– Redazione Italia

A Firenze lo scorso 2 ottobre è morto sul lavoro un altro rider (tre morti di piattaforme digitali in Toscana in due anni). Si chiamava Sebastian Galassi, aveva appena 26 anni e aveva deciso di consegnare cibo per aiutare la famiglia. Un’altra morte inaccettabile, in un settore dove la sicurezza sul lavoro resta ancora un diritto troppo spesso da conquistare, unitamente a salari dignitosi e a condizioni di lavoro tutte piegate alla produttività a discapito delle tutele.

Lavoratori stritolati da un modello organizzativo che prevede che l’azienda fornisca una app per smartphone attraverso cui il lavoratore viene chiamato quando serve e sulla base di un complesso algoritmo che crea una graduatoria basata sulla fedeltà e l’affidabilità. Il lavoratore non ha alcuna garanzia, viene pagato con cifre risibili, non gode di ferie, malattie, assicurazioni sul lavoro, deve metterci la bicicletta di suo e in molti casi persino pagare il contenitore per le consegne.

Spesso rubrichiamo il lavoro dei rider sotto la voce “ lavoretti” con cui arrotondare. E, invece, per l’80,3% è una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà (48,1%, pari a 274mila soggetti) rappresenta l’attività principale. Uno su due sceglie di lavorare per le piattaforme in mancanza di alternative occupazionali (50,7%). Oltre il 31% non ha un contratto scritto e solo l’11% ha un contratto di lavoro dipendente. Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile. In altri termini, di una nuova precarietà digitale. È quanto emerge da “Lavoro virtuale nel mondo reale: i dati dell’Indagine Inapp-Plus sui lavoratori delle piattaforme in Italia”, pubblicata ad inizio d’anno e che offre un quadro dettagliato delle caratteristiche dei lavoratori delle platform work in Italia in tutte le sue diverse manifestazioni.

L’indagine, che ha coinvolto oltre 45mila intervistati sfata i miti della sharing economy. Le piattaforme digitali richiamano sempre più forme di lavoro rigidamente controllate (nei tempi e nei modi), pagate spesso a cottimo (50,4% dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita. Nel periodo 2020/21 i lavoratori delle piattaforme digitali (i c.d. platform worker) sono stati 570.521.

Non parliamo solo dei rider, ma di un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti online (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). Rappresentano l’1,3 della popolazione di 18-74 anni, ovvero il 25,6% del totale di chi guadagna tramite internet. Ai platform worker, infatti, vanno aggiunti coloro che vendono prodotti (piattaforme pubblicitarie) o affittano beni di proprietà (piattaforme di prodotto) per un totale di 2.228.427 di individui (il 5,2% della popolazione tra i 18 e i 74 anni) che dichiarano di aver ricavato un reddito attraverso le piattaforme digitali tra il 2020 e il 2021.

I lavoratori delle piattaforme sono per i tre quarti uomini. 7 su 10 hanno un’età compresa tra 30 e 49 anni, con i giovani tra 18 e 29 anni concentrati soprattutto nella categoria dei lavoratori occasionali. Il titolo di studio non è particolarmente diverso rispetto a quella della popolazione generale, se non per una maggiore presenza di diplomati. Chi lavora tramite piattaforme come attività principale presenta livelli di istruzione più elevati (dal diploma in su), mentre chi lo fa occasionalmente presenta titoli di studio più bassi. Il 45,1% dei lavoratori delle piattaforme appartiene alla tipologia “coppia con figli”, ma la quota sale al 59,1% nel caso di occupati che considerano quella delle piattaforme un’attività secondaria. Al contrario, le persone che occasionalmente collaborano con una piattaforma sono invece più spesso single (37,9%).

Come molte attività “sommerse” anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di “caporalato”. Basti pensare che circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l’account di lavoro per accedere alla piattaforma e che nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno.

Inoltre, si segnala che il 72% ha dovuto sottoporsi a un test valutativo per poter lavorare con la piattaforma. Il sistema più diffuso per la valutazione del lavoro svolto è quello legato al numero di impegni o incarichi portati a termine (59,2% dei casi) seguito dal giudizio dei
clienti (42,1%). Questo conferma la centralità del sistema del cottimo orario nella valutazione effettuata dagli algoritmi sui lavoratori e nell’organizzazione produttiva della piattaforma e suggerisce come per molti lavoratori delle piattaforme non si tratti di lavoro autonomo, ma di lavoro dipendente.

A una valutazione negativa o a una mancata disponibilità nello svolgimento degli incarichi corrisponde in quattro casi su dieci un peggioramento del tipo di incarichi assegnati, con la riduzione nelle occasioni di lavoro più redditizie rispetto al complesso degli incarichi (40,7%). Inoltre, la valutazione negativa determina per il 4,3% dei lavoratori il mancato pagamento della prestazione svolta, fino ad arrivare nel 2,8% dei casi alla disconnessione forzata dalla piattaforma, una sorta di licenziamento occulto.

Coloro si apprestano a governare e coloro che dopo la sconfitta dicono di voler ripartire dal lavoro farebbero bene a dare uno sguardo a questi dati. Qui la ricerca.

https://www.pressenza.com/it/2022/10/le-piattaforme-e-il-cottimo-hanno-fatto-unaltra-vittima/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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