L’arte della dissimulazione l’ha tradotta in pratica ieri Ignazio La Russa nel suo discorso di saluto a quel Senato della Repubblica che l’aveva appena eletto presidente. La plasticità iconica del passaggio di consegne tra la deportata ad Auschwitz e l’erede mai pentito del postfascismo italiano è stata la premessa essenziale per svelare il sottotraccia delle parole della nuova seconda carica dello Stato.

Mentre la senatrice Segre restituisce alla Camera Alta il carattere che le deve essere proprio, quello di una assemblea “tempio della democrazia“, La Russa la precipita immediatamente dopo nella irragionevolezza moderna di una rivendicazione costante, lungo tutto l’arco del settantennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, per la teorizzazione della “memoria condivisa“, della “pacificazione nazionale“, del reciproco riconoscimento tra antifascismo e postfascismo.

Siamo all’apice mai raggiunto prima dall’estrema destra che, nel portato simbolico della fiamma tricolore, pur senza più la bara di Mussolini a farle da altare nel simbolo di Fratelli d’Italia, può far echeggiare in un’aula non ancora sorda e grigia le parole d’ordine del revisionismo storico.

A partire dalla formale condivisione della totalità delle parole di Liliana Segre fino alla citazione dei tempi del terrorismo nero e rosso, della morte del commissario Calabresi (senza citare la strage di piazza Fontana e quell’Ordine nuovo che l’aveva preparate e messa in atto) ad uno sciorinamento di date che, nel nuovo corso della vita repubblicana, dovrebbero includere come festa nazionale anche la fondazione del Regno d’Italia.

E’ un discorso, quello di La Russa, che si fa proemio di una presidenza che si annuncia come incardinata formalmente nel galateo istituzionale ma che, un secondo dopo, non tradisce affatto i suoi ben marcati tratti antichi di un postfascismo portato fin sullo scranno più alto del Senato.

Levati gli ipocriti imbellettamenti e le barocche infiorettature per renderlo accettabile alla stragrande maggioranza dell’assemblea che l’ha appena votato e che lo ha eletto, nonostante la defezione di Forza Italia e grazie al soccorso di benevoli franchi tiratori in positivo della presunta opposizione, Ignazio Maria Benito La Russa coraleggia un ecumenismo a tratti commovente per tanta dissimulata propensione alla causa dell’interpretazione fedele del ruolo che gli è affidato.

Su di lui si è giocata anche una prima partita di tenuta della futura maggioranza di governo: lo sa e, probabilmente, lo teme anche. Perché gli scricchiolii si sentono dentro ciò che resta del partito berlusconiano e al di fuori di esso, quando si tratta di prospettare ciò che sarà alla Camera dei Deputati il giorno dopo (ossia oggi) per l’elezione del suo presidente.

A Berlusconi va bene che il centrodestra si mostri a Palazzo Madama come erede del postfascismo e a Montecitorio come alfiere dei pro-vita e del vandeanismo ultracattolico e conservatore amico tanto di Alba Dorata quanto di Vladimir Putin. La preoccupazione del Cavaliere nero di Arcore ormai non è più quella di essere quel primus inter pares d’un tempo, dominus e pater familias allo stesso tempo di una vasta area moderata ed estremista, conservatrice e sovranista.

Con una Forza Italia che, molto probabilmente, chiude il suo ciclo quasi trentennale in questa XIX Legislatura, quello che serve mantenere sono delle posizioni di opportunità (e ovviamente anche di tanto opportunismo) per non essere costretti a sparire prima del tempo sotto il peso del nuovo corso meloniano della destra o, peggio, tra le spire del neocentrismo di Calenda e Renzi, di Toti e Lupi.

Sono due le Italie che si confrontano dall’alto della Presidenza del Senato della Repubblica. E’ innegabile, è oggettivamente visibile, ininterpretabile. Quella di Liliana Segre e quella di Ignazio Maria Benito La Russa.

Quella della bambina deportata ad Auschwitz, che vede allontanarsi il padre verso le camere a gas, e quella del giovane della destra militante missina, ferocemente nemica di una democrazia nata dalla Resistenza e per la quale i neofascisti (o postfascisti che dir si voglia) hanno sempre sognato, cercato e ora tenteranno di mettere in pratica una controriforma della Costituzione che svuoti il Parlamento del suo ruolo chiave e crei un asse tra governo e Quirinale per farne uno Stato presidenzialista.

Dietro ogni parola del discorso della senatrice Segre c’è l’intento di proteggere la Repubblica da questi eccessi e mutazioni genetiche, di tutelare la Costituzione, proprio come “amica della gente“, di preservare i valori dell’unica religione civile dello Stato: l’antifascismo.

Dietro ogni parola del discorso di La Russa c’è, ammantato dalla cortesia del bon ton istituzionale, il proponimento di fare tutto quanto gli sarà possibile, anche come Presidente del Senato, per cambiare questa cultura, questa deontologia laica di una memoria e di una attualità della stessa che è stata, almeno fino ad oggi, il carattere irreprensibile dell’Italia democratica.

Quasi tutti i tentativi importanti di alterare la seconda parte della Costituzione, facendo su questa leva un domani per cambiare anche la prima parte, sono stati fermati dalle consultazioni referendarie.

Il dimezzamento del numero dei parlamentari è invece passato sull’onda di un sacro furore populista pentastellato, sostenuto dal PD e da quasi tutto l’arco politico precedente (non poi molto differente da quello attuale), preso dal timore che, a dire di NO, si sarebbe rischiato un tracollo di consensi elettorali.

Ne hanno persi a valanghe anche senza sforzarsi di difendere ancora una volta la centralità del Parlamento e il suo carattere di esclusività inclusiva, di rappresentante della volontà e della sovranità popolare, di un rapporto con i territori che viene e verrà sempre meno visto come la legge elettorale (sempre voluta dal PD e votata da larghissima parte del centrodestra) si è rivoltata contro i proponitori e ha fomentato uno iato enorme tra elettori ed eletti.

La corrosione della democrazia non è attribuibile esclusivamente alla pur evidente bravura delle destre nel manipolare le coscienze, nel cavalcare le problematiche più impattanti sulla vita delle singole persone e delle collettività.

Il corollario che ha sostenuto questo capovolgimento del senso comune, quella solidarietà diffusa che era stata messa in pratica dalla sinistra comunista e socialista dal dopoguerra in avanti, è la pretesa di governare “da sinistra” i processi liberisti della globalizzazione con i loro riflessi nazionali e continentali.

Dal riformismo dell’ultimo PCI e del PDS si è passati, di legislatura in legislatura, ad una accettazione dei dogmi mercatisti, lasciando sempre più sullo sfondo le ragioni del lavoro, del disagio sociale, del sopravanzare inevitabile – proprio perché sostenuto a maggior ragione da forze presuntuosamente “progressiste” – di quelle tutele di pochi, di quelle privatizzazioni che, spacciate per il grande affare del futuro del Paese, sono diventate la tomba del pubblico, dei beni comuni e degli investimenti conseguenti sul piano economico.

Ignazio Maria Benito La Russa alla Presidenza del Senato della Repubblica, Lorenzo Fontana a quella della Camera dei Deputati e Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, sono il trittico che esprime di per sé la fisiognomica politico-programmatica di una destra rude prevaricatrice sottotraccia, mascherata da buona e responsabile destra di governo per governare i processi più pragmatici di una Italia che rischia di diventare, agli occhi dell’interessata e liberista Unione Europea, un osservato speciale al pari di Polonia e Ungheria.

Non si tratta di essere amici del nemico del nostro nemico, ma di saper riconoscere tutte le tentazioni eversive, costrette al carsismo dagli appuntamenti del PNRR e dalla contingenza interna ed estera che apre sempre più a scenari di crisi multiformi e sincretiche.

Si tratta, invece, dare corso ad un autonomo percorso di ricomposizione di un vero progressismo italiano che smascheri nei fatti, e non solo con le belle parole di analisi verbose, l’inconsistenza attuale di un centrosinistra evanescente, di un PD che ha smarrito la sua duplice identità fondata sull’indistinzione, sull’impercepibilità come forza popolare e del lavoro da un lato, come forza liberista e delle imprese dell’altro.

La nostra Italia, va da sé, è e rimane quella di Liliana Segre, davvero in ogni singola parola che ha pronunciato e che, in tutta probabilità, rimarrà l’unico tratto degno di nota e di positività di questa XIX Legislatura della Repubblica italiana.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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