Abbiamo intervistato il giornalista Alberto Fazolo sull’attuale fase politica. Guerra, politiche neoliberiste, governo di estrema destra e assenza di un forte e unitario partito comunista. In questa situazione i comunisti devono impegnarsi per sostenere e promuovere lotte di massa e accumulare forze per la costruzione del partito.

 di Adriana Bernardeschi  

D: Ci troviamo all’apice della crisi del modello di sviluppo capitalista, una crisi strutturale a quel sistema economico che come già successo in passato trova la sua remissione (sempre temporanea) attraverso politiche di guerra (palliativo della sovrapproduzione) e attraverso la messa in scena della faccia “cattiva” del capitalismo, quella delle destra eversiva in grado di minare il sistema democratico per raggiungere i suoi scopi di massacro sociale. Di fronte a questo scenario, le recenti elezioni politiche hanno dato conferma della complessiva debolezza delle forze che si propongono di superare questo sistema in senso progressista, e del prendere vigore invece di quelle reazionarie e postfasciste, che raccolgono il malcontento popolare sempre più disorientato perché troppe volte tradito da chi avrebbe dovuto rappresentarlo. Quali sono stati, a tuo parere, gli errori più cruciali della sinistra di classe che hanno condotto a questo risultato di estrema debolezza?

R: Secondo me sono stati fatti degli errori sia di metodo che di merito, e alcuni errori sono un po’ a metà strada fra merito e metodo. Analizzare gli errori è un passo necessario per potersi migliorare risolvendoli e non ripetendoli in futuro. Secondo me il primo gravissimo errore di metodo è stato quello di accettare le regole del gioco imposte dall’avversario, e l’avversario in questo caso è lo Stato nelle sue massime espressioni, quindi Mattarella e Draghi, che hanno imposto delle elezioni in un momento in cui non ce n’era assolutamente bisogno, perché Draghi aveva comunque un’ampissima maggioranza parlamentare che gli consentiva di guidare un governo senza nessuna apprensione. Badate bene che Mattarella ha deciso di sciogliere le camere avendo alle spalle due trascorsi di situazioni in cui davvero non c’era la maggioranza parlamentare per andare avanti e in cui lui si è rifiutato di andare al voto. Quindi, sostanzialmente, il problema principale è di aver accettato di raccogliere le firme nel periodo estivo, cosa che ha dissanguato le piccole organizzazioni favorendo i partiti già presenti in parlamento, questo accompagnato anche da un malizioso cavillo formale che impediva alle scissioni di vari gruppi di non raccogliere le firme. Il condurre una campagna elettorale nel pieno dell’estate ha favorito i partiti già noti e non ha consentito a coalizioni neonate di farsi conoscere per tempo. Si tratta di un fatto che era evitabile perché semplicemente dettato dal calendario, un fattore “meccanico” in un certo senso, e non imputabile alle azioni messe in campo, alle capacità organizzative e comunicative delle persone; quindi aver accettato la calendarizzazione imposta dal potere ha messo da subito i partiti di opposizione in un angolo.

Un altro grave errore di metodo – un errore classico, che abbiamo visto riproporsi in tante occasioni negli ultimi anni se non decenni – è stato far passare le scelte sopra la testa delle persone e dei compagni, dei militanti, fatto che non funziona e alla lunga non paga, e soprattutto porta all’indebolimento delle organizzazioni perché genera un senso di frustrazione nei compagni e nei militanti che si trovano a dover rispettare magari per centralismo democratico delle scelte che però di democratico hanno ben poco perché non sono passate attraverso il dibattito all’interno dell’organizzazione.

Un altro errore, anche questo abbastanza classico, è di non aver ben chiara la differenza tra azione e organizzazione, errore che si riflette nel problema di fondo di capire se quelle che si mettono in campo sono liste, coalizioni elettorali, oppure partiti. Soltanto nell’ottica prettamente parlamentaristica il partito è la stessa cosa di una lista elettorale, mentre in un’ottica più puramente politica le due cose sono distinte, possono accavallarsi ma non sono necessariamente la stessa cosa, e quindi rimuovere questa distinzione secondo me va a inficiare parzialmente la capacità di azione.

Per quello che riguarda il merito, innanzitutto, a mio avviso, c’è stata poca chiarezza nei programmi elettorali. Ciò è imputabile da un lato a una serie di compromessi che ciascuno ha dovuto fare per formulare i propri programmi, dall’altro a un problema atavico: l’incapacità per molti di distinguere tra un programma politico e un programma elettorale. Il programma politico è sostanzialmente un progetto da portare avanti nel complesso come azione politica, quindi il tentativo di trasformazione dell’esistente, mentre il programma elettorale è ciò che si vuole ottenere in una certa tornata elettorale, quindi deve essere limitato solo a ciò che è di competenza dell’organismo che si va a eleggere e deve essere necessariamente tarato sulle prospettive di consenso che si possono raccogliere. Detto brutalmente, se una forza politica partecipa, per esempio, alle elezioni comunali e pensa di poter prendere il 3%, o quantomeno tutti i sondaggi dicono che prenderà il 3%, è inutile che si metta a fare proclami sulla sua capacità attraverso le elezioni e la vittoria elettorale di poter fermare la guerra o interagire su questioni di natura internazionale.

Un altro elemento critico è legato al metodo di composizione delle liste, che spesso scavalca i militanti e il necessario dibattito e confronto. Può sembrare soltanto una questione di agibilità politica, ma è anche un aspetto di contenuto e questo riguarda soprattutto il fatto che spesso troviamo nelle liste elettorali dei personaggi già ampiamente ripudiati dalle masse popolari, caratterizzati da opportunismo e ambiguità politica, che utilizzano le elezioni, magari tramite qualche scorciatoia, per potersi riproporre. Ciò sicuramente non aiuta le masse popolari ad avvicinarsi al voto.

Infine, un altro aspetto fondamentale di cui tener conto è quello della discriminante antifascista. Trovare componenti fasciste sia come persone sia come forze organizzate all’interno di alcuni movimenti che si propongono anche al nostro panorama politico non è accettabile.

D: Oltre agli errori tattici di fronte a questa scadenza elettorale, secondo te quali sono stati gli errori anche più atavici che hanno portato alla frammentazione e debolezza in cui già la sinistra si trovava prima che venissero indette queste elezioni?

R: L’errore più evidente e palese è quello del settarismo, che a mio avviso non è così facile da ricomporre e che è alimentato da una diffidenza reciproca e da una serie di scottature che hanno caratterizzato l’azione politica negli ultimi anni. Bisogna aggiungere che c’è un’incompatibilità fra alcuni dirigenti e che questi dovrebbero capire quando è arrivato il momento di farsi da parte, perché se la loro presenza diventa un ostacolo alla crescita delle proprie organizzazioni e del movimento nel suo complesso, forse significa che è il momento giusto per mostrare grande maturità e senso del dovere anche come militanti politici e decidere di fare un passo non necessariamente indietro ma di lato, rinunciare alle posizioni apicali per dedicarsi magari ad altro. Si tratta di compagni con una grandissima esperienza, e le loro competenze non devono essere buttate alle ortiche ma possono essere messe a frutto e valorizzate in un’altra maniera. Chi guida le organizzazioni deve confrontarsi quotidianamente con i leader delle altre, e quindi è necessario che questi leader non abbiano degli arretrati, delle situazioni di astio che possono inficiare la cooperazione. Per questo secondo me può essere utile trovare degli interlocutori che non siano necessariamente appartenenti a generazioni che hanno maturato odi reciproci, conflittualità non facili da sanare. Chi ha qualcosa – spesso a tratti anche personale – che impedisce il pieno sviluppo dell’attività politica, dovrebbe decidere di lasciare la gestione delle organizzazioni a chi non ha di questi vincoli.

D: Alla luce degli elementi che hai evidenziato, come si può impostare un ragionamento sul da farsi, alla luce di quegli errori? In che modo si può concretamente affrontare il problema del settarismo divisivo e della conseguente impotenza e autoreferenzialità dei piccoli partiti comunisti? Da dove potrebbe partire, secondo te, una ricomposizione delle forze che si collocano in opposizione alle larghe intese che sostengono il grande capitale transnazionale? A quali settori politici occorre allargare il fronte di lotta, perché questa possa essere incisiva?

R: Anche qui vorrei partire da una questione di metodo. Innanzitutto, il metodo principale che noi dobbiamo sempre usare nell’azione politica è quello indicatoci da Mao di “critica e autocritica”, fondamentale per poter apprendere dagli errori e migliorarci. Peccato però che negli ultimi – molti – decenni in molte organizzazioni non si è mai fatto un vero bilancio delle esperienze trascorse. Siamo un paese che non ha fatto un bilancio collettivo sugli anni Settanta. Ma non è stato fatto neanche un bilancio sul fallimento dal grande partito comunista e degli altri partiti, come non è stato fatto un bilancio della fase successiva, del grande contenitore di Rifondazione, che è stato un’esperienza a mio avviso molto positiva negli anni Novanta e che è stata davvero in grado di incidere sul reale, non tanto nella sua partecipazione al governo nazionale – che forse è stata la parte più debole dell’esperienza – quanto per l’esperienza di gestione locale sui territori, dove è riuscita a dare un segno molto positivo in tante realtà soprattutto periferiche.

Quindi la questione principale è affrontare i problemi, perché una delle tare grosse della politica è che i leader preferiscono parlare sempre dei successi – sempre più rari e sempre più piccoli – delle proprie organizzazioni e invece non parlare mai delle criticità, e quindi non le affrontano. Secondo me, questo è il modo migliore per far incancrenire le organizzazioni. Bisogna tornare a una prassi, anche questa valida non solo in politica ma in qualsiasi manifestazione delle organizzazioni umane, che è il principio che chi sbaglia si fa da parte. Se qualcuno ha sbagliato e continua a portare avanti una politica sbagliata, e non vede la possibilità o non vuole cercare la possibilità di migliorare e di rettificarsi, non può perseverare nell’errore. A me pare, invece, che ci troviamo di fronte a organizzazioni che da decenni perseverano negli stessi errori.

Cosa dobbiamo fare quindi in questa fase? Ovviamente la questione principale è l’accumulazione di forze. Siamo così deboli che non possiamo partire da null’altro che non sia questo. La fase, dal punto di vista dell’analisi e delle indicazioni forniteci da Marx, è a mio avviso eccellente, perché ci sono la crisi, il malcontento popolare, le guerre, quindi tutte le condizioni migliori per impostare un’azione rivoluzionaria. Dunque, come prima cosa dobbiamo cercare di intercettare il malcontento che sta crescendo per la crisi economica, malcontento che si manifesta non più soltanto nella classe dei lavoratori propriamente detta ma in tutte le nuove forme di sfruttamento, come per esempio chi è costretto a lavorare sotto partita iva o a diventare “imprenditore di se stesso”, da non considerarsi “padrone” nell’accezione classica bensì sfruttato che il sistema economico e politico attuale ha costretto ad autorganizzarsi per sopravvivere e trovare un reddito.

Sono queste le forze che dobbiamo intercettare, intercettare questo malcontento, per poi politicizzarlo e indirizzarlo verso la comprensione delle vere cause della crisi, cercare di fare prendere coscienza di esse e della loro situazione di oppressione.

E secondo me, la causa principale va cercata nella guerra e nelle politiche imperialistiche dei paesi del blocco occidentale, Stati Uniti in primis e a ricasco Unione Europea. Due blocchi, anzi forse un blocco imperialistico e un sottoblocco, che sono in una profonda crisi dalla quale possono uscire soltanto con la guerra. Va fatto capire alle masse popolari che questa è la causa del problema. Tenuto fermo che il problema si risolve a monte – la crisi del capitalismo a mio avviso si risolve superando il capitalismo –, nel concreto si deve cercare da subito di spingere le masse popolari a prendere coscienza della necessità di uscire dalla logica bellicista che il sistema capitalistico in crisi cerca di imporci.

Questo è dunque il bacino da cui attingere, ma bisogna anche qui tenere ferma, non mi stancherò mai di ripeterlo, la discriminante antifascista. Quando si fa accumulazione di forze è facilissimo trovare anche realtà che non sono compatibili con il nostro percorso di lotta. Un conto è rapportarsi a un sottoproletario con tendenze fascistoidi, altro conto relazionarsi a forze organizzate che si manifestano a partire da qualcos’altro, e qui il riferimento esplicito è a all’ultimo tentativo che abbiamo visto proprio in questi giorni da parte di Forza Nuova di riciclarsi in un qualcosa di diametralmente opposto.

Un altro fatto da tenere presente è che come primo passo è molto meglio cercare di fare battaglie e non puntare subito a costruire delle organizzazioni. Non si tratta di movimentismo, di voler di tenere tutto a un livello di autorganizzazione per non prendersi responsabilità, bensì del fatto che nella fase attuale non viene fatto quanto abbiamo esposto prima, all’interno delle organizzazioni, e ci troviamo di fronte a un’impossibilità oggettiva di unire seriamente le lotte e le rivendicazioni in un unico fronte. Nel frattempo, finché non si riesce a fare quel passo in più, non si può stare con le mani in mano, bisogna comunque agire. Dopo aver cooperato nelle lotte, aver preso le misure reciproche, aver capito chi è sinceramente coinvolto nelle battaglie e chi lo fa per opportunismo, a quel punto si può eventualmente pensare di fare altro, costruire partiti, organizzazioni, ma prima di tutto dobbiamo agire. La fase è delicatissima, non possiamo più perdere tempo, non possiamo stare con le mani in mano, quindi il mio invito è a individuare delle battaglie, concentrarsi su quelle e da quelle poi eventualmente costruire altro.

D: Nell’attuale rapporto di forza fra le classi sociali, l’ideologia dominante punterà a normalizzare e naturalizzare il nuovo governo di destra. In che modo costruire un’opposizione anche sul piano sovrastrutturale a questa deriva culturale, che in un circolo vizioso alimenta il consenso alle forze regressive ed eversive?

R: Secondo me ci sono vari tipi di fascismo. C’è il fascismo del partito unico liberale, che è quello che ci ha governato in questi anni e che fa capo ai grandi centri di potere sovranazionale. C’è il fascismo del deep state reazionario, che abbiamo visto manifestato soprattutto nei decenni passati, con tentativi eversivi o comunque di organizzare attività che fossero di contrasto e repressione ai movimenti progressisti. Poi c’è quello che potremmo chiamare neofascismo, quello delle organizzazioni di lotta di stampo fascista ma di fatto solitamente terzaposizionisti, rossobruni o quant’altro. C’è anche un fascismo di tipo folcloristico, quello che si mette il fez e fa le sfilate, che forse è il più grottesco e patetico. Ci sono anche altre forme di fascismo, però quello esposto è il ventaglio di tipi di fascismo con i quali più verosimilmente ci dobbiamo confrontare. Questi tipi di fascismo convivono nel nostro paese ormai da tanti anni e non ci sono grosse accelerazioni da parte di nessuno, tolto ovviamente il fascismo del partito unico liberale che sostanzialmente da una ventina di anni ha il dominio assoluto della scena politica.

L’elemento di novità che possiamo vedere dopo queste ultime elezioni è che potrebbe esserci una qualche forma di saldatura fra diversi tipi di fascismo, e questa saldatura potrebbe creare qualcosa che noi ora non riusciamo a immaginare. Non penso che ci manderanno al lavoro con le camicie nere o rifaranno i balilla, però ci sono tanti elementi di preoccupazione che non dobbiamo sottovalutare. L’elemento di preoccupazione più grande, però, è la nostra incapacità di immaginare lo scenario. Non abbiamo ancora gli strumenti per capire cosa avremo di fronte e quindi ancora non siamo in grado di formulare una proposta di lotta, un programma di lotta, perché non sappiamo fare un’analisi della situazione reale. Questo è un limite gravissimo.

Dobbiamo poi tenere presente che il governo Meloni potrebbe avere una vita molto breve. Io sono dell’idea che la Meloni abbia voluto prendere il governo per ottenere una patente di agibilità politica che come postfascista non aveva, e ci è riuscita, anche perché il centrosinistra non ha voluto vincere queste elezioni. Quindi secondo me la Meloni avrà poco tempo per imprimere un corso diverso alla vita politica del paese, ma non così corto da non poterlo in parte condizionare. In seguito si tornerà probabilmente a una qualche forma di tecnocrazia di stampo forse ancora più reazionario, ma quello che dobbiamo avere bene presente è che sulle politiche generali, le politiche economiche, le questioni strategiche, come anche la guerra, non ci sarà tanta differenza tra il governo precedente, anzi i governi precedenti, e quello che si prefigura adesso o che lo seguirà: saranno sostanzialmente tutti quanti la stessa cosa, governi manovrati da altrove.

Quello su cui questa saldatura potrebbe incidere in una maniera davvero preoccupante sono degli aspetti se vogliamo secondari, ma che nel lungo periodo diventano determinanti: penso al revisionismo storico che può portare per esempio la revisione dei programmi scolastici e quindi la riscrittura della storia per quello che riguarda il ventennio fascista, l’esperienza coloniale, la guerra, e la questione del confine orientale, mai risolta e su cui le forze che sono salite al governo in questo momento hanno sempre tenuto particolarmente. Ma anche tutto il discorso della memoria nel suo più ampio complesso può essere rivisto. Altro argomento che mi preoccupa molto già dalle prime affermazioni fatte dalla Meloni è quando dice che vuole fare come la Polonia: capiamo cosa hanno fatto in Polonia, perché se ci si limita alle politiche economiche o all’atteggiamento sulla guerra è un conto, se invece si volesse arrivare anche al tema dei diritti delle donne – pensiamo alle orribili politiche in tema di aborto che ci sono in Polonia – allora c’è davvero di che preoccuparci.

Tutto questo, comunque, potrebbe essere superato in gravità da un provvedimento molto semplice da adottare e che secondo me la Meloni potrebbe provare a realizzare: la recezione della risoluzione del parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo. Se questo dovesse succedere, l’agibilità politica di noi comunisti sarebbe sicuramente compromessa e quindi andremmo incontro a tutta quella serie di normative che adesso limitano – sebbene poco – l’agibilità dei nazisti.

In tutto questo quadro noi dobbiamo capire quali sono le vere forze eversive, perché secondo me non si può considerare eversiva soltanto la destra postfascista. La vera forza eversiva è il partito unico liberale che ha svuotato il parlamento di ogni potere, ha condizionato la vita politica di questo paese e ne ha plasmato le istituzioni tanto da arrivare al punto in cui ci troviamo adesso, con il potere decisionale affidato a degli organismi sovranazionali. Si comanda probabilmente a Bruxelles o a Washington, nei comitati d’affari della borghesia, nei consigli di amministrazione delle grandi società o quant’altro.

Quindi cosa possiamo fare, visto che le elezioni servono a poco, per cambiare questo stato di cose? Perché appunto, anche se riuscissimo a raggiungere la maggioranza in parlamento, se questo è svuotato di poteri non riesci ad imporre un cambiamento. Secondo me la cosa più importante è la presa di coscienza collettiva che si fa attraverso un lavoro sociale e soprattutto culturale. In quest’ottica diventa fondamentale la formazione. È fondamentale per noi, ma lo hanno capito anche gli avversari, infatti il primo terreno di scontro sarà sulla scuola, sulla formazione dei giovani all’interno di questo paese. La battaglia che dovremo fare sarà per cercare di strutturare noi dei percorsi di formazione, ma anche di cercare di resistere ai tentativi di riforma che possono portare a un profondo revisionismo all’interno delle strutture educative del nostro paese. La forma che può essere trovata da questo punto di vista è un’alleanza stretta tra le forze studentesche di ogni ordine e grado, le forze politiche e i movimenti politici, e dall’altro cercare di trovare una qualche forma di presa di responsabilità da parte di qualcuno che si prenda carico di fare un lavoro di formazione collettivo, lavoro di formazione che può essere anche facilmente agevolato dalle moderne tecnologie, cosa che noi compagni non siamo assolutamente abituati a utilizzare nel pieno delle loro potenzialità. Anche su questo sicuramente potremmo prendere spunto dai giovani che hanno più dimestichezza con questi strumenti.

D: Una delle nostre convinzioni maggiori è che un mutamento sia possibile soprattutto a partire dal conflitto sociale dal basso. Riguardo a questo aspetto, la circostanza che di fatto tutti i principali sindacati si trovino adesso all’opposizione, può secondo te rappresentare un’occasione propizia per rilanciare le lotte e il loro radicamento?

R: Quando parliamo di sindacalismo, prima di distinguere tra le sue varie forme, bisogna secondo me guardare alla più generale crisi del sindacato. Il sindacato a mio avviso soffre il fatto di non essere riuscito – nessun sindacato – a adeguarsi al mutamento del mercato del lavoro. Questa è una valutazione che si fa partendo dall’analisi reale della situazione reale, quindi dall’analisi di chi sono gli iscritti al sindacato. Perlopiù nei vari sindacati la maggior parte degli iscritti non sono la porzione più rappresentativa del mondo del lavoro. Anzi, se guardiamo a sindacati più strutturati e di più antica data come i confederati vediamo che il 50% circa degli iscritti sono pensionati, quindi non lavoratori, e per il restante 50% la quasi totalità sono dipendenti pubblici, poi metalmeccanici e lavoratori agricoli. Quindi il grosso dei lavoratori di questo paese non è più rappresentato dal sindacato perché il numero complessivo degli iscritti al sindacato ne è la più palese testimonianza. Se quindi il sindacato non riesce a intercettare in maniera diversa – il sindacalismo di base uno sforzo lo sta facendo con anche alcuni risultati – il mutamento del mercato del lavoro, sicuramente non riuscirà a essere rappresentativo della società.

Tu dicevi che i sindacati si trovano adesso tutti all’opposizione. Secondo me questa affermazione potrebbe essere vera in una primissima fase, ma non lo sarà successivamente, perché i sindacati di base sono all’opposizione ed è ovvio che resteranno all’opposizione facendo quello che hanno fatto in questi anni tra crescenti difficoltà, dato che il livello repressivo del potere potrebbe aumentare e l’arroganza dei datori di lavoro potrebbe non conoscere più limiti ricevendo carta bianca da parte del governo. Sui sindacati confederali io non sarei così convinto che rimarranno sempre all’opposizione, ammesso e non concesso che già adesso siano all’opposizione, perché, a prescindere dall’UGL che non è confederato, potrebbero esserci delle intese che al momento ci sfuggono.

E poi bisogna inquadrare, come dicevo prima, i fatti in una più ampia fase di domino del partito unico liberale, quindi ci sono degli organismi che condizionano i sindacati confederali e che condizionano il governo alla stessa maniera. Le decisioni sono prese altrove e non penso che ci siano margini per poter aprire una conflittualità tra di loro. Tuttavia, c’è anche un’altra possibilità, di facciata e non di sostanza, che noi abbiamo già visto in qualche misura nella manifestazione di sabato scorso (corteo della CGIL dell’otto ottobre): quella che i confederati cerchino in qualche misura di rifarsi una verginità facendo finta di non avere responsabilità nel corso disastroso delle politiche sociali e del lavoro degli ultimi anni e provino a cavalcare il malcontento popolare e le proteste dei lavoratori. Questo va assolutamente impedito, vanno arginati tutti i tentativi di riciclaggio da parte di certi personaggi e certe organizzazioni e bisogna organizzare le masse popolari su temi centrali dello scontro politico, cercando di tenere fuori tutte queste realtà. Una volta organizzate le masse popolari, una volta mobilitate le maggiori forze possibili sui temi centrali a loro più cari, il lavoro che si deve fare è tentare di intercettare l’avanguardia per portarla a un livello superiore e fargli fare un lavoro politico. Però, appunto, questo deve essere basato su una chiarezza di tipo ideologico e chi è responsabile del disastro attuale – li conosciamo da anni, sappiamo che sono pronti a riciclarsi in una nuova ipotesi leggermente più moderata di governo – deve essere messo da parte e non coinvolto nelle lotte popolari. 

D: Infine, per ultimo ma non per importanza, puoi spiegarci come nasce e quali obiettivi si prefigge l’Assemblea antifascista da te promossa e che ha avuto una grande partecipazione all’indomani delle elezioni?

R: Il prossimo 28 ottobre ricorre il centenario della presa del potere politico da parte del fascismo. Io sono sempre par guardare non soltanto agli aspetti negativi delle cose ma anche a quelli positivi e quindi bisogna rivendicare con forza il fatto che sono cento anni e anzi più, perché sono almeno centouno gli anni, di resistenza antifascista, di lotte antifasciste che hanno attraversato in lungo e in largo il nostro paese e ci hanno visto protagonisti anche di scontri in altri paesi – penso a quanto è stato fatto nella guerra di Spagna o nelle resistenze in giro per l’Europa e per il mondo. Questo è il motivo per cui come antifascisti, in diverse organizzazioni e diverse realtà, abbiamo sollecitato la necessità di fare una mobilitazione antifascista, legata alla fase storica. Questa valutazione è stata fatta nei mesi scorsi, prima ancora dell’ipotesi di un cambio di governo.

Con le elezioni e il loro disastroso risultato, con le possibili accelerazioni che si prefigurano, questa scadenza ha assunto ancora di più un valore di tipo politico perché è la prima volta che verosimilmente l’incarico verrà affidato a un esponente della destra postfascista, e questo incarico paradossalmente potrebbe cadere proprio nei giorni del centenario della marcia su Roma.

Questa questione si inserisce anche all’interno di una più ampia e complessa situazione internazionale sicuramente non positiva, perché la deriva reazionaria è diffusa un po’ in tutto il mondo, l’accentramento del potere nei poli imperialistici tradizionali è sempre più evidente – soprattutto in quello statunitense e a ricasco quello europeo, che però sconta le aggressioni di quello statunitense – e abbiamo anche visto un ritorno in ampia scala del fascismo vero e proprio, quello tradizionale, in paesi come l’Ucraina dove i fascisti sono in grado di condizionare il governo e determinare il corso di una guerra.

Per tutti questi motivi si era deciso di fare una manifestazione, un presidio, da fare in un luogo simbolo del fascismo per rimarcare la propria ferma posizione antifascista, e quindi ci si era orientati su Piazza Venezia a Roma. Andando a chiedere il permesso per la manifestazione, ci si è resi conto che bisognava dividere la piazza con il calendario già in essere che vedeva la piazza impegnata il 29 mattina e il 30 mattina – quindi i giorni con cui si concluse la marcia su Roma, che partì il 28 ottobre 1922 e terminò il 30 con la consegna dell’incarico a Mussolini di formare il nuovo governo – in quanto era prevista una parata militare. Da ricerche portate avanti dai compagni abbiamo scoperto che questa parata è stata indetta dall’UNUCI, un’organizzazione di ufficiali in congedo, che per la prima volta dal dopoguerra ha ottenuto il permesso di festeggiare il suo sodalizio con un’adunata nazionale. Ciò è particolarmente fuori luogo innanzitutto per la scelta dei giorni, quelli del centenario della marcia su Roma, e anche per via del soggetto che ha avanzato questa richiesta: l’UNUCI nasce subito dopo la marcia su Roma; il primo atto formale, la consegna della bandiera, avviene il 4 novembre, però i reduci sono stati sostanzialmente la spina dorsale degli squadristi che marciarono su Roma. Come se non bastasse, questa organizzazione, l’UNUCI, nei primi anni di vita era a libro paga delle camicie nere, quindi sostenuta, indirizzata e guidata dalle camicie nere. Che loro festeggino la loro prima adunata nazionale dal dopoguerra proprio nei giorni del centenario della marcia su Roma e proprio a Piazza Venezia è un fatto che lascia troppi margini di ambiguità, quindi pensiamo che debba quantomeno essere rinviata ad altra data.

A prescindere da ciò, noi comunque faremo il nostro presidio antifascista il 29 pomeriggio che può essere anche un terreno di convergenza della diaspora comunista o della diaspora di classe, di tutte le forze di opposizione, che sono uscite smarrite dalla fase politica e stentano a organizzarsi. Proprio per questo motivo si è puntato a far sì che quello per il centenario della marcia su Roma non sia il tentativo di costruire una qualche forma organizzativa, che quindi potrebbe inficiare già sul nascere la realizzazione del percorso, ma far sì che sia soltanto un’azione estemporanea limitata nel tempo al centenario della marcia su Roma, che poi si scioglierà. Tuttavia, l’accumulazione di forze non andrà perduta perché se si constaterà che il modello ha funzionato, che il tipo di attività impostata in quella maniera, quindi il metodo di lavoro, è stato corretto, si potrà poi replicare tanto sul piano dell’antifascismo quanto sul piano di altre battaglia che si potranno intavolare in futuro. Quindi a mio avviso questa esperienza può essere vista come un laboratorio politico per cercare di sperimentare formule di lotta che si possono mettere in campo nei giorni a venire

https://www.lacittafutura.it/interni/intervista-ad-alberto-fazolo-i-compiti-dei-comunisti-in-questa-nuova-fase-politica

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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