Il Governo Meloni non ha ancora preso forma, ma il contenuto reazionario della sua agenda è stato, sin dai primi giorni della campagna elettorale, orgogliosamente sbandierato ai quattro venti. In piena continuità con i precedenti governi, il programma della prima ministra in pectore si sviluppa sugli assi tradizionali delle politiche degli ultimi trent’anni: austerità di bilancio, attacco alla forza contrattuale dei lavoratori e allo Stato sociale (pensioni, istruzione, sanità, trasporti pubblici, etc.), riduzione delle tasse per i ricchi.
Più nel concreto, i partiti che si accingono a comporre la compagine di governo hanno agitato in campagna elettorale alcuni temi chiave esemplificativi della volontà di incarnare la variante “destra” di un programma neoliberista pienamente condiviso da tutto l’arco parlamentare: flat tax, eliminazione del Reddito di cittadinanza, esacerbazione del conflitto tra lavoratori autoctoni e stranieri. Nessun accenno, in questo coacervo di misure e spinte reazionarie, a qualsivoglia tematica sociale. Anzi, anche qui in perfetta continuità con la diffusa retorica padronale, le destre in ogni loro forma si sono più volte scagliate contro il Reddito di cittadinanza, reo – a loro avviso – di ridurre il numero di lavoratori (leggasi: schiavi) utili agli interessi delle imprese. Vi è, a dire il vero, un’altra apparente eccezione: l’annunciato intervento sulle pensioni per contrastare ancora una volta gli effetti più brutali della Legge Fornero che dal 2023, scadute le varie tamponature di quota 100 e 102, tornerebbe pienamente in funzione.
Ora che i venti della campagna elettorale si sono posati e iniziano a filtrare le prime indiscrezioni, i tristi presagi si stanno confermando. Oggi vi parliamo dell’ennesima puntata di una saga italiana giunta all’ennesima stagione: il furto ai danni dei pensionati. I protagonisti sono Meloni e soci, gli stessi che la Legge Fornero, ai tempi del Governo Monti, l’hanno votata.
Trattandosi dell’unico cavallo di battaglia almeno a parole disallineato rispetto alla pura fede liberista che destra e centro-sinistra condividono con entusiasmo, vale la pena andare un po’ a fondo per comprendere come purtroppo, a dispetto degli annunci, anche sul fronte previdenziale, ahinoi, Meloni, Salvini e Berlusconi agiranno contro gli interessi dei lavoratori e dei pensionati italiani.
Ci ha pensato Bonomi, voce di Confindustria, già una settimana dopo la vittoria elettorale della destra a chiarire ogni equivoco in proposito ammonendo il nuovo governo dal non fare follie mettendo mano ad una riduzione delle tasse e a riduzioni dell’età pensionabili foriere di rilevanti aumenti di spesa previdenziale. Già dall’estate, del resto, si aizzava come da consolidata tradizione, il terrore dei conti pensionistici in subbuglio, stavolta per colpa dell’inflazione. Le pensioni, infatti, essendo redditi non soggetti a ricontrattazione periodica, sono indicizzati per legge all’inflazione. Dopo un lungo periodo di brutali riduzioni delle percentuali di indicizzazione garantite (specie nel periodo più nero dell’austerità di bilancio a partire dal governo Monti), con gravissimo detrimento per i redditi reali dei pensionati italiani, finalmente dal 1° gennaio 2022 si è ripristinato il meccanismo di quasi piena indicizzazione fissato con la Legge 388/2000 che era stata smontata pezzo per pezzo negli anni successivi.
Ed ecco che proprio il 2022, per i noti motivi, è risultato l’anno della ripresa repentina e intensa dell’inflazione. Provvidenziale, dunque, quest’anno più che mai, l’esistenza di un meccanismo che abbia difeso il potere d’acquisto delle pensioni. Ma questo meccanismo, che dovrebbe essere salutato come ordinaria norma di civiltà da chiunque, viene oggi descritto come una sorta di privilegio dei pensionati che costringerà l’INPS ad affrontare un cospicuo aumento di spesa nominale che, a detta dei soliti commentatori del terrorismo pensionistico, metterà a rischio i conti previdenziali.
Di fronte ad uno scenario di lievitazione della spesa pensionistica prevista aumentano così le pressioni per frenare qualunque velleità del nuovo governo nel mettere a punto meccanismi di procrastinamento degli effetti della Legge Fornero. Di fatto, si tratta dell’ennesimo inchino al dogma dell’austerità: in barba alle propagandistiche dichiarazioni sulla sospensione del Patto di Stabilità, il contesto europeo continua a porre vincoli pressanti alle possibilità di spesa dei governi, scaricandone l’onere sulle fasce deboli della popolazione.
Allo stesso tempo, tuttavia, è evidente che nessun governo che non voglia ritrovarsi con un consenso sociale dimezzato nel giro di pochi mesi, potrebbe ignorare del tutto la questione del cosiddetto ‘scalone’ che implicherebbe un improvviso salto di tre anni. A partire dal 1° gennaio 2023, infatti, con il venir meno di quota 102, si potrebbe andare in pensione, con il requisito di vecchiaia, a 67 anni con almeno 20 di contributi. Fino a quest’anno la soglia era invece quella stabilita da quota 102: 64 anni con almeno 38 di contributi. Resterebbe inalterato invece il requisito di anzianità che consente di andare in pensione a 42 anni e 10 mesi di lavoro per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne indipendentemente dall’età anagrafica.
L’impatto sociale di un simile scalone riguarderebbe nei prossimi anni milioni di lavoratori prossimi alla pensione suscitando, come avvenuto già in passato (scalone Maroni nel 2008, scalone Fornero nel 2012) una chiara ondata di sdegno che nessun governo politico oggi potrebbe permettersi di gestire in questa fase storica.
E così si tenta di arginare il problema con provvedimenti palliativi e per lo più temporanei. Accadde con quota 100 nel 2018 con il governo giallo-verde, poi con la nettamente peggiorativa quota 102 con il governo Draghi ed ora l’attuale governo discute di come gestire la stessa patata bollente senza turbare però i sonni tranquilli dei guardiani dell’austerità pensionistica.
Se la Lega in campagna elettorale aveva puntato su quota 41, misura già piuttosto timida nei suoi effetti, sembra già che si siano attivate le sirene d’allarme su un suo eccessivo costo. Con quota 41 in sostanza sarebbe possibile, indipendentemente dall’età, accedere alla pensione anticipando così di un anno e 10 mesi per gli uomini e di 10 mesi per le donne la cosiddetta pensione anticipata. Tale misura secondo i calcoli dell’INPS avrebbe un costo di 75 miliardi nei prossimi 10 anni ipotizzando un tasso di adesione degli aventi diritto del 100%.
A fronte di questo dibattito e sulla base del dogma inscalfibile del “dover spendere il meno possibile” è uscita fuori dal cappello a cilindro proprio in questi ultimi giorni una nuova proposta, di cui ha parlato la stessa Giorgia Meloni: opzione uomo. Ricalcando lo schema della già esistente opzione donna, limitata ai pensionandi di sesso femminile, tale opzione permetterebbe di andare in pensione dai 58 anni per i dipendenti e dai 59 anni per gli autonomi avendo maturato almeno 35 anni di contributi, ma – e qui sta l’inghippo – effettuando un integrale ricalcolo della pensione con il solo sistema contributivo.
Ci troviamo infatti ancora in una fase di transizione in cui gli attuali lavoratori prossimi alla pensione vedranno il loro assegno previdenziale come risultato di un calcolo misto: retributivo per le carriere precedenti al 1° agosto 1995, contributivo per il periodo successivo. Come noto il calcolo retributivo è mediamente assai più generoso garantendo tassi di sostituzione (rapporto tra ultimo salario e prima pensione) generalmente assai più alti. Il ricalcolo, quindi, non può che portare ad una riduzione significativa dell’assegno pensionistico.
Si torna insomma a quel ricatto tra tempo e denaro già visto con quota 100 e con quota 102, ma in questo caso un ricatto di proporzioni molto più intense che al meccanismo ricattatorio implicito nel sistema contributivo aggiunge un vero e proprio furto ai danni dei pensionati. Vuoi anticipare l’uscita dal lavoro? Ti consento di farlo anche in modo significativo, ma ti riduco la pensione anche del 30% costringendoti ad una vecchiaia da fame.
La riduzione drastica dell’assegno pensionistico per opzione donna e per la sua possibile estensione agli uomini nasce dunque dal combinato disposto di tre fattori: 1) l’età più bassa di accesso fa sì che la pensione venga spalmata su un numero di anni di vita attesa maggiore decurtando così l’ammontare dell’assegno mensile; 2) il minor numero di contributi versati determina un minor ammontare accantonato e quindi una rendita pensionistica più bassa. Fin qui si tratta del meccanismo duplice innescato dalla logica del sistema contributivo. A ciò si aggiunge, 3) il ricalcolo del periodo antecedente al 1996 su base contributiva e non retributiva. Quest’ultimo aspetto, porta, secondo i calcoli dell’INPS ad una perdita di circa il 15% in media rispetto allo scenario di un calcolo a sistema misto. A questo 15% occorre poi aggiungere un altro 15-25% (in media ed a seconda dei casi) di riduzione dovuta intrinsecamente per l’anticipo pensionistico in quanto tale. La perdita complessiva rispetto alla pensione che si avrebbe a 67 anni con il requisito di vecchiaia ammonterebbe quindi al 30-35% con punte fino al 40%.
Una decurtazione che, dato il livello medio delle pensioni italiane, sarebbe semplicemente insostenibile per la stragrande maggioranza delle persone e rimarrebbe un’opzione perseguibile verosimilmente solo dai nuclei familiari più benestanti oppure da coloro che ne hanno un impellente bisogno per motivi di organizzazione di vita. Prova ne sia il limitatissimo uso di questa opzione da parte della popolazione femminile negli anni in cui è rimasta in vigore. Infatti, come riporta la Relazione annuale sulle attività dell’INPS nel 2020, nel biennio 2019-2020 hanno aderito ad opzione donna soltanto 35000 lavoratrici. Un dato ben al di sotto delle attese.
Sembra proprio allora che a fronte delle grida ipocrite contro la legge Fornero utilizzate in campagna elettorale, i palliativi usati per lenirne gli effetti potranno essere stavolta addirittura peggiori di quelli messi a punto dai tre precedente governi dal 2018 in poi. Flessibilità sì, ma a costo di un vero proprio furto legalizzato ai danni dei pensionandi. Il tutto, tanto per aggravare il quadro, in un contesto in cui l’inflazione morde e si scarica soprattutto sulle fasce di reddito più basse.
Del resto, cosa ci si poteva aspettare da chi – Meloni compresa – ha sostenuto e votato i governi che hanno messo mano volta per volta al sistema pensionistico. Cosa ci si poteva aspettare da chi, 10-11 anni fa, ha votato le leggi Sacconi e Fornero, base dell’impianto normativo ultra-restrittivo del nostro sistema previdenziale, le avevano votate in parlamento senza remore?
Nulla, ma proprio nulla di buono può promanare da tutti i partiti che fuori dagli apparenti scontri ideologici convergono da anni nel plasmare il disegno neoliberista e l’attacco frontale alle condizioni di vita delle classi sociali subalterne