Al Pd prossimo venturo forse non resta che il veltronismo, ovvero quel melange di buoni sentimenti dell’intimismo piccolo borghese dei valori solidaristici, ‘non ideologici’, che albergano nell’elettorato democratico.
Letti i dati (elettorali e di radicamento) mi sono posto i problemi relativi a ogni forza politica. Qui cominciamo dal Pd.
Partiamo dall’identità più presentabile, cioè dal veltronismo, ovvero da quel melange di buoni sentimenti che svariano dall’intimismo piccolo borghese agli svolazzi nel regno pindarico di valori proclamati inclusivi e solidaristici, per quanto ‘non ideologici’ (la cultura dei diritti individuali, di genere e delle minoranze). è la cifra della mentalità soggettiva che alberga nell’elettorato Pd.
La classe media urbana istruita ai vari livelli, alta, media e bassa, riflessiva e transazionale, comunque benestante e in età matura è il suo milieu sociale. Con l’aggiunta di qualche sedimento vieppiù residuale del vecchio blocco sociale ancora in auge nei ’90: operai sindacalizzati in quiescenza, ceti dipendenti del settore istituzionale (scuola, sanità, pubblico impiego),
Le città, specie le grandi città, sono l’ambiente ormai esclusivo del Pd. La semi-periferia centrale, talvolta le cinture residenziali popolate di classe media impiegatizia pendolare, il suo ambito territoriale, essendo l’area centrale della ztl condivisa con concorrenti insidiosi: i partitni centristi neo-liberali a vocazione pariolina, ma anche la sinistra ‘radicale’ (entrambe varianti aggressive e speculari del veltronismo, il tipico sdoppiamento dei figli della borghesia un tempo ‘conservatrice’).
Veltronismo e arroccamento nelle ztl
Da tempo il Pd si è spiantato (e la cosa era evidente sin dalla nascita se si analizza il voto del 2008) dalle aree periferiche e provinciali, con un crescendo legato al tasso di marginalità.
Il caso più clamoroso è quello del vecchio insediamento sub-culturale nelle zone rurali e a economia diffusa della zona rossa, cioè la culla del movimento social-comunista. Tutto transitato alla destra, con un fenomeno di rovesciamento analogo a quello che nei ’60 portò il mondo country degli stati centrali e meridionali degli Usa a transitare dai democratici ai repubblicani.
Nelle città non deve trarre in inganno il caso di Bologna e di poche altre città della zona ‘rossa’, dove il lungo ciclo socialdemocratico ha sedimentato un’area di appartenenza che ancora persiste nelle ben curate periferie popolari attorno ai centri civici, ai presidi socio-sanitari e a qualche residua casa del popolo. Si tratta di una eccezione che non ha riscontro in alcuna altra città.
Un esempio clamoroso dello spiantamento del Pd, ma più in generale della sinistra, dalle periferie urbane è il caso di Torino: la città-fabbrica per eccellenza transitata con salto violento alla fase post-industriale. Con livelli di segregazione socio-grafica che ancora nei ’90 erano tra i più alti dell’Italia (analoghi i casi di Genova e Venezia, anch’esse città con un corpus industriale di prima fase imponente).
Qui i quartieri ex-operai a nord della Dora e nella zona sud di Mirafiori, un tempo bastioni del Pci operaista, sono passati in massa alla destra, prima in salsa leghista poi post-fascista, dopo la transizione grillina del quinquennio 2013-2018. Della quale persiste ancora qualche segno: unico contraltare alla grande migrazione.
Il Pd è ormai recluso nella zona centrale e dintorni, assieme ai centristi che hanno eretto l’oltre-Po collinare (la zona più elitaria ed esclusiva) a loro fortino. In sintesi il Pd è diventato l’interprete della transizione post-industriale in una città che resta fra le più segregate d’Italia.
Quanto ai quartieri popolari hanno anch’essi subito una profonda trasformazione. Il popolo che li abita ha assunto una forma minuta, residuale e promiscua. Pensionati a basso reddito, ordinari ceti impiegatizi, lavoratori precari, immigrati, lavoratori autonomi marginali.
Venuta meno la compattezza etnico-sociale garantita dalla fabbrica come grande integratore territoriale, un popolo frantumato, assai simile a una minuta classe media marginale (come fu a suo tempo il mondo piccolo contadino) disperatamente aggrappata ai propri minuti risparmi patrimoniali (la casa in proprietà) ed esistenziali. Di qui la sua grande reattività al fenomeno immigratorio, cosi come agli standard vieppiù esosi imposti dalle nuove norme di regolazione urbana.
Questa dinamica è la stessa di tutte le grandi città, al nord come, al Sud. A Napoli il Pd è totalmente escluso dai quartieri popolari e industriali che avevano sostenuto la grande avanzata del Pci alla metà dei ’70 e il ciclo spettacolare delle giunte rosse da Valenzi a Bassolino. E’ ormai concentrato solo nelle zone alte del Vomero, Chiaia e Posillipo, anche godendo di non avere nei centristi un concorrente dotato di minimo spessore. Cionondimeno lasciando il posto di primo partito, anche lì, ai 5S di Conte.
Può un Pd dedito al veltronismo frazionato in correnti di potere cambiare natura e riguadagnare l’insediamento storico della sinistra urbano-rurale?
Si può rimettere il dentifricio sparso nel tubetto ripristinando almeno alcuni degli elementi del classico partito democratico di massa, come operosamente sperano i membri della sinistra interna e i nuovi rientrati di Articolo Uno ?
C’è decisamente da dubitarne, così come c’è da dubitare quanto a scioglimenti e catartiche resurrezioni. I dati oggettivi sedimentati da un lungo periodo di tempo non sono reversibili nè sostituibili. Il Pd, boom delle europee del 2014 a parte, è transitato dagli otto milioni e 600.000 voti del 2013 ai poco più dei cinque milioni attuali. Una cifra che sembra avere una sua stabilità replicata nel 2018 e nelle europee del 2019.
La cifra di una formazione medio grande legata a precise caratteristiche socio-culturali e a uno stile politico di una classe politica diffusa con un preciso corpo. Il Pd è il prodotto di un determinato milieu politico-sociale. L’ambiente proprio nel quale ‘sta’ e si riproduce. Il fondamento solido della sua, così paradossalmente densa, liquidità politica.
Per molti aspetti, se si deve fare un paragone, il Pd attuale somiglia assai al Psi dei settanta e degli ottanta, cioè al Psi transitato da Nenni a Craxi.
Un partito medio inestricabilmente legato alla governabilità di sistema, suddiviso in correnti di potere e con una base sociale ed elettorale vieppiù spostata sulle classi medie emergenti. Il Psi che smarrito il primo slancio riformatore dei ’60 ristagna per un certo periodo in una condizione irresoluta e poi si reindirizza attingendo in anteprima al riformismo neo-liberista. Toccando l’apice in epoca craxiana e portando in auge una piccola borghesia professionale famelica di posti e prebende.
La differenza rispetto al Psi è che questo non dismettè mai l’iconografia delle origini (icasticamente rappresentata dal sol dell’avvenire e dal garofano) e che, almeno nell’era craxiana, seppe darsi una leadership stabile e monocratica.
Mentre il Pd, partito ‘nuovo’ contrapposto al partito ‘vecchio’ di cui il Psi è sempre andato fiero) non è stato capace di tradurre il veltronismo in alcunchè di simbolicamente attrattivo (i buoni sentimenti con la tabula rasa come bandiera). Inoltre, fallito il tentativo renziano di re-incarnare Craxi, il Pd è condannato all’instabilità della leadership, volendola ad un tempo, per statuto, investita di autonomia monocratica ma anche contendibile.
Ma soprattutto la differenza, al di là di ogni fondato isomorfismo, è questa: che il Psi è morto (drammaticamente), mentre il Pd è destinato a restare. Tal quale è per come è diventato e non può cessare di essere. Certo anche con una sinistra interna rafforzata. In ogni caso più simile a quella di Signorile che a quella di Lombardi, Basso e Panzieri.
Altro che Bersani.
Se vuole essere conseguente il Pd deve richiamare Veltroni, in servizio permanente effettivo, traendolo, per quanto spompo e melanconico, dagli amati ozi dopo-politicisti.