La scienza ha ormai definitivamente accertato che non esistono razze umane, essendo anzi Homo sapiens una specie molto omogenea. Ciononostante, il mito della razza è ancora largamente diffuso, retaggio storico di un pregiudizio che ha rappresentato e tuttora rappresenta un potente fattore di discriminazione funzionale ai sistemi economici basati sulla diseguaglianza e sullo sfruttamento della forza lavoro, servile e salariata.
Inesistenza delle razze umane
L’assegnazione allo svedese Svante Pääbo del premio Nobel 2022 per le sue scoperte sul genoma ominide e l’evoluzione umana, è giunta a coronamento di tre decenni di scoperte che hanno rivoluzionato le nostre conoscenze nell’ambito della genetica e della paleoantropologia, sgombrando definitivamente il campo da ogni ipotesi pseudoscientifica fondata sulla presunta esistenza di razze distinte della specie Homo sapiens.
Infatti, lo stesso genere Homo è sempre stato caratterizzato da una notevole stabilità genetica, dovuta principalmente a due fattori: da un lato, la sua indole migrante e la conseguente facilità d’incroci frequenti fra popolazioni anche lontane fra loro, dall’altro la capacità di adattamento ad habitat e climi anche estremi (costruendo abitazioni, fabbricando strumenti per la caccia, confezionando indumenti ecc.), che ha comportato una selezione meno dura che nelle altre specie. Anche l’assistenza e la cura dei malati e dei feriti, caratteristica esclusiva del genere umano, hanno svolto un ruolo fondamentale nel minimizzare l’impatto della selezione naturale nel corso dell’evoluzione. Ciò ha fatto sì che, anche a distanza di venti o trentamila generazioni di distacco dal tronco comune, dei progenitori di H. neanderthal e di H. denisova da quelli di H. sapiens, queste specie risultavano ancora sufficientemente affini tra loro da permettere incroci generativi di prole feconda. A maggior ragione attualmente, anche dopo una separazione che al massimo può risalire a due-tremila generazioni addietro, l’affinità genetica tra due individui della specie umana, presi a caso in qualunque parte del mondo, è altissima, come dimostrano recenti ricerche [1].
Ai tempi dell’ultima grande emigrazione dall’Africa, attorno a 50000 anni fa, le potenzialità fisiche e soprattutto mentali di Homo sapiens erano dunque ormai ben consolidate e uniformemente distribuite. La nostra specie era già perfettamente omogenea e tale è rimasta, presentando del tutto trascurabili varianti individuali (non di gruppo) del comune patrimonio genetico “africano”. Fu la variabile delle condizioni ambientali a favorire lo sviluppo dell’una o dell’altra tra le abilità potenzialmente presenti in tutti i suoi membri. Nel suo libro Armi, acciaio e malattie, Jared Diamond [2] indica infatti nei condizionamenti geografici il motivo principale per cui la parte dell’umanità che in séguito alle migrazioni dall’Africa si era stabilita nelle regioni temperate dell’Eurasia e del Mediterraneo, ebbe l’opportunità di passare da caccia e raccolta ad agricoltura ed allevamento come strumenti prevalenti di sussistenza. Il che conferì a questa parte dell’umanità notevoli vantaggi, sia dal punto di vista della salute (grazie all’alimentazione più varia e regolare e soprattutto allo sviluppo di un sistema immunitario irrobustito dal continuo contatto coi microrganismi trasmessi dagli animali domestici), sia per lo scambio di merci, manufatti, informazioni e tecnologie con i popoli viventi alle stesse latitudini. Il conseguente incremento demografico favorì il costituirsi di aggregazioni più vaste e meglio organizzate rispetto ai clan e alle tribù precedenti, con la formazione di caste di sacerdoti e guerrieri e la conseguente possibilità di trasformare le contese intertribali per il possesso delle risorse in vere e proprie guerre di conquista di città e regni, ossia nelle prime forme d’imperialismo. Ed è a questo dislivello strutturale nei rapporti di forza fra le popolazioni eurasiatiche e quelle degli altri continenti che si può far risalire anche la lontana origine del colonialismo, quest’ultimo non a caso avente come bersaglio nella maggior parte dei casi le più fragili compagini dei cacciatori/raccoglitori. Una volta poi che, in un passato molto più recente questi ultimi, o i loro superstiti, adottarono anch’essi l’economia agricola, i colonizzatori nel frattempo avevano compiuto un nuovo balzo in avanti con l’industrializzazione, e oggi con la tecnologia avanzata, sicché gli squilibri tra le varie popolazioni umane hanno continuato ad alimentare schiavismo, semi-schiavismo e infimo costo del lavoro salariato a vantaggio di chi riusciva a sfruttare le differenze nel frattempo create.
Il razzismo funzionale alla svalutazione della forza lavoro, servile e salariato
In un’economia di sussistenza basata sul consumo immediato del cibo, le comunità umane più ristrette, analoghe a quelle degli altri primati, non richiedevano l’impiego di manodopera che non fosse quella direttamente impegnata nella caccia e nella raccolta. L’agricoltura e l’allevamento degli animali domestici, assieme all’uso consapevole degli strumenti, ebbero invece come risultato la produzione in eccesso dei beni, con un conseguente accumulo delle risorse disponibili e quindi la possibilità, per una casta privilegiata di individui, di sfruttare la forza lavoro del resto della popolazione appartenente alla stessa specie, un unicum nel mondo animale. Da lì nacque il principio, che accompagnò il lavoro dipendente per tutto il corso della storia fino ad oggi, di utilizzare qualunque mezzo che potesse rendere i lavoratori, prima schiavi e più recentemente salariati, strumenti il più efficienti possibile di arricchimento dei padroni, nel senso del massimo rendimento col minimo costo.
La stratificazione sociale a sua volta non poteva che basarsi su una qualche forma di discriminazione in grado di alterare i rapporti di forza fra gruppi potenzialmente dotati delle stesse caratteristiche biologiche. La guerra fra clan, tribù e, in séguito, nazioni, nata per attaccare e, reciprocamente, per difendere le risorse e i territori confinanti, risultò lo strumento più consono anche per impadronirsi della manodopera servile, atta a svolgere le attività generatrici dei beni fruibili da parte delle classi dominanti dei vincitori.
Col tempo, però, la discriminazione su cui poggiava l’economia schiavista, trovò altre forme di giustificazione ideologica al di là delle guerre.
L’istintiva diffidenza e ostilità tribale verso il “diverso”, affermatasi in tempi preistorici nell’ambito della contesa per i mezzi di sussistenza, svolse un ruolo preminente in tal senso. Il razzismo, ovvero l’atteggiamento sprezzante e discriminatorio verso altri membri della nostra stessa specie, affonda infatti le sue radici nella transizione epocale dalla società di cacciatori e raccoglitori a quella di agricoltori e allevatori divenendo pretesto, nel nuovo contesto produttivo, per sottoporre a lavoro forzato i soggetti così discriminati mediante la loro riduzione in schiavitù. Subentrando ai clan e alle tribù di cacciatori e raccoglitori, le più vaste aggregazioni umane basate sull’economia agricola svilupparono inoltre l’idea etnocentrica della superiorità del popolo appartenente alla nazione imperialista rispetto ai popoli soggiogati. Ai tempi della conquista delle Americhe, ad esempio, circolava l’idea che gli indigeni fossero “figli di un altro Adamo”, e quindi si potessero considerare schiavi “naturali” in quanto appartenenti ad una “razza” inferiore.
La narrazione che ormai sappiamo falsa e tendenziosa affermante l’inferiorità degli “altri”, si traduceva infatti in discriminazione sociale e la discriminazione era la premessa per svalutare il costo della forza lavoro delle persone, incrementandone così il tasso di sfruttabilità. Il razzismo, sviluppato e propagandato a livello popolare dalle classi dominanti beneficiarie del sistema produttivo di volta in volta prevalente nelle diverse epoche storiche, assolse e tuttora assolve, concretamente, alla funzione di elemento ideologico atto a favorire l’inserimento della forza lavoro umana oggetto di discriminazione – e quindi a basso costo – in tali sistemi, dapprima agricoli e poi industriali.
Razzismo e sistema-mondo
Il concetto razzista della superiorità dell’uomo bianco “portatore di civiltà” rappresentò la base ideologica del colonialismo. Non per nulla, l’epoca delle esplorazioni geografiche e delle conquiste coloniali coincise con la nascita del capitalismo moderno. Immense ricchezze, sottratte alle popolazioni dei paesi colonizzati furono accumulate dalle aristocrazie europee; in séguito, con l’avvento del capitalismo industriale, il saccheggio delle risorse servì per alimentare l’apparato produttivo dei colonizzatori.
Una variante importante del colonialismo di sfruttamento fu il colonialismo di popolamento, il cui caso paradigmatico fu il Sud Africa dell’apartheid. La minoranza europea, insediatasi tra il XVII e il XIX secolo nelle regioni australi del continente, sviluppò nel XX secolo un sistema di “sviluppo separato” che consisteva tipicamente nello sfruttamento della manodopera nera con il pretesto di una sua presunta inferiorità rispetto alla superiore “civiltà” degli invasori. In realtà si trattava di imporre un sistema produttivo, agricolo e industriale (prevalentemente minerario) basato sul profitto privato, ad una popolazione abituata ad un’economia comunitaria e solidale, cui però si negavano diritti sindacali e di cittadinanza col pretesto di rispettarne la cultura e le tradizioni. Con ciò implicitamente, e arbitrariamente, si sottintendeva che le condizioni di povertà fossero connaturate alla “razza” nera, che quindi era ovvio dovesse accontentarsi di infimi salari per mantenere il proprio basso livello di vita.
Il razzismo s’intreccia anche strettamente con il fenomeno delle migrazioni, sia interne ai singoli stati, che fra stati e continenti diversi. La causa di tali migrazioni risiede d’altra parte proprio negli enormi dislivelli creati dallo stesso sistema di saccheggio delle risorse dei più deboli da parte dei più forti. Ad esempio, la vera e propria occupazione coloniale dell’Italia del Sud che fu determinante nel processo di unificazione del paese, produsse un impoverimento delle regioni meridionali e la conseguente emigrazione di massa da queste verso le Americhe, l’Europa settentrionale e, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, verso l’Italia settentrionale, dove la borghesia industriale del Nord fu pronta a inserire nel ciclo produttivo tale manodopera a basso costo. Il razzismo nei confronti dei meridionali, sapientemente orchestrato, fu strumentale al processo di svalutazione del loro potere contrattuale. Il fenomeno, su scala intercontinentale, è più che mai fiorente ai tempi nostri. Infatti, le periodiche campagne di denigrazione degli immigrati extracomunitari, prendendo a pretesto episodi di delinquenza comune o di terrorismo per generalizzare arbitrariamente il disprezzo e l’odio verso tutti i migranti, risultano estremamente efficaci per favorire i superprofitti risultanti dal supersfruttamento e la negazione dei diritti dei soggetti così discriminati. La miseria originariamente creata nel Terzo Mondo viene in tal modo messa a frutto dagli stessi che l’hanno provocata, al momento dell’immigrazione.
Più in generale, a livello planetario, il razzismo è anche alla base di quella che, in analogia alla stratificazione in classi a livello nazionale, è la gerarchizzazione delle nazioni, che prende il nome di “sistema-mondo” [3]. Tale sistema consiste in un flusso unidirezionale delle risorse dalle periferie non industrializzate (il “Terzo Mondo”) verso il centro industrializzato del pianeta e rappresenta pertanto una realizzazione ottimale del modello neoliberista. Il pilastro su cui si regge tutto il sistema è lo sfruttamento intensivo della forza lavoro e il depredamento delle risorse naturali disponibili nei paesi periferici, cui vengono sistematicamente sottratti a bassissimi costi sia le materie prime che i prodotti lavorati, per poi essere rivenduti a prezzi altissimi nei paesi del centro e, in parte, in quelli semiperiferici ovvero in via d’industrializzazione. Comprimere al minimo il costo della manodopera dei paesi del Terzo Mondo è dunque essenziale per la sopravvivenza del sistema e a tale scopo è indispensabile che sia ben radicata nell’inconscio collettivo degli abitanti del centro la narrazione che dà per scontata la distinzione fra un “noi” e un “loro”, funzionale in definitiva alla massimizzazione dei profitti di chi sta al vertice della piramide socioeconomica. L’immagine stereotipata del migrante che, dopo essere sfuggito alla miseria in cui noi stessi l’abbiamo gettato, ovviamente è disposto ai lavori più umili, risponde all’esigenza di mantenere e anzi stabilizzare le gerarchie socioeconomiche esistenti su cui poter contare per ottimizzare lo sfruttamento. Essenziale per la sopravvivenza del sistema-mondo è il “principio di diseguaglianza”, garantire cioè l’inferiorità tecnica, economica e industriale e quindi il livello di povertà dei paesi periferici, risorsa preziosa necessaria per non inceppare il sistema, continuando a disporre di manodopera ai minimi costi.
Quindi, mentre per i paesi periferici si tratta di impedire il saccheggio delle proprie risorse, per quelli centrali e semiperiferici si tratta di suddividere il “bottino” raccolto, proporzionalmente alla sua consistenza, senza ridurre i profitti della classe dominante, ma trovando i margini per fare concessioni alle classi medio-basse, nella misura in cui serva per controllare eventuali proteste antisistema, che vanno anzi semmai opportunamente convogliate contro il bersaglio rappresentato dai migranti. Un caso che si presta ad illustrare questo meccanismo è quello dell’incontro fra l’allora presidente francese François Mitterrand e il suo omologo del Burkina Faso Thomas Sankara [4], durante il quale quest’ultimo espresse con franchezza il suo risentimento contro il sistema neocoloniale dell’ex madrepatria, ribadendo il suo proposito già in precedenza espresso di cancellare unilateralmente il debito contratto con le banche europee che strangolava in partenza ogni tentativo di alleviare la terribile miseria della popolazione del suo paese. Mitterrand non rispose, ma si mostrò molto irritato. Dopo pochi mesi, Sankara fu assassinato da un suo collaboratore, Blaise Compaoré, che ne prese il posto riportando il Burkina Faso nell’alveo delle “normali” relazioni economiche e commerciali ordoliberiste. Si tratta di un caso tipico proprio perché dimostra come i partiti “socialisti” europei, messi di fronte all’alternativa fra dare la priorità ad un’ideale di giustizia che comprenda non solo le esigenze dei propri connazionali ma anche i diritti vitali delle popolazioni ex coloniali, oppure salvaguardare il proprio sistema bancario ed economico anche a costo di calpestare tali ideali, scelgono regolarmente la seconda soluzione, cioè redistribuire alle classi medio basse i “dividendi” delle risorse saccheggiate nelle periferie. Questo perché gli abitanti delle periferie del sistema-mondo evidentemente non sono maturi, o degni, del “socialismo” riservato ai privilegiati del centro.
https://www.lacittafutura.it/cultura/il-razzismo-fattore-costitutivo-del-neoliberismo
Note:
[1] G. Barbujani, Sillabario di genetica, Bompiani (2019)
[2] J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi (2014)
[3] I. Wallerstein, Alla scoperta del sistema-mondo, Manifestolibri (2010)
[4] https://www.youtube.com/watch?v=GPCNq-T7yDY