Giorgia Meloni
Intervista di Mariano Schuster* a Steven Forti pubblicata su Servindi del 6 ottobre 2022 e tradotta da Francesco Cecchini per Ancora Fischia il Vento.
L’accademico italiano Steven Forti, autore del libro Extrema derecgha 2.0, analizza la vittoria di Giorgia Meloni, scompone l’identità del partito Fratelli d’Italia, discute l’applicazione della categoria di “fascismo” alla nuova estrema destra e parla di una possibile ” orbanizzazione” all’italiana.
Copertina del libro di Steven Forti
La vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni italiane ha provocato ancora una volta dibattiti sul carattere dell’estrema destra contemporanea. Lo storico Steven Forti (Trento, 1981) è uno dei massimi esperti di queste forze politiche. Nel suo libro Extrema Derecha R2.0: cos’è e come combatterla? (Siglo XXI España), pubblicato appena un anno fa, scompone le idee, le fonti ideologiche e le prospettive politiche e sociali di questi spazi, costruendo una posizione che si inserisce in un ampio panorama di dibattiti sui diritti di cui Autori e partecipano autori come Cas Mudde, Sarah de Lange, Enzo Traverso, Jean-Yves Camus, Angela Nagle e Dorit Geva.
In questa intervista Forti analizza il fenomeno di Meloni e Fratelli d’Italia, si esprime sull’uso delle categorie di «fascismo» e «populismo», mette in guardia sui pericoli di una «urbanizzazione» all’italiana e indaga fenomeni come « rojipardismo» e sulle divisioni nell’estrema destra, mentre si parla della famigerata crisi della sinistra e delle sue difficoltà a fermare l’avanzata di queste forze di estrema destra 2.0.
– Meloni ha trionfato alle elezioni italiane e, come ogni volta che una forza di estrema destra ottiene una vittoria, nel dibattito pubblico è apparsa la parola “fascismo”. I Fratelli d’Italia sono stati paragonati ad altre formazioni e si è parlato ancora di “populismo di destra”. Nel tuo libro Far Right 2.0 hai cercato di dare un quadro esplicativo al fenomeno del sorgere di queste forze e ai modi in cui sarebbe possibile affrontarle, discutendo proprio dell’applicazione di questi due concetti per spiegare questi fenomeni. Come hai compreso questa reazione all’ascesa di Meloni e perché ritieni che queste concettualizzazioni non siano corrette?
– In primo luogo, ritengo che l’estrema destra si sia normalizzata da molto tempo e, ovviamente, costituisca un attore politico rilevante nella maggior parte dei paesi occidentali. In Italia questo fenomeno non è una novità, quindi questa reazione ingenua come di un certo stupore è abbastanza ingenua. Queste ali di estrema destra sono qui da molto tempo e sappiamo, per certo, che continueranno ad esserlo. Questo ci porta, ovviamente, a discutere cosa sono e cosa cercano ea dibattere sull’uso più o meno generale del termine “fascista” che talvolta viene loro applicato nel dibattito pubblico. Voglio dirlo chiaramente. Credo che queste formazioni politiche – quella di Meloni, quella di Víktor Orbán, Vox in Spagna, Trumpism negli Stati Uniti – non siano fasciste. Possiamo, ovviamente, discutere i concetti di neofascismo e postfascismo, ma questa è un’altra questione. Tra gli storici specializzati in fascismo c’è già un grande consenso che segna confini molto chiari rispetto a questo fenomeno emerso in Italia nel 1919 e sconfitto militarmente, per semplificare notevolmente, nel 1945. Il termine “fascismo” è stato così banalizzato che non sappiamo più nemmeno cosa significhi o cosa rappresenti. Storicamente era usato per descrivere un fenomeno politico molto chiaro che aveva caratteristiche particolari. Era ovviamente ultranazionalista, era razzista e, per usare un’espressione contemporanea in voga, ha ridotto i diritti. Ma aveva altre caratteristiche che non si ritrovano nella nuova estrema destra: il fascismo usava la violenza come strumento politico, i partiti fascisti erano partiti di milizia (avevano forze paramilitari), proponevano di instaurare dittature totalitarie a partito unico e, dall’altro invece, volevano incastrare le masse nelle grandi organizzazioni. Il fascismo, che si definiva una “rivoluzione palinggenica della società” – cioè voleva costruire “uomini e donne nuovi” – era anche una religione politica, come sottolineava Emilio Gentile. Questo ci mostra che il fascismo aveva una visione del futuro. L’estrema destra, invece, non vuole, non può o non ha pensato di fare queste cose. Sono qualcosa di diverso e, infatti, il caso più concreto dell’estrema destra del 21° secolo al potere è l’Ungheria di Orbán, che è al potere da più di 12 anni. Ritengo corretta la definizione dell’Ungheria di Orbán data dal Parlamento europeo il 15 settembre: un “regime ibrido di autocrazia elettorale”. Oppure, usando la formula tanto cara a Orbán, una democrazia illiberale. Questo non significa affatto che non siano un pericolo o una minaccia per i sistemi democratici, ma sono qualcos’altro rispetto a ciò che era il fascismo. Né sono, come talvolta vengono chiamate, forze del “populismo”. Non credo che il populismo sia un’ideologia – né un’ideologia sottile, un’ideologia poco centrata, come dicono Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltwasser –, piuttosto ritengo che sia, piuttosto, una retorica, un linguaggio, un stile e persino una strategia politica. Pertanto, credo che i concetti di fascismo e populismo – almeno usati in questo modo – non ci aiutino a capire e definire queste forze politiche. Dal mio punto di vista, è più corretto parlare di nuova estrema destra o, se si vuole, e in modo un po’ provocatorio, come li ho chiamati nel mio libro, «estrema destra 2.0». Ciò non significa che non abbiano elementi di continuità con il fascismo, ma, in ogni caso, ciò dipenderà da ogni caso specifico, da ogni Paese.
– Fratelli d’Italia, la forza politica di Giorgia Meloni, ha, a differenza di altri, chiari elementi di cultura neofascista del Movimento Sociale Italiano. Eppure, non sembra essere solo questo. Come definiresti Meloni e il suo partito?
Fratelli d’Italia è una formazione che integra, in modo molto chiaro, la grande famiglia globale dell’estrema destra 2.0. E poiché la famiglia è ampia, i suoi membri hanno punti in comune, riferimenti ideologici condivisi, strategie politiche e comunicative spesso simili, ma al suo interno ci sono anche differenze notevoli. In questo senso, è vero che rispetto ad altre di queste formazioni di estrema destra 2.0, Fratelli d’Italia ha legami più evidenti con la tradizione e la cultura politica neofascista. Quando Giorgia Meloni ha fondato il suo partito nel 2012, ha spiegato molto chiaramente che il suo scopo era riportare un’organizzazione di partito in una comunità con 70 anni di storia. E quel riferimento ai 70 anni di storia allude direttamente al Movimento Sociale Italiano, al quale Meloni, nel 1992, da adolescente, ha ascritto quando è entrato a far parte del suo ramo giovanile. Questi riferimenti sono presenti in Fratelli d’Italia, al punto che la fiamma tricolore è presente nel simbolo del loro partito, che era l’emblema del Movimento Sociale Italiano e che, non a caso, era anche quello del Fronte Nazionale Francese. Cioè, questa cultura politica esiste nelle basi ideologiche del partito. Tuttavia, Fratelli d’Italia è anche qualcosa di più. Ed è qui che entra in gioco la trasformazione vissuta dall’estrema destra e dal neofascismo dopo il 1945, associata, ad esempio, alla nouvelle droite (nuova destra) francese di Alain de Benoist.
– Cos’è “qualcos’altro”? Quali sono le fonti da cui oggi si beve Fratelli d’Italia che ne fanno qualcosa di diverso da una forza fascista o neofascista senza altro?
Nello specifico, nel caso di Hermanos de Italia – e questo lo avvicina molto a fenomeni come Vox in Spagna o Law and Justice in Polonia – vi è evidenza di una forte influenza del «nuovo conservatorismo» di sfumature sempre più autoritarie che ha sviluppato, soprattutto, nel mondo anglosassone. Leggendo l’autobiografia di Meloni, ma anche le Tesi triestine, che sono il documento programmatico 2017 dei Fratelli d’Italia, è chiaro che i riferimenti ideologici sono essenzialmente tre. Il primo è il britannico Roger Scruton, il secondo è l’israeliano Yoram Hazony (autore del libro The Virtue of Nationalism) e il terzo è Ryszard Legutko, politico e intellettuale polacco del partito Law and Justice. Questi referenti possiedono e sottoscrivono una prospettiva molto più autoritaria del conservatorismo, soprattutto rispetto a quella che abbiamo conosciuto negli anni di Bush figlio o con quella sostenuta da Reagan e Thatcher. In particolare in materia di valori e diritti, questo conservatorismo va ben oltre il precedente. Infine, e insieme a questo, possiamo stabilire un quarto riferimento nell’ormai papa emerito Joseph Ratzinger, che mantiene una prospettiva restrittiva, reazionaria e conservatrice del cattolicesimo.
– Sia nei riferimenti ideologici che nelle prospettive politiche, c’è un chiaro approccio di Meloni allo spazio ideologico “illiberale” tracciato, soprattutto, dall’Ungheria di Orbán e dalla Polonia del Diritto e della Giustizia. Possibile che Meloni stia andando in quella direzione? Potrebbe davvero portare l’Italia all’illiberalismo, tenendo conto delle differenze economiche, istituzionali e geopolitiche che l’Italia ha rispetto a paesi come l’Ungheria e la Polonia?
Ci muoviamo ancora con molte incognite, poiché dobbiamo fare uno sforzo per prevedere cosa potrebbe accadere. Lo facciamo anche in un contesto particolarmente complesso a causa della guerra in Ucraina, della fine della pandemia, della crisi energetica, delle tensioni internazionali e di tutto ciò che ciò comporta. Da un lato, le culture politiche che compongono un partito come i Fratelli d’Italia e le alleanze internazionali che ha Meloni – ovvero Mateusz Morawiecki e Orbán – indicano che non è fuori luogo considerare la possibilità che in futuro – non domani, ma entro cinque o dieci anni – l’Italia intraprende una strada che potrebbe finalmente portarla a un regime democratico illiberale. Diciamo che la prospettiva del mondo proposta da queste formazioni politiche va in quella direzione. Ma, in effetti, l’Italia non è l’Ungheria o la Polonia. Da un lato, a causa del suo peso economico nell’Unione Europea. Dall’altro, perché è un membro del G-7. L’Italia è anche uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea. Ha il debito più grande, è la terza economia dell’Unione, è il Paese che riceve più fondi dal piano NextGenerationEU (il pacchetto di ripresa per aiutare gli Stati membri dell’UE dopo la pandemia): quasi 200 milioni di euro. L’Italia invece non è l’Ungheria né la Polonia perché la democrazia è storicamente consolidata come sistema politico dalla fine della seconda guerra mondiale. È un paese con una storia di istituzioni e un sistema democratico molto più lunga di quella degli ex paesi comunisti dell’Europa orientale. Che le istituzioni democratiche italiane siano più forti è vero a priori, ma resta da vedere. Ovviamente a Bruxelles c’è una forte preoccupazione per quello che potrebbe accadere in Italia – proprio per il peso del Paese – e per questo la Meloni è consapevole di dover arrivare a un certo punto con i piedi di piombo, soprattutto all’inizio. Devi evitare una collisione frontale. Credo, in questo senso, che non ci sarà uno scontro frontale con l’Unione Europea, quanto piuttosto una situazione di tensione latente, in cui il governo italiano farà appello alla sua retorica sulla sovranità, il recupero dei poteri e la difesa degli interessi nazionali contro un’Europa “matrigna”. Sarà tirare la corda, ma resta da vedere fino a che punto. In questo senso è interessante osservare che, in campagna elettorale, Meloni ha affermato che non si devono fare nuove spese e che cadono in deficit per gli aiuti dovuti alla crisi energetica. Salvini, invece, ha chiesto 30.000 milioni di euro. La Meloni ha quindi adottato una posizione pragmatica sui due punti chiave che, come ben sa, sono quelli che le consentiranno di rimanere al governo. La prima è la collocazione internazionale dell’Italia, ovvero l’Atlantismo (che si traduce in adesione e sostegno all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico più sostegno allo sforzo bellico ucraino). Il secondo è la spesa. Ha dichiarato che non creerà fronti di combattimento con Bruxelles su questo argomento. Fondamentalmente, penso che ci sia un grosso problema che va oltre l’Italia. Se un governo di estrema destra rispetta il legame atlantico e le regole di spesa e non esagera su altre questioni – come ha fatto molte volte Orbán – è accettabile all’interno dell’Unione europea? Questa è la grande domanda.
– Meloni ha ottenuto un’ampia maggioranza parlamentare. Potrebbe aiutarla, o quella maggioranza non è così omogenea come potrebbe sembrare a prima vista?
Sì, Meloni governerà con una larga maggioranza in Parlamento, ma non è una maggioranza composta solo dai deputati del suo partito, ma quella composta anche dai deputati di Forza Italia e da quelli della Lega Salvini. Potrebbero esserci tensioni nella coalizione e punti di disaccordo. Non perdiamo di vista il fatto che anche alcuni dei deputati e senatori eletti da Fratelli d’Italia sono, in realtà, ex berlusconiani che Meloni ha inserito nelle loro liste. Quindi la stragrande maggioranza esiste, ma cosa permette a Meloni di fare e fino a che punto può spingersi?
– Si è sostenuto che la vittoria dei Fratelli d’Italia darà impulso ad altre forze di estrema destra in Europa, ma queste forze, che a volte sono poste sullo stesso terreno, non hanno le stesse prospettive. Ci sono i russofili e ci sono gli atlantisti, ci sono posizioni divergenti sull’Unione Europea e ci sono radici ideologiche molto diverse. Quale può essere l’impulso che Meloni dà a queste forze, tenendo conto non solo delle caratteristiche comuni, ma anche di ciò che le differenzia?
Nel breve termine, la vittoria di Meloni darà almeno una spinta elettorale alle forze di estrema destra nel continente europeo. A lungo termine, vedremo cosa accadrà con il governo. Reggerà o no? Avrai problemi o no? E poi l’altro livello è quello dei rapporti tra quelle forze politiche dell’estrema destra 2.0. Ovviamente, in queste formazioni politiche tutti si conoscono. Ma ci sono due gruppi. Uno è Identity and Democracy, che è composto da Salvini, Le Pen, Alternative for Germany, il Freedom Party dall’Austria e il suo omonimo dai Paesi Bassi. L’altro è Conservatori e Riformisti europei, che comprende, tra gli altri, i Fratelli d’Italia, i Poli del Diritto e della Giustizia, Vox e i Democratici svedesi. Questa divisione non riguarda solo le ambizioni personali o il desiderio di essere egemonici all’interno di ciascun partito e gruppo al Parlamento europeo, ma è anche associata a divergenze su questioni geopolitiche. I conservatori ei riformisti sono atlantisti, mentre molti di coloro che fanno parte di Identity and Democracy non lo sono – o almeno non così tanto – o sono direttamente russofili o filo-putinisti. Questa divisione che esisteva prima dell’anno scorso è ora cruciale. Infatti il famoso blocco dei paesi di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – non è rotto, ma lo è quasi dopo febbraio. Come mai? Perché Varsavia e Budapest parlano molto poco, e non perché si criticano a vicenda sul modo in cui gestiscono la politica interna o sui diritti dei cittadini o sulla visione conservatrice della società, ma perché Orbán ha buoni rapporti con Putin, mentre i polacchi sono russofobi. In questo quadro, cosa può contribuire Meloni? A medio e lungo termine, dimostra che se sei un atlantista e se rispetti le regole di spesa e non vai troppo fuori linea su alcune questioni, allora sei accettabile. Questo può diventare un modello per altri estremisti di destra che capiscono molto più chiaramente quali margini possono muovere all’interno dell’Unione Europea.
– Cosa può succedere alle tradizionali forze di destra di fronte al sorgere di movimenti che si collocano alla loro stessa destra? È possibile che destri tradizionali si allontanino ancora di più dalle loro posizioni tradizionali e adottino posizioni più estremiste?
Sì, questa è una possibilità, a tal punto che il rifiuto di mantenere il cordone sanitario contro l’estrema destra da parte di molte formazioni della destra classica o mainstream – gli europei popolari – in diversi paesi negli ultimi anni è un fenomeno che ha accelerato in ultimi mesi. Che i punti di contatto tra queste due famiglie crescano e le relazioni si avvicinino è una possibilità certa e reale. E, in effetti, penso che sia qui che si trova la madre dell’agnello. Cosa accadrà alle prossime elezioni europee? Cioè, cosa faranno gli europei popolari? Continueranno a governare in futuro con socialdemocratici e liberali o, invece, si alleeranno, ad esempio, con la famiglia dei conservatori e riformisti europei a cui appartiene Meloni?
Tutto ciò permette di tornare ai riferimenti teorici e ideologici del partito di Meloni. Roger Scruton, ad esempio, non era un neofascista, ma un conservatore che negli anni ha assunto una posizione sempre più reazionaria sulle questioni dei valori. Nemmeno Hazony è un neofascista, ma un nazionalista sionista, un nazionalista israeliano con una visione ultra-conservatrice della società. Qui penso che siano interessanti anche alcune delle riflessioni che Anne Applebaum fa nel suo libro The Twilight of Democracy, dove dice: «Con queste persone alla fine degli anni ’90 abbiamo festeggiato tutti insieme il capodanno in Polonia, parlando di un mondo libero e ora, con gran parte di quelle persone non possiamo nemmeno parlarci”, riferendosi soprattutto ai paesi dell’Est Europa. È chiaro che c’è stata una svolta nel mondo conservatore che si è verificata più specificamente in alcuni paesi – lo si vede chiaramente nel Partito Repubblicano degli Stati Uniti, che oggi è praticamente sbaragliato–. La destra tradizionale (conservatrice e liberaldemocratica) è tra il rock e il duro e non sa come affrontarlo. Una parte di questi settori guarda sempre più alla possibilità di avvicinarsi a questa versione autoritaria del conservatorismo.
– Ma questo pone un serio problema per la sfida, da lei sollevata in alcune occasioni, di realizzare una sorta di unità tra i democratici con l’obiettivo di difendere un livello minimo di democrazia. Se la destra tradizionale o mainstream si muove verso le posizioni autoritarie del conservatorismo, mancherà un attore per fare una sorta di accordo del genere…
Bene, questa è la domanda da un milione di dollari. Ovviamente è difficile perché siamo arrivati fin dove siamo arrivati. Voglio dire, siamo in ritardo. Ma credo, in ogni caso, che forse si possano stipulare patti di “minimo” in difesa dei valori democratici. Accordi, ad esempio, per distorcere l’incitamento all’odio, con l’obiettivo di frenarlo e metterlo alle strette. Accordi su questioni fondamentali del funzionamento dello Stato. Questo, ovviamente, non significa che i partiti che raggiungono una serie di accordi in termini di difesa di determinati valori democratici abbandonino le proprie posizioni o perdano la propria identità. È possibile raggiungere un accordo, ad esempio, sull’incitamento all’odio e, allo stesso tempo, mantenere chiare differenze in altri ambiti. Quelli popolari, cioè la destra mainstream, possono fare un patto di questo tipo insieme a socialisti e socialdemocratici e, allo stesso tempo, possono avere proposte economiche molto diverse tra loro. Penso che almeno varrebbe la pena provare.
– Ma il compito di definire cosa potrebbe essere escluso sotto l’etichetta di “hate speech” non è politicamente problematico? Non potrebbe accadere che questo finisca per esercitare un’esclusione delle forze rappresentative e che, infine, favorisca l’estrema destra?
Naturalmente è difficile e quindi non si possono prendere decisioni arbitrarie o affrettate. È una questione che fa la fragilità della democrazia: quella della tolleranza verso gli intolleranti, per usare un’espressione comune. Naturalmente i bordi sono molto porosi. È chiaro che una democrazia non può censurare perché alimenterebbe anche il discorso vittimizzante dell’estrema destra. Ma credo che si possa instaurare un profondo processo partecipativo della società affinché le regole del gioco siano stabilite congiuntamente. Come è successo con le costituzioni, che possono essere migliori o peggiori, ma sono il frutto di un processo di democrazia rappresentativa che conteneva, in molti casi, elementi partecipativi. Ciò che mi sembra impossibile è pensare che le democrazie non debbano difendersi dalle minacce antidemocratiche. Ma con questo bisogna anche essere molto cauti, soprattutto da sinistra. Sappiamo tutti che anche molti dittatori sono saliti al potere affermando di essere venuti per “difendere la democrazia dagli estremisti”.
– Un altro dei problemi che il governo dei Fratelli d’Italia suppone è quello dell’accesso e della garanzia dei diritti conquistati, in larga misura, dalle lotte della sinistra. A ciò si aggiunge la crescente possibilità di sviluppo di politiche anti-immigrazione restrittive e discriminatorie, nonché fenomeni di persecuzione di movimenti come il movimento femminista, gruppi legati alle lotte della diversità sessuale e gruppi religiosi che non fanno parte del matrice egemonica d’Italia. Come vedi questa situazione?
Farò un chiaro esempio. Nelle regioni dove già governano i Fratelli d’Italia, sempre in coalizione con gli altri partiti di destra, ma ricoprendo la presidenza regionale, l’aborto non è vietato, cioè non è stata revocata la legge che ammette il diritto all’aborto ( legge 194 del 1978 in Italia). Quello che è già successo è che, con la formula del “consentire anche il diritto alla vita”, in pratica il diritto all’aborto è stato quasi reso impossibile. Tra l’obiezione di coscienza di medici e cliniche si sono verificate situazioni assolutamente anacronistiche che violano quel diritto. E teniamo conto del caso dell’Ungheria, dove questo è andato ben oltre, arrivando anche alla tortura psicologica nei confronti delle donne che intendono abortire. Quello che possiamo pensare è che forse non ci sarà una legge che vieti l’aborto in Italia, ma andrà in pratica verso una restrizione altrettanto forte. Cose simili potrebbero accadere con la questione dei migranti. Le differenze tra Salvini e Meloni non sono nella sostanza, ma nella forma. La loro prospettiva restrittiva è la stessa, anche se possono differire nei modi – dice Salvini, ad esempio: “reintroduciamo i decreti sicurezza che ho approvato nel 2018 e 2019 quando ero ministro dell’Interno e blocchiamo in mare le navi delle Ong»– . È evidente che ci saranno tagli ai diritti dei migranti, ci sarà un netto rallentamento della parità di genere, ci sarà una criminalizzazione delle ONG che lavorano nell’accoglienza degli immigrati e ci sarà, molto probabilmente, una criminalizzazione del movimento femminista. Tutto questo sarà sviluppato passo dopo passo. Non è che il primo giorno di governo approveranno sette decreti-legge. La stessa cosa è successa con Orbán. Orbán ha fatto le cose il primo giorno in cui ha riformato la Costituzione, ma nel 2020 è stata approvata la legislazione che vieta ciò che il leader ungherese chiama “promozione dell’omosessualità”. Cioè, è un processo graduale che avviene in questo modo per abituare le persone . Si nota meno se i passi sono lenti. E, d’altra parte, c’è un altro aspetto fondamentale di tutto questo, che è la legittimità che i discorsi xenofobi, razzisti, escludenti, omofobi e misogini hanno già da oggi con la formazione di un governo di questo tipo. Diversi studi mostrano la crescita dei crimini razzisti quando Salvini era ministro dell’Interno nel 2018 e nel 2019. Perché? Perché le persone si sentono legittimate. Non è che il razzismo in sé cresca, quello che succede è che diventa più visibile perché le persone non hanno più obiezioni e non si vergognano degli altri. In questo senso, ci sarà una posizione più generalizzata nei settori più reazionari della società rispetto a questi temi e, d’altra parte, ci sarà un governo che taglierà i diritti perché la sua visione del mondo – che è nero su bianco in le sue Tesi di Trieste e nei vari scritti in cui difende la prospettiva di Orbán e Morawiecki – è quella di quella che chiamano «famiglia tradizionale». In questa prospettiva, ciò che sostengono e sosterranno è quanto ha già detto la Meloni sul palco durante un evento elettorale a Cagliari quando un giovane è salito sul palco con la bandiera arcobaleno e l’ha criticata per la sua posizione sull’omosessualità. In quell’occasione, lei rispose: «Ebbene, cosa vuoi di più? Vuoi adottare anche tu dei bambini? Hai già i tuoi diritti”. In altre parole, non è che eliminino a titolo definitivo i diritti esistenti, ma che non ce ne saranno di nuovi perché ritengono che siano già troppi. Ed è certo che verranno tagliati.
– Lei ha lavorato a lungo sui discorsi del «rojipardismo» –che in Italia hanno avuto Diego Fusaro come volto visibile– e ha analizzato la gravidanza culturale di quelle proposte di destra che si ricoprono di discorsività di sinistra. Hanno ancora del potere? Riescono a trasferire il terreno della cultura e ad affermarsi politicamente? Hanno avuto un ruolo per qualcuno nelle elezioni italiane?
Penso che sia importante sottolineare il ruolo che Alain de Benoist ha avuto riguardo al fenomeno rosso-bruno. Molti di coloro che si definiscono rossi e marroni sono o discepoli di De Benoist o persone che hanno letto i testi della nuova destra. In questo caso, sono persone di tradizione neofascista che cercano di applicare abiti e retorica di sinistra alle loro posizioni ea quelle della nuova estrema destra. Quel discorso ha avuto, come lei afferma, una certa visibilità in Italia, soprattutto qualche anno fa, in particolare intorno alle elezioni del 2018. Ma in queste elezioni e negli ultimi mesi, vi direi che il rojipardismo ha avuto poco risalto. Ora, è vero che è stata presentata una lista, quella dell’Italia Sovrana e Popolare, guidata da Marco Rizzo, a cui si fa riferimento in quella posizione. D’altra parte, Fusaro ha perso molta popolarità. È stato ospite fisso dei media mainstream soprattutto tra il 2015 e il 2019 e poi la sua stella è svanita molto rapidamente. Ovviamente, ci sono diversi ambienti che toccano un po’ questi temi e si muovono in quelle coordinate. Ma sono ancora una minoranza, piccoli partiti come quello di Rizzo che ha presentato come candidato un ex deputato della Liga de Salvini che era apertamente anti-vaccini. In queste elezioni non si è concretizzata quella proposta politica, ma è vero che questi discorsi circolano. Nella sinistra socialdemocratica e negli spazi che si trovano alla sinistra della socialdemocrazia, nessuno ha preso quelle idee. Né il Partito Democratico, né Sinistra Italiana, né l’Unione Popolare, né Potere al Popolo comprano nessuno di questi discorsi. Nemmeno i movimenti sociali. Anzi, direi che tutto questo ha avuto qualche derivazione in una certa retorica usata dall’estrema destra, in particolare da Salvini, che vi si appellò molto negli anni che suscitò maggiori consensi. Salvini ha usato il discorso rosso-bruno quando ha affermato di parlare alla “sinistra dimenticata”, che la sua era una “vera forza popolare” e non quella della “sinistra urbana cosmopolita”. Meloni ha fatto un po’ appello anche a quello e potremmo dire che quelle sono le derivate. Tuttavia, non mi è chiaro che, almeno nel caso di Meloni, questo discorso sia prodotto dall’influenza del rosso e del marrone o da un’analisi dell’estrema destra.
– Tuttavia, non solo nel rojipardismo, ma in settori reali della sinistra –socialista democratico, post-rotskista, radicale– si è criticata l’incapacità della sinistra classica di dialogare con i settori popolari e il mondo del lavoro, così come della deriva blairista da parte della socialdemocrazia sin dai tempi della Terza Via. Ma è vero che l’hanno fatto in un senso molto diverso da quello del rojipardismo…
Una cosa è affermare che c’è qualcosa di vero nell’idea che ci siano o possano essere dimenticate persone a sinistra, e un conto è affermare, come fanno i rossi e i marroni, che questo dipende dalla sinistra che porta o difende la bandiera arcobaleno, che parla di diritti LGBTIQ, parla di uguaglianza di genere, femminismo e migranti. Questo è chiaramente un grosso errore. Vale a dire, queste lotte vanno di pari passo ed è la vita pratica che ce lo mostra. Una donna che è una lavoratrice precaria è sia una donna che un’operaia, quindi la questione della classe si interseca con quella del genere. Una straniera che lavora a raccogliere fragole a due euro l’ora è una lavoratrice agricola precaria e sfruttata, è una donna e anche una migrante, una straniera che non ha tutti i diritti di cittadina. Quindi, nella vita pratica quelle lotte si intersecano. Credo che i movimenti del 1968, interpretando il 1968 come un momento storico specifico avvenuto nell’età d’oro del Welfare State capitalista occidentale, ci abbiano fatto capire quell’unità. In questo senso, credo che la sinistra non possa separare le cosiddette lotte identitarie e le rivendicazioni materiali. Ora, che la sinistra abbia dimenticato le periferie, i precari, parte delle classi lavoratrici, è almeno in parte vero. Concordo sul fatto che l’intera questione della svolta blairista degli anni ’90 è molto importante e dobbiamo tenerne conto. Ma allo stesso tempo i dati devono essere verificati, ei dati ci dicono che non c’è stato un trasferimento di voti dalle classi lavoratrici da sinistra a destra. In alcuni paesi è successo di più, come in Francia, ma in altri non è successo affatto. In Spagna, per esempio, VOX non ha messo radici nelle classi lavoratrici, nel proletariato urbano come lo chiamavamo noi. Ha messo radici un po’ di più nel mondo rurale, ma non tanto per la questione di classe, quanto per una serie di valori che difende.
– In Italia la sinistra, storicamente rappresentata dal Partito Comunista fino al suo scioglimento nel 1991, ha avuto una tradizione che ha unito la lotta per la democrazia politica e per l’uguaglianza e la solidarietà economica e sociale senza rinunciare ai suoi riferimenti ideologici. Quel fenomeno, animato dall’idea di Togliatti della “via italiana al socialismo” e sottolineato da Enrico Berlinguer negli anni ’70, si è fermato. Cosa sta succedendo oggi con il Partito Democratico, erede della tradizione comunista, ma anche con la Democrazia Cristiana? Perché, dopo i vari cambiamenti (dal Partito Comunista al Partito Democratico di Sinistra e infine al Partito Democratico), la sinistra e il centrosinistra in Italia non riescono a trovare il loro posto? Cosa è successo alla cultura di sinistra nel paese che era il segno distintivo del meglio di quella tradizione nel mondo occidentale?
Chiaramente, gli anni ’90 sono stati difficili per la sinistra. E non voglio dire solo che erano difficili per i partiti che si definivano parte della sinistra socialdemocratica o post-comunista, ma per la cultura di sinistra più in generale. Il mondo è cambiato molto rapidamente ed è stato difficile regolare i conti con un sistema chiaramente egemonico come quello neoliberista. Non giustifico gli errori di nessuno, ma il contesto era quello: quello di un mondo in cui era finita la Guerra Fredda, in cui era decretata la fine della storia, in cui l’idea di un mondo che andava verso un crescente espansione del ceto medio. Non dimentichiamolo. C’è stata l’esplosione delle compagnie low cost, l’idea che tutti potessero andare in vacanza al Mar Rosso o ai Caraibi. Ma ci sono due fattori qui. La prima è che la sinistra ha smesso di combattere la battaglia culturale. Lei ha citato Togliatti, qualcuno che è stato molto chiaro sulle riflessioni che Gramsci aveva fatto negli anni 20 e 30. E mi riferisco non solo alla questione della guerra di posizioni o alla questione dell’egemonia, ma alla questione più specifica della cultura della battaglia intesa in senso lato. D’altra parte, le partite non sono quelle che erano all’epoca. I partiti hanno pochi iscritti e hanno poche sedi sul territorio. La cultura della sinistra comunista in Italia, ma anche la cultura socialista e socialdemocratica nel mondo occidentale, era basata sulla presenza nei territori, sull’offerta di spazi per creare comunità. Questo non c’è più, ma non solo per una sorta di abbandono della sinistra, ma anche per trasformazioni dei sistemi politici. Se guardiamo alla storia d’Italia nel 20° secolo, ci accorgiamo subito che anche la Democrazia Cristiana, il partito di governo, aveva forti radici nel territorio, collegandosi, ovviamente, con la cultura cattolica e con le parrocchie. Il Partito Comunista aveva il sindacato, le associazioni culturali e sportive, aveva i suoi partiti L’Unità ¨[il giornale storico del PCI]. Chiediamoci: chi scandisce ora il pensiero della sinistra italiana? Cosa è stato pubblicato, cosa è stato scritto negli ultimi 15 anni che è rimasto e che è importante?
Poi, come questione più propriamente italiana, sicuramente il Pd è una fredda fusione di due culture diverse: quella comunista e quella democristiana. È un partito senza identità e questo è qualcosa su cui alcuni dei suoi dirigenti più lucidi hanno ben chiaro, al punto che ora, dopo i risultati di domenica scorsa, si pone la questione di un futuro congresso di partito dove, come ha detto lo stesso Enrico Letta , il Pd dovrà definire non solo chi sarà il suo prossimo leader, ma anche identità e orientamento. Può essere solo il partito della responsabilità gestionale, che è una grande parte dell’immagine che gli italiani hanno di lui? O deve essere qualcos’altro? Qui sta la domanda.
* Mariano Schuster è un giornalista. È l’editore della piattaforma digitale Nueva Sociedad. È stato redattore capo delle pubblicazioni socialiste argentine La Vanguardia e Nueva Revista Socialista. Collabora con media come Letras Libres e Le Monde diplomatique, tra gli altri. È coautore di Mario Bunge e Carlos Gabetta (comp.): Il socialismo ha un futuro? (Eudeba, Buenos Aires, 2013).
Steven Forti