Il comitato norvegese ha assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, all’organizzazione per i diritti umani russa Memorial e a quella ucraina Center for Civil Liberties. Sono quindi ben tre i destinatati del premio e hanno tutti un tratto in comune: l’opposizione al regime russo, dato che conferma come un’istituzione apparentemente super partes come quella del premio Nobel non sia in realtà scevra da connotazioni profondamente politiche e da caratteristiche che vanno lette in un contesto culturale preciso e delimitato, quello occidentale.

Ales Bialiatski è un attivista bielorusso noto per aver fondando nel 1996 l’organizzazione Viasna, per contrastare il crescente potere dittatoriale del presidente Lukashenko – oggi sostenitore di Putin – offrendosi di fornire sostegno ai manifestanti incarcerati e alle loro famiglie. Negli anni successivi, Viasna ha assunto le caratteristiche di un’importante organizzazione per i diritti umani che ha documentato su larga scala le violenze delle autorità contro i prigionieri politici. Le autorità governative hanno più volte cercato di frenare l’attività di Bialiatski, imprigionandolo tra il 2011 e il 2014 e poi nuovamente nel 2020: tutt’ora l’attivista è detenuto sera regolare processo.

Memorial è invece un’organizzazione per i diritti umani fondata nel 1987 da attivisti dell’ex Unione Sovietica i quali, riporta il sito del Premio Nobel, “volevano garantire che le vittime dell’oppressione del regime comunista non fossero mai dimenticate”. Tra i fondatori dell’organizzazione vi è anche il Nobel per la Pace 1975 Andrei Shakarov. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica l’organizzazione è cresciuta sino a diventare la più grande a tutela dei diritti umani in Russia, creando anche un centro di documentazione sulle vittime dell’era staliniana e raccogliendo informazioni “sull’oppressione politica e sulle violazioni dei diritti umani in Russia”. Nel 2021 le autorità russe hanno disposto la liquidazione forzata dell’organizzazione e la chiusura definitiva del centro di documentazione.

Il terzo vincitore del premio, il Centro per le Libertà Civili, è stato fondato nel 2007 a Kiev allo scopo di promuovere diritti umani e democrazia in Ucraina. Dall’invasione russa del Paese, il Centro “si è impegnato per identificare e documentare i crimini di guerra russi contro la popolazione civile ucraina” e, collaborando con altri partner internazionali, “sta svolgendo un ruolo pionieristico al fine di ritenere le parti colpevoli responsabili dei loro crimini.

Il centro norvegese conclude affermando che, con l’assegnazione di questi tre premi, intende “onorare tre straordinari campioni dei diritti umani, della democrazia e della coesistenza pacifica nei Paesi vicini, Bielorussia, Russia e Ucraina“. La partita si gioca quindi ancora una volta tutta lì, sulla linea di divisione tra polo russo e polo occidentale, arginando la storia del mondo entro i margini delle esigenze di pochi. Lungi dal voler mettere in dubbio l’encomiabile lavoro dei tre vincitori, non si può tuttavia non notare come, anno dopo anno, l’assegnazione del Nobel per la Pace riproponga le posizioni congeniali solo ad una parte, e come non possa considerarsi esente da caratterizzazioni politiche funzionali alle esigenze di Europa e Stati Uniti.

Erano infatti ben 343 i candidati al Premio – dei quali 251 nomi individuali e 92 organizzazioni internazionali -, tutti con caratteristiche alquanto eterogenee. Tra i nominati vi erano, per esempio, Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, i quali hanno sviluppato un vaccino contro il Covid non coperto da brevetto e quindi accessibile a tutti i Paesi poveri. Nella lista dei candidati favoriti stilata dal Time figuravano personalità come l’attivista indiano Harsh Mander, che si batte contro la repressione delle minoranze religiose nel Paese e che nel 2017 ha fondato il movimento Karwan e Mohabbat, il quale presta sostegno alle famiglie delle vittime dell’intolleranza e dei linciaggi. Vi era poi Ilham Tohti, attivista uiguro che ha combattuto strenuamente contro l’oppressione del governo cinese nei confronti della comunità uigura musulmana, e il Governo di unità nazionale della Birmania, composto da funzionari – molti dei quali si trovano in esilio – che si oppongono al governo della giunta militare, la quale sta perpetrando un genocidio nel Paese contro i musulmani Rohingya e contro i manifestanti che chiedono una riforma democratica. Contesti di guerra, di lotta e di rivendicazione dei diritti, troppo lontani dall’ambito di interesse dei governi occidentali.

[di Valeria Casolaro]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: