della guerra fredda a pensare che potessero essere gettate le basi per un mondo migliore, una politica di disarmo, una distribuzione più equa delle ricchezze, una fine graduale delle tensioni e dei conflitti, una riaffermazione dei diritti universali, una diffusione maggiore della cultura del rispetto della persona.
Purtroppo fummo presto smentiti. Gli esordi del nuovo mondo che stava per venire non furono affatto di buon auspicio.
Per inaugurare la nuova stagione post guerra fredda, subito si scatenarono due disastrosi conflitti. Il primo in Iraq con la prima guerra del Golfo, il secondo nell’allora federazione jugoslava, una disastrosa guerra che contò oltre 300.000 morti.
Venne poi la stagione del terrorismo islamico, la distruzione delle torri gemelle, poi a seguire un grappolo di guerre d’occupazione per riaffermare il dominio occidentale in Medioriente, in Nordafrica, come anche nell’Africa centrale.
59 i conflitti in totale negli ultimi 30 anni. In 42 di questi sono stati direttamente coinvolti una serie di paesi occidentali che ad ogni occasione, coalizzati sotto la “guida” angloamericana, sono poi intervenuti pesantemente in ognuno di questi conflitti.
Jugoslavia, Iraq, Kosovo, Afghanistan, Somalia, Siria, Libia, Yemen, Mali, Ucraina, sono solo alcuni dei principali conflitti in cui la coalizione occidentale è direttamente intervenuta.
Altre decine ancora sono invece i conflitti, che per brevità non cito, dove l’intervento della coalizione è stato sia diretto che indiretto ma non per questo non meno determinante in senso di danni prodotti.
Ognuno di questi conflitti ha generato inenarrabili sofferenze fra la popolazione che li hanno subiti, instabilità geopolitica, aumento del degrado del territorio ambientale e del tessuto sociale del paese dove si è intervenuti, fuga e abbandono dal proprio territorio ad opera di milioni di persone che, scappando dai conflitti hanno generato a loro volta nuova instabilità territoriale nei paesi limitrofi.
Ognuno di questi interventi militari non ha mai portato alla risoluzione non dico di uno, ma nemmeno di mezzo di uno dei problemi di fondo che hanno condotto al conflitto stesso.
Ognuno di questi conflitti ha prodotto inoltre nella popolazione un aumento delle disuguaglianze sociali, una peggiore distribuzione delle ricchezze, una maggiore difficoltà di accesso alle risorse, beni, servizi, istruzione, cultura, e al netto dei milioni di morti e feriti, generando in definitiva maggiore povertà, ingiustizia sociale, impoverimento umano e culturale, sradicamento, destrutturazione, perdita di identità.
A rinforzare questa direzione infausta, pure le misure legate al contenimento della pandemia, come quelle che si muoveranno a fronte di una annunciata crisi energetica già in atto prima della guerra russo-ucraina, e da quest’ultima acuita, una strana crisi energetica però, che vede bene di abbassare di un grado la temperatura in un’abitazione civile, per raddoppiare invece le risorse energetiche destinate alla guerra.
Tutto ciò comunque (conflitti, pandemia e crisi energetica) indipendentemente dalle loro cause e perché, conduce nella direzione delle diseguaglianze sociali.
Da una parte la concentrazione di sempre maggiori risorse economiche e materiali nelle mani dei pochi che già tante ne avevano tanto sia di potere che di risorse, dall’altra invece centinaia di milioni di persone che si vedono elidere sempre più le poche risorse, l’accesso alla scuola, alla sanità, e alla cultura, il diritto a una casa, il diritto a poter mangiare cibo sano, ricorrendo invece sempre più al cibo spazzatura e di scarsa qualità per potersi riempire la pancia, la rinuncia a poter viaggiare, a poter conoscere altre culture, il quasi divieto a poter socializzare e ricrearsi umanamente, in un contesto sempre più limitante all’interno di un’economia di guerra e di emergenza continua.
In definitiva analizzandoli, ognuno di questi conflitti, così come d’altronde la gestione pandemica o energetica, non ha portato e non porterà a nessun vantaggio, né alla popolazione che ha subito il conflitto, né alla popolazione dei paesi occidentali che al conflitto hanno partecipato e contribuito.
Il danno per la popolazione sebbene a differenti gradi e livelli è stato comune.
Così come d’altro canto l’arricchimento e la concentrazione di risorse materiali e finanziarie nelle mani di pochissime famiglie e gruppi hanno ben rappresentato l’altra faccia della medaglia di questo processo.
La guerra è un’attività molto costosa. Serve molto surplus per poter fare una guerra, perché significa impiegare le migliori risorse (macchinari, industrie, lavoro di molte persone, energia) per combattere invece che per produrre cibo, case, scuole, ospedali, strade, ferrovie, acquedotti, cultura.
Per assurdo è stata la stessa materia prima che ci ha permesso la crescita a creare poi le basi per ogni conflitto moderno.
È stato il petrolio a basso costo che ha permesso al genere umano di creare quel surplus da poter essere poi impiegato nei vari conflitti mondiali, per continuare a garantirsi questo surplus, un concetto forse impensabile fino a pochi decenni fa, ma tanto è.
Una società senza surplus non ha tante propensioni belligeranti perché le proprie energie e risorse sono principalmente impegnate nel proprio mantenimento.
La guerra ha anche molto a che fare con il tipo di cultura che caratterizza determinate società. C’è un libro che si intitola “Acciaio, guerre e malattie” che descrive molto bene la storia di come la civiltà occidentale si è espansa ed è cresciuta proprio attraverso le guerre nel mondo.
L’autore individua fra le principali cause non tanto un discorso genetico, e nemmeno una presunta superiorità culturale da sempre sbandierata in ogni conflitto a sua giustificazione, bensì vede fra le principali cause soprattutto una sorta di aggressività intrinseca nella nostra cultura legata al possesso territoriale.
In sintesi, almeno stando l’autore, l’impiego di molto lavoro e fatica per assoggettare e modificare il territorio ai propri bisogni, il costo pagato in termini di impegno, sarebbe uno degli elementi determinanti che genererebbe questa aggressività di fondo, qualcosa legato al possesso, alla difesa e alla necessità di alimentare e mantenere quanto costruito.
Una aggressività che nasce nell’esigenza di difendere oppure nel trovare nuove risorse per mantenere quanto faticosamente costruito.
Eppure nella storia del genere umano sono esistite molte culture profondamente pacifiche, che nemmeno avevano un termine per il concetto di guerra. Il “problema” è che tali culture non costruiscono armi, non si preoccupano di difendersi e di conseguenza sono facilmente conquistabili e assimilabili da società più aggressive e bellicose.
Uno dei principali problemi del genere umano, in una prospettiva storica, è che le culture guerrafondaie e aggressive hanno sempre assoggettato quelle pacifiche.
C’è un interessante studio dall’antropologo Robert Textor, “Caratteristiche delle società primitive riguardo alla guerra”, dove si confrontano le caratteristiche delle società tribali pacifiche con quelle guerrafondaie.
Le nove società pacifiche analizzate sostanzialmente avevano le seguenti caratteristiche:
nomadi, niente agricoltura né allevamenti, niente metallurgia, niente città, dimensioni comunitarie sotto i 50 membri, niente classi sociali.
Tutte caratteristiche che in effetti in un mio viaggio ebbi modo di trovare in ciò che era rimasto delle antiche comunità e delle rifondate tribù aborigene australiane.
Un popolo quello aborigeno che si può considerare certamente fra i meno bellicosi della storia, dal momento in cui 200 anni fa, anche quando invasi dalle colonie inglesi, evitavano sempre ogni forma di conflitto semplicemente ritirandosi nell’interno dell’Australia, anche in zone totalmente desertiche, ciò fino quando gli è stato possibile.
Inoltre, tali società con queste caratteristiche, rispetto invece alle corrispettive società belligeranti, possedevano più attività culturali, niente schiavitù, niente pene corporali, meno tabù sul sesso, meno bisogno di realizzazione, nessuna attenzione alla gloria militare o alla bellicosità, niente giochi di fortuna ma solo d’abilità, bassi livelli di narcisismo, di nevrosi, e di sofferenza mentale.
L’altra faccia della medaglia è che tali società non avendo propensione alla guerra e alla difesa, una volta venute in contatto con società belligeranti, sono state spazzate via oppure inglobate.
Siamo allora condannati a una cultura e a una evoluzione dominati da possesso, guerre e infelicità?
E la miscela esplosiva che si è venuta a creare ultimamente, fatta di pressioni demografiche, culturali, contestuali, sommate alla fame di risorse e all’aggressività di fondo mosse per ottenerle di modo da mantenere quanto costruito, ci spingeranno per forza ad autodistruggerci per il dominio, l’accesso e il controllo di tali risorse?
Per forza non si fa nemmeno l’aceto, recitava un vecchio detto popolare.
E volendo anche essere pragmatici e forse anche cinici fino in fondo, esiste comunque un principio di convenienza, un principio che ci dice che comunque, sebbene la nostra aggressività culturale di fondo sia indubbiamente alta, e la nostra smania di possesso senza apparenti limiti, forse non è poi così conveniente però arrivare a pagare un prezzo così alto come quello di una catastrofe planetaria per ottenere il dominio e il controllo su quel poco che resta e che oltretutto sarebbe pesantemente compromesso, ciò sarebbe sconveniente pure per i pochi che detengono ricchezze e potere.
Questo perché sempre più potenze possiedono armi in grado di cancellare buona parte del genere umano dal pianeta, e compromettere definitivamente la vivibilità ambientale, la convenienza e l’interesse di tutti perciò, compresi quello di coloro che scatenano i conflitti, se non il perseguimento della pacificazione, dovrebbe essere quanto meno quello di non arrivare a superare un certo limite, oltre il quale pur vincendo un determinato conflitto, il prezzo da pagare sarebbe così alto che non ci sarebbe comunque nessuna convenienza nemmeno per loro.
Questo lo dico non tanto con la speranza di poter fugare quelle paure che ci attanagliano e ci angosciano specie in questo periodo, quanto per indicare che nonostante tutto finché c’è vita e volontà di preservarla un altro futuro è sempre possibile.
Certo è che gli avvenimenti recenti sembrano indicare che non ci sia volontà nemmeno nel non superare questo limite invisibile ma determinante il futuro non solo dell’Ucraina o di un’area geografica piuttosto che un’altra, ma di tutto il pianeta e di tutta la popolazione mondiale.
Eppure esiste sempre la possibilità di creare un finale diverso, niente è veramente scritto di ciò che non si voglia veramente.
E così come nessuna guerra avviene per caso, al tempo stesso nessuna guerra è inevitabile, nessun escalation è inarrestabile e non invertibile.
Ciò che è certo, è che sono 30 anni che di conflitto in conflitto, mentre per i pochi già ricchi e potenti si sono aperte nuove occasioni di fare cassa e ottenere sempre maggiore controllo su risorse, tecnologia, informazione, finanze, capacità di determinare scelte politiche, in generale invece, per la stragrande maggioranza della popolazione a livello mondiale si è andati verso una netta involuzione e peggioramento.
Giusto per dare un dato stando ai risultati del tredicesimo Global Wealth Report del Credit Suisse Research Institute (CSRI), lo 0,5% di popolazione più ricca del mondo nel 2021 ha aumentato per il quinto anno consecutivo la propria quota di ricchezza fino a raggiungere il 55,6% nel 2021 rispetto al 53,9% registrato nel 2019 e se ciò non bastasse a disegnare meglio il quadro della disomogeneità della distribuzione delle risorse, attualmente 2.153 persone più facoltose detengono un patrimonio complessivo pari a quello di 3,6 miliardi di esseri umani, ovvero il 44% della popolazione mondiale.
Sul fronte del lavoro poi il quadro che ne deriva è ancora più chiaro. Negli ultimi 5 anni le grandi multinazionali e i grandi gruppi finanziari hanno accresciuto il loro potere economico, in definitiva il loro monopolio sull’economia e sul mercato con un incremento del 41% del loro fatturato a fronte di una decrescita del 36% del fatturato delle piccole e medie imprese, molte delle quali hanno chiuso.
Il confine che delinea il fronte di ogni nuovo conflitto prima ancora che geografico è sociale, nasce dalla disomogeneità della distribuzione della ricchezza, dalla sua concentrazione nelle mani di pochi, dal desiderio ossessivo e malato di quest’ultimi nel conservare e aumentare la ricchezza e il controllo che da essa deriva.
In definitiva per spiegare l’origine dei conflitti, invece di continuare a tracciare linee di divisione geografica, etnica, politica, o religiosa, forse ci aiuterebbe a comprendere e a trovare possibili soluzioni, l’analizzare la profonda linea di divisione sociale che abbiamo dinanzi, quella che fa sì che, da una parte possa esistere un manipolo di pochissime famiglie, poche migliaia di persone detentrici di uno sconsiderato potere materiale e decisionale, e con grande capacità di influenzare gli eventi, l’opinione pubblica e le sorti generali, come evidente negli accadimenti degli ultimi 30 anni che hanno spinto la vita delle persone in una direzione peggiore per il 95% della popolazione.
Un piccolo nucleo di persone che ormai in modo del tutto indipendente dalle scelte popolari, vorrebbe amministrare la società come un’azienda, in cui vengano decisi i ruoli decisionali, gli investimenti da fare, quel che c’è da tagliare, le modalità di approvvigionamento, i rami da chiudere, le guerre da dichiarare, dove destinare i frutti del lavoro delle persone, ecc. e che in definitiva vede il mondo come fosse un club privato, le cui risorse invece che essere distribuite e amministrate in modo equo e condiviso, vengono invece gestite come cosa propria.
Dall’altra una vastissima maggioranza composta da miliardi di persone che indipendentemente dall’area geografica in cui essa si venga a trovare, dalla religione professata, dall’orientamento politico o sessuale, o dalle origini culturali, ha un comune denominatore subire a vari gradi e livelli, i pesantissimi effetti delle sconsiderate politiche mosse dai primi.
A noi la scelta se continuare a collaborare con questo tipo di organizzazione sociale che ricorda sempre più l’assetto sociale della Francia ai tempi di Re Luigi XVI e la sua corte, con uno Stato sempre più indebitato per sostenere spese di guerra, scelte sconsiderate, e i privilegi della corte nobiliare, oppure se tentare di esprimere qualcosa di diverso
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