Dopo la vittoria delle elezioni legislative, la premier danese ha affermato di voler cercare il sostegno delle forze moderate, anziché continuare l’esperienza con quelle della sinistra radicale come nella precedente legislatura.
Lo scorso 1 novembre, si sono tenute le elezioni legislative in Danimarca per il rinnovo dei 179 del Folketing, il parlamento di Copenaghen, comprendente anche due rappresentanti della Groenlandia ed altrettanti delle isole Fær Øer. A questa tornata elettorale si è giunti dopo oltre tre anni di governo di Mette Frederiksen, leader dei Socialdemocratici (Socialdemokraterne), che nel giugno del 2019 diede vita ad un esecutivo di minoranza con il sostegno esterno delle forze della sinistra radicale.
Nonostante i sondaggi della vigilia avessero previsto la sconfitta del partito di governo, le urne hanno dato ragione ai Socialdemocratici, che anzi hanno ottenuto il loro miglior risultato degli ultimi vent’anni, raggiungendo il 27,54% delle preferenze ed eleggendo ben cinquanta deputati, due in più rispetto a quelli della precedente legislatura. Positivo anche il riscontro per la principale forza di sostegno al governo, il Partito Popolare Socialista (Socialistisk Folkeparti, SF), che ha raggiunto i quindici seggi con l’8,29% delle preferenze.
Meno bene è andata alla Lista dell’Unita – Alleanza Rosso-Verde (Enhedslisten – De Rød-Grønne), comprendente diverse formazioni della sinistra anticapitalista, compreso il Partito Comunista di Danimarca (Danmarks Kommunistiske Parti, DKP). L’Alleanza ha infatti raccolto il 5,16% dei voti, passando da tredici a nove deputati. In calo anche la Sinistra Radicale (Radikale Venstre, RV), che da sedici rappresentanti si ritrova con appena sette seggi (3,79%).
Nonostante questo, la premier Frederiksen avrebbe comunque potuto confermare la formazione del precedente governo, potendo contare anche sui voti dei due deputati della Groenlandia, storicamente orientata a sinistra, e di uno delle isole Fær Øer, nonché sui sei della lista ecologista L’Alternativa (Alternativet). Nel complesso, l’esecutivo avrebbe potuto raccogliere la fiducia di 90 deputati su 179, il minimo richiesto per la formazione di un governo. Eppure, Frederiksen ha preferito rassegnare le dimissioni, affermando di voler coinvolgere anche i partiti del centro nella formazione del nuovo governo, dimostrando di voler operare una svolta moderata.
Secondo gli analisti danesi, Frederiksen vorrebbe creare un governo con una maggioranza più solida coinvolgendo il nuovo partito centrista dei Moderati (Moderaterne). Tale formazione, fondata lo scorso giugno dall’ex primo ministro Lars Løkke Rasmussen (2015-2019), ha ottenuto un risultato positivo per la sua prima esperienza elettorale, raccogliendo il 9,27% dei consensi e ben sedici seggi. La scissione operata da Rasmussen ha invece indebolito la prima forza di opposizione, Venstre, che, nonostante il nome che tradotto letteralmente significa “Sinistra”, rappresenta in realtà il centro-destra danese. Il partito ora sotto la guida dell’ex ministro dell’Ambiente Jakob Ellemann-Jensen ha perso ben venti seggi, eleggendo 23 deputati con il 13,31% delle schede valide, facendo registrare il peggior risultato in oltre trent’anni. Nel complesso, dunque, il blocco di centro-destra, che aspirava alla maggioranza di governo, non è andato oltre i 72 seggi, contando anche i cinque partiti minori che vi aderiscono.
La mossa operata da Mette Frederiksen potrebbe dunque rivelarsi un’arma a doppio taglio. Da un lato, coinvolgendo i Moderati, potrebbe dare vita ad un governo più solido, che non sia appeso al voto di tutti i 90 deputati. Dall’altro, però, potrebbe perdere il sostegno di alcune forze della sinistra radicale, ritrovandosi all’incirca nella stessa situazione.
Certamente, un’inclusione della forza centrista nel governo significherebbe la ricerca di ulteriori compromessi, il che indebolirebbe le politiche progressiste portate avanti negli ultimi anni con il sostegno della sinistra radicale. Non che in Danimarca sia in corso una rivoluzione socialista, sia chiaro, ma certamente negli ultimi anni sono stati ottenuti risultati positivi in alcuni campi, come nel caso della riforma del settore educativo finalizzata a risolvere le disparità di reddito e di origine etnica nelle scuole.
In passato, Frederiksen si era anche distinta criticando le politiche degli altri partiti socialdemocratici europei, bollandole come “eccessivamente liberiste”. Prima di diventare premier, infatti, aveva spesso sostenuto che le forze di centro-sinistra avessero perso il consenso degli elettori europei per aver ignorato i diritti dei lavoratori e la crescita delle diseguaglianze. Queste posizioni potrebbero però finire definitivamente nel dimenticatoio nel caso di un’alleanza con i Moderati, formazione dichiaratamente liberista.
Ricordiamo che, nel 2019, Frederiksen ottenne il mandato degli elettori sconfiggendo proprio Rasmussen, considerato come l’esponente di quella destra liberista antipopolare da condannare. Ora, invece, la premier danese è intenzionata ad operare una giravolta politica che la porterebbe a stipulare un patto proprio con colui che solo tre anni fa considerava come il diavolo.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog