A seguita della nomina dei neo eletti presidenti del Senato e della Camera, appare importante cercare di comprendere la chiara fuoriuscita dalla narrazione di uno spettro moderato, anche interrogando trasformazioni e continuità storiche

di Olimpia Capitano

Negli ultimi giorni sono stati rispettivamente eletti presidente del Senato e della Camera Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana. Tra qualche giorno sarà il centenario della Marcia su Roma, che arriva tra tumultuose dispute sulle vecchie e nuove definizioni del (neo-/post-) fascismo (storico). Ovviamente non verrà qui sostenuto alcun nesso drammatico ma, piuttosto, può rivelarsi utile ragionare sulle connessioni tra queste figure, il loro passato e presente politico e il passato e presente politico da cui proveniamo e che viviamo.

Occorre, in questo senso, cercare di ritornare alla complessità storica e, nondimeno, guardare al passato mossi dalle domande del presente, anche per cercare di interrogarci su alcuni dei rischi possibili nelle prospettive future.

Ignazio La Russa è un nostalgico del fascismo con un passato di militanza nella destra estrema del Movimento sociale italiano (MSI). In questi giorni, è tornato a girare sul web il video in cui mostra cimeli del regime, bassorilievo, statua di Benito Mussolini e anche un simbolo comunista –  messo sotto i piedi del duce, come tiene a precisare ridacchiando.

La Russa è tra coloro che più hanno osteggiato le celebrazioni del 25 Aprile, fino a proporre appena due anni fa, di trasformare la Festa della Liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascista, in una giornata per ricordare «le vittime di tutte le guerre senza fare alcuna differenza, ricomprendendo persino i morti per coronavirus»: così da, a sua detta, «trasformare il 25 aprile da data divisiva in una giornata di pacificazione».

Al contempo, La Russa è un accanito sostenitore del Giorno del Ricordo delle vittime delle foibe, istituito il 10 febbraio a partire dal 30 marzo 2004, con la legge numero 92. La dubbia decisione di istituire il Giorno del Ricordo così a ridosso del Giorno della Memoria delle vittime del nazifascismo, in cui si ricorda la liberazione del 27 gennaio 1945 dei detenuti superstiti del lager di Auschwitz, si accompagna alla scelta di una data che coincide con quella del 10 febbraio 1947, quando il Trattato di Parigi pose fine alla seconda guerra mondiale.

Questa serie di operazioni squisitamente politiche, rispondono a una chiara tendenza all’assimilazione tra diversi fenomeni storici, che propende verso un’equiparazione tre le foibe e l’Olocausto. Parificare le responsabilità per autoassolversi, mentre non esiste alcuna discussione pubblica sulle violenze dei campi fascisti, se non grazie ad alcune storiche e storici che stanno lavorando alacremente per portare alla luce questo rimosso.  

Tale fenomeno di appiattimento della complessità storica e livellamento delle responsabilità si nasconde dietro alla bandiera delle vittime, apparentemente priva di colore politico, ma solo apparentemente. Infatti, come fa notare il filoso Daniele Giglioli, «la vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittima dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto».

Nondimeno, se l’essere vittima ci mette nella condizione di poter agire al riparo da critiche (perché se si critica le vittime si viene additati come mostruosamente non empatici) allora apparire come vittima diventa l’aspirazione di chiunque punti al potere. E anche per la destra nostrana il gioco sta proprio qui, nel paradigma della vittima, che unisce tutti (rigorosamente al maschile) gli “italiani brava gente”, contribuendo a una logica di banalizzazione del passato e di falsa pacificazione.

In questo modo la parificazione di responsabile avviene chiaramente a solo vantaggio di chi, oggi, ripropone valori di matrice (qualsiasi prefisso si desideri-)fascista, di cui ci ha  parlato con straordinaria lucidità Umberto Eco in “Il fascismo eterno”.  Ciò avviene pur senza alcuna remore di rifarsi a quella eredità storica visto che come nota lo storico Eric Gobetti, affermazioni tipo “eravamo tutti fascisti”, “i partigiani hanno scatenato la guerra civile”, “Mussolini non ha ucciso nessuno”, “ha fatto anche cose buone” e “mandava gli oppositori in vacanza” sono ormai luoghi comuni condivisi e ripetuti costantemente anche ad altissimo livello mediatico-istituzionale.

La rivalutazione del fascismo, la minimizzazione dei suoi crimini, la condanna della Resistenza, la costruzione di un’identità italiana intrinsecamente fatta solo di “buoni” e di “vittime” e, addirittura, l’apologia (formalmente illegale) di regime, sono così diffuse oggi da toccare persino le più alte cariche dello Stato.

Il rischio, si crede, non è quello di un ritorno del fascismo sic et simpliciter, ma sta nel riproporsi di quei valori e quelle pratiche politiche escludenti, violente e autoritarie, in nuova veste storica, a vantaggio, sempre e comunque delle classi dirigenti, dietro la maschera tanto efficace del nazionalpopolare. Come nota lo storico Enzo Traverso, negli anni Trenta, le élite industriali, finanziarie e militari europee hanno accettato il fascismo come soluzione alle crisi politiche endemiche, alla paralisi istituzionale e come difesa contro il bolscevismo.

Oggi, invece, sostengono il neoliberismo e cercano di conservare il proprio potere attraverso strumenti di repressione e di controllo securitario e poliziesco, e con la costruzione di una nuova egemonia culturale e di un vasto consenso sociale, che si radicano nella costruzione del “nemico”: le persone non bianche, la comunità Lgbtqiap+, il transfemminismo intersezionale, il “terrorismo islamico” e così via.

Lorenzo Fontana, leghista veronese ultra-cattolico ed esplicitamente omofobo, è idolo dei pro life e del mondo cattolico conservatore, con un lungo curriculum fatto di rapporti con i partiti neofascisti di mezza Europa – tanto che, in sintonia con La Russa, «il 25 aprile festeggia San Marco e non la Liberazione dal nazifascismo». Nondimeno, Fontana ha stretti rapporti con la Russia di Putin: nel 2016, è stato invitato a partecipare come “osservatore” (insieme ad altri leghisti) al referendum sull’annessione della Crimea e, quest’anno, si è presentato al Parlamento europeo indossando una maglia con su scritto “No sanzioni alla Russia”.

Nel 2018 Fontana è stato ministro della famiglia e ha dichiarato che considera l’aborto come «uno strano caso di diritto umano che prevede l’uccisione di un innocente» e come «la prima causa di femminicidio al mondo». Il neo-eletto Presidente, che ritiene che «il matrimonio è solo tra mamma e papà, le altre schifezze non le voglio sentire», paventa da anni la cosiddetta “ideologia del gender”, come «grave minaccia, assieme all’immigrazione e al matrimonio gay» e ha sostenuto che «la resistenza oggi è contro chi vorrebbe un mondo al contrario, un mondo che vorrebbe negare l’esistenza di mamme e papà, di bambine e bambini» e che «i bambini vanno educati sul modello della famiglia naturale…altre formule strane non mi piacciono».

È evidente che una simile nomina rappresenta un segno istituzionale chiaro e contrario rispetto a ogni principio di laicità dello Stato e autodeterminazione dei corpi. Si tratta una chiara tendenza conservatrice e reazionaria rispetto alle rivendicazioni di quei percorsi politici, di movimento e non istituzionali, che stanno cercando di mettere al centro le voci silenziate di donne, frocie, lesbiche, persone trans, intersex, bi+ e non monosessuali, asessuali, non binarie, persone con HIV, sex worker, persone razzializzate e senza documenti, persone disabili e neurodivergenti.

Nel discorso (non solo) di Fontana, è interessante notare la centralità dei temi sessuali, familiari e religiosi ed è interessante farlo anche riassumendo una prospettiva storica, tornando al fascismo e rimarcando il carattere radicalmente politico di questioni puntualmente relegate nella sfera del “privato”.

Questa stessa narrazione di sfere separate tra un “pubblico” e un “privato” – che ha un lungo corso storico, soprattutto assumendo la prospettiva di genere – appare immediatamente in contraddizione se si pone attenzione al portato familista del discorso sovranista, legato a un’idea normativa della famiglia “naturale”, come unico fondamento di una comunità nazionale basata sulla prossimità etnico-biologica e culturale.

Questo tipo di impostazione del discorso politico ha radici profonde nel fascismo. Come nota la storica Alessandra Gissi Mussolini, in una circolare ai prefetti del 5 gennaio 1927, esorta al controllo dell’ordine morale tra i cittadini come strumento di ordine pubblico. Il rinnovato fervore della costruzione sociale della donna come madre e strumento di procreazione per la nazione, si è accompagnato (oltre che a una sempre più violenta repressione contro ogni espressione non etero normata) a politiche positive per la maternità e alla creazione nel 1925 dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI), attiva fino al 1975. Fa specie la recente proposta leghista di un Ministero della Famiglia e della Natalità.

Ovviamente la legislazione fascista è stata incredibilmente dura con l’aborto: con il codice penale Rocco del 1930 si inserirono l’aborto criminoso tra i “delitti contro la stirpe”, il reato d’istigazione con fornitura di mezzi idonei, il reato di atti abortivi su donna ritenuta incinta e quello per istigazione all’aborto quand’anche non attuato. Anche oggi l’aborto libero sicuro e integralmente gratuito è un’utopia e la legge 194, che dovrebbe piuttosto essere riformata per garantire realmente un’estesa accessibilità alle diverse tecniche abortive a ogni persona con utero, rischia di essere strumentalizzata nelle sue zone grigie, per fare ulteriori passi indietro – come attestano i recenti posizionamenti di Giorgia Meloni.

È dunque interessante – e costernante – mantenere uno sguardo profondo tra storia e contemporaneità, guardando al nostro passato e presente politico notando trasformazioni ma, anche alcune forme di continuità in nuove o meno nuove vesti.  Si mostra così evidente quanto ricorrano ancora oggi alcune pratiche discorsive e archivi di (fattuali e potenziali) politiche discriminanti e violente, che richiamano le eredità valoriali del fascismo e che, dopo anni di normalizzazione del discorso fascista, rischiano di essere concretizzate in modo sempre più netto e senza creare allarme nella maggioranza della società. In prospettiva di genere e femminista lo scenario è ulteriormente aberrante e la tutela della salute sessuale e riproduttiva appare seriamente a rischio – si pensi al tema dell’obiezione di coscienza.

Tutto questo scenario si è articolato in parallelo a una sempre più aggressiva banalizzazione della storia a uso e consumo politico. Come accennato in apertura, è importante ricordarlo a quasi cent’anni dalla Marcia su Roma, che, con i rapporti di forza politica attuali, rischia di divenire terreno di ulteriore distorsione storica, sempre e solo a vantaggio delle destre. Avere coscienza del nostro presente, significa cercare di costruire una migliore coscienza critica del nostro passato.

Immagine di copertina da Presidenza della Repubblica, Wikimedia Commons

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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