Le principali istituzioni finanziarie al mondo continuano ad elargire investimenti alle aziende implicate nel disboscamento delle foreste tropicali. E lo fanno senza vincolarle a scelte più sostenibili o trasparenti. La tendenza, tra l’altro, è persino in aumento. Tra il 2020 e il 2021, il flusso di capitali è cresciuto del 60%, toccando quota 47 miliardi solo lo scorso anno. Dal 2015 – anno in cui è stato firmato l’Accordo di Parigi – a oggi, il totale dei finanziamenti è arrivato a 267 miliardi di dollari. A rivelare cosa accaduto in appena sette anni, un rapporto di Forest&Finance, una coalizione di diverse ONG ambientaliste attive nel monitoraggio delle foreste pluviali. Dal documento, in sostanza, è emerso che banche e grandi investitori hanno delle politiche “pericolosamente inadeguate” per le merci legate alla deforestazione. Ne sono un esempio i gruppi indonesiani implicati nella lavorazione della carta Sinar Mas e Royal Golden Eagle, i quali hanno ricevuto investimenti per quasi 23 miliardi di dollari, cioè il 95% del totale donato dalle banche al settore. Questo dal 2016 al 2022, ma i finanziamenti non hanno mai subito battute d’arresto nonostante i due gruppi abbiano politiche del tutto insufficienti in relazione alla tutela degli ecosistemi e al rapporto con le comunità locali. Sinar Mas è ad esempio appurato che espande sistematicamente le sue piantagioni su torbiere drenate, degli ecosistemi particolarmente preziosi e vulnerabili, mentre è accusata di aver fatto ricorso a violenza e intimidazioni contro gli abitanti delle regioni interessate.

Nel complesso, in termini di sostenibilità ambientale e sociale, i 200 maggiori attori finanziari lasciano a desiderare. Per giungere a questa conclusione, le ONG redattrici del rapporto sopracitato hanno valutato le politiche delle banche e degli investitori in esame
sulla base di 35 diversi criteri ambientali, sociali e di governance (i cosiddetti ESG). Su 10 punti totali, 197 istituti di credito su 200 non hanno superato la soglia dei 7 punti. Con un punteggio medio di 1.6, il 59% degli enti valutati è poi risultato addirittura sotto l’1. Ad allarmare, in particolare, le banche che sostengono imperterrite i tre principali gruppi brasiliani del settore della carne: JBS, Marfrig e Minerva. Il Brasile è il più grande esportatore di carne bovina al mondo, il settore identificato come il principale motore della deforestazione nel Paese. L’attività ha contribuito infatti al disboscamento di circa 37 milioni di ettari nella sola Amazzonia, l’80% di tutta la deforestazione brasiliana dal 1985 ad oggi. Nel 2017, quasi il 70% delle esportazioni bovine è stato gestito da questi tre gruppi commerciali, i quali hanno non a caso attratto finanziamenti consistenti: dal 2015, un totale di 67 miliardi di dollari di crediti. Di questa quota, quasi il 90% è derivato dal credito rurale sovvenzionato dal governo, il Programma di Finanziamento dell’Agricoltura del Brasile che sostiene economicamente gli agricoltori e ad altri attori della filiera agroalimentare brasiliana. Ad oggi, JBS, Marfrig e Minerva non sono però riuscite ad attuare gli impegni di ‘zero deforestazione’, sottoscritti più di dieci anni fa, e non sono ancora in grado di garantire che le loro catene di approvvigionamento siano libere da fenomeni di disboscamento. Anzi. JBS, il principale beneficiario dei suddetti investimenti (1.1 miliardi di dollari nel solo 2022), è stata persino più volte collegata alla deforestazione illegale.

[di Simone Valeri]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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