di Giacomo Gabellini
Nel 2013, subito prima che l’allora vicepresidente Usa Joe Biden visitasse il Brasile, Liliana Ayalde, ex capo del corpo diplomatico statunitense ad Asunción all’epoca dell’esautorazione di Fernando Lugo e definita dall’analista politico argentino Atilio Boron un’«esperta nella promozione di colpi di Stato incruenti», assunse l’incarico di ambasciatrice presso Brasilia. Nel brevissimo arco temporale intercorso tra le due vicende, in numerose città brasiliane sorsero manifestazioni contro il rincaro dei biglietti per gli autobus e la metropolitana, animate in gran parte da Movimento Passe Livre, un gruppo molto ben organizzato che riceveva fondi da Petrobrás nel periodo in cui George Soros deteneva una cospicua quota azionaria della società e ricorreva a tecniche tipiche dell’opposizione già riscontrate in molte rivoluzioni colorate. Nell’arco di poche settimane, il Brasile – un po’ come il Cile di Allende – fu scosso da un’ondata di scioperi organizzati da svariate categorie di lavoratori (insegnanti, autisti dei mezzi pubblici, geologi, guide dei musei, ecc.) e da forti contestazioni nei confronti delle spese sostenute dal governo per ospitare i mondiali di calcio; a detta dei manifestanti, con quei fondi si sarebbe potuto costruire strutture e finanziare progetti legati alla sanità, all’istruzione e all’edilizia popolare.
Nel novembre 2014, PriceWaterhouseCoopers, principale società di revisione contabile degli Stati Uniti, rifiutò di approvare gli utili del terzo trimestre dichiarati da Petrobrás e richiese l’apertura di un’inchiesta che facesse luce sulla corruzione dilagante all’interno della società, mentre il prezzo delle materie da cui l’economia brasiliana è fortemente dipendente cominciava letteralmente a crollare.
Nei mesi successivi, quando il Paese si trovava nel pieno dei preparativi in vista delle Olimpiadi del 2016, Standard & Poor’s e Moody’s calarono la scure attraverso una serie di declassamenti del debito pubblico brasiliano che esaurirono definitivamente la già esausta spinta propulsiva del Brasile. L’arretramento economico finì inesorabilmente per alimentare le tensioni sociali, che un gruppo di uomini politici particolarmente ambiziosi non esitò a cavalcare per promuovere un radicale cambiamento di rotta nella vita politica brasiliana, dilaniata – come molte altre – dalla corruzione. L’aspetto tragicomico della vicenda è che i principali promotori della svolta “etica”, vale a dire il presidente della Camera Eduardo Cunha e il presidente del Senato Renan Calheiros, entrambi membri del Partido do Movimento Democrático Brasileiro (Pmdb), si trovavano entrambi sotto indagine da parte della magistratura per corruzione e malversazione – è stato dimostrato che qualcosa come 15 conti offshore fossero riconducibili a Cunha – nell’ambito dell’indagine Lava Jato.
Ciononostante, riuscirono a ottenere la messa in stato d’accusa per “aggiustamento” dei conti pubblici – la cosiddetta “pedalata fiscale” – di Dilma Rousseff. La quale, dopo aver ottenuto la riconferma elettorale sconfiggendo il candidato Aecio Neves, appoggiato dagli Usa e da George Soros in quanto legato al suo Quantum Fund, assurse così a simbolo dell’affarismo rampante che avvelenava la vita politica ed economica brasiliana, benché il consesso che ne decretò la destituzione, la Camera dei deputati, fosse composto per il 70 per cento circa da elementi coinvolti in vicende legate alla corruzione.
La Rousseff funse da vittima sacrificale condannata a pagare per intero un conto che oltrepassava enormemente le sue responsabilità, tanto è vero che i revisori indipendenti ingaggiati dal Senato brasiliano per far luce sul caso non ravvisarono alcuna irregolarità riguardo alla sua condotta; nei mesi seguenti la ex presidente sarebbe stata scagionata anche in sede giudiziaria con l’archiviazione del procedimento a suo carico da parte della procura federale. La caduta della Rousseff rappresentava il “primo atto” della poderosa offensiva sferrata dal blocco di potere costituito da organi di informazione, magistratura e alta finanza contro il Pt. La cortina fumogena della lotta alla corruzione lasciava infatti trasparire in controluce l’intenzione di assumere il controllo della politica monetaria e della capacità di decidere gli investimenti pubblici da parte delle oligarchie brasiliane e dei loro sostenitori di Wall Street, da sempre molto attivi nell’influenzare la vita politica ed economica del Brasile.
Non a caso, il principale artefice della congiura che portò alla caduta della presidente in carica va ricercato in Michel Temer del Pmdb, che prima di essere a sua volta travolto dallo scandalo della corruzione legato a Petrobrás riuscì a piazzare nella propria squadra di governo, insediatosi all’indomani della destituzione della Rousseff, personaggi strettamente legati all’universo di Wall Street. Gente del calibro di Paulo Leme, ex capo economista presso il Fondo monetario internazionale riciclatosi in specialista dei mercati emergenti per conto di Goldman Sachs, di Ilan Goldfajn, già capo economista – dalla doppia cittadinanza israelo-brasiliana – della Itaú, la maggiore banca privata del Brasile, e soprattutto di Henrique Meirelles, ex presidente della Banca centrale brasiliana e della Bank Boston nonché artefice del Piano Real, un progetto che era culminato con la sostituzione del cruzeiro con una nuova moneta – il real, per l’appunto – dollarizzata e con la trasformazione del debito interno in debito estero denominato in dollari, cosa che privò quasi completamente lo Stato del controllo sulla politica monetaria.
Come scrive in proposito il professor Chossudovsky: «Il groviglio di operazioni di intelligence, manipolazioni finanziarie e manovre di propaganda mediatica indica che in gioco c’è la destabilizzazione della struttura statale e dell’economia nazionale del Brasile. Gli Stati Uniti non intendono negoziare con un governo di stampo riformista che rivendica la propria sovranità, anche monetaria. Quello che vogliono è uno Stato-fantoccio […]. La scomparsa temporanea di Henrique de Campos Meirelles dopo l’elezione della Rousseff è stata fondamentale. Wall Street non ha approvato le nomine di Dilma a Banca centrale e Ministero delle Finanze. Se Henrique de Campos Meirelles fosse rimasto al suo posto, con ogni probabilità il golpe non sarebbe stato attuato». L’altro obiettivo perseguito dai “tecnici” legati a Temer era quello di scompaginare gli ambiziosi progetti geopolitici disegnati da Lula e dalla Rousseff, osservati con crescente preoccupazione da Washington. Lo ha rivelato l’ex ambasciatore statunitense a Brasilia Thomas Shannon, secondo cui «gli Stati Uniti ritenevano che il Brasile si stesse muovendo verso la costruzione di un blocco internazionale coeso di orientamento progressista destinato ad imporsi come un formidabile ostacolo per il rilancio dell’area di libero scambio delle Americhe, la vecchia Ftaa, patrocinata dal governo Usa».
Così, sotto la supervisione di Meirelles e dei suoi collaboratori, il governo Temer varò un colossale piano di privatizzazioni, introdusse il programma d’austerità meglio noto come Bridge to the Future – molto simile al Government Economic Action Plan messo a punto nel 1964 dalla giunta militare – e apportò sostanziali modifiche alle leggi energetiche che conferivano a Petrobrás, e quindi allo Stato, il controllo esclusivo dei ricchi giacimenti offshore brasiliani che erano stati scoperti nel 2007 al largo delle coste di Santos. Esattamente il tipo di emendamenti di cui ExxonMobil e Chevron (che finché la Rousseff era rimasta al potere avevano accuratamente disertato le aste per l’assegnazione dei contratti di sfruttamento dei giacimenti brasiliani, a differenza di compagnie cinesi e russe) avevano reclamato l’introduzione, come si evince da un cablogramma inviato a Washington nel 2009 dal consolato di Rio de Janeiro pubblicato da WikiLeaks, e che lo stesso governo di Washington sosteneva per ridurre la dipendenza dal petrolio dal Venezuela e da altri produttori appartenenti all’Opec.
Tali misure sembrano peraltro concepite appositamente per “oliare” i meccanismi di evasione ed elusione fiscale di cui si avvalgono gran parte delle grandi imprese multinazionali. Secondo le assai caute stime della Banca mondiale, esse drenerebbero qualcosa come 40 miliardi di dollari all’anno (un trilione di dollari, stando ai calcoli formulati dal Global Financial Integrity) dai Paesi in via di sviluppo. Gabriel Zucman, professore di economia presso Berkeley, ha quantificato in circa 130 miliardi di dollari l’ammontare di denaro sottratto annualmente al fisco dei Paesi in via di sviluppo dalle sole multinazionali statunitensi mediante transazioni effettuate di concerto con istituti di credito impiantati a Wall Street e nei più noti paradisi fiscali.
Ma per evitare un “ritorno di fiamma” del Pt, suscettibile di invertire il processo di allineamento del Brasile al Washington consensus avviato da Temer, occorreva eliminare l’ultimo ostacolo, rappresentato dal ritorno di Lula, nei confronti del quale fu orchestrato un vero e proprio golpe giudiziario, come documentato dalla clamorosa inchiesta condotta da Glenn Greenwald di «The Intercept». Da cui è emerso che il giudice Sérgio Moro e il pubblico ministero Deltan Dallagnol, a capo del pool che mise in piedi l’inchiesta Lava Jato, costruirono di comune accordo l’impianto accusatorio contro l’ex presidente, accusato di corruzione sulla base (anche) di intercettazioni effettuate senza autorizzazione, attraverso una lunga serie di messaggi via Telegram.
Stando alla ricostruzione di Greenwald, i due magistrati nutrivano forti dubbi riguardo alla solidità del caso, e concordavano sulla necessità di impedire a Lula, già condannato e in carcere (e infine assolto assieme alla Rousseff e ai ministri dei rispetti governi), di rilasciare un’intervista che avrebbe potuto tirare la volata elettorale a Fernando Haddad, il candidato del Pt. Come se non bastasse, Moro impedì il sequestro dei telefoni cellulari appartenenti a Cunha, fortemente sospettato di aver pianificato l’acquisto dei voti necessari a rovesciare la Rousseff, e suggerì ai giudici autori dell’inchiesta di lasciar deliberatamente trapelare alcune dichiarazioni rese dai vertici della società edile Odebrecht – finita al centro di Lava Jato dopo esser stata identificata da Washington come il cuore pulsante dei progetti di integrazione continentale attribuiti al Pt – agli inquirenti brasiliani sul conto di alti esponenti del governo di Caracas, che in quella fase aveva appena rimosso il procuratore generale Luisa Ortega Díaz, critica di Maduro e «alleata dei pubblici ministeri di Lava Jato», che grazie ai fascicoli messi a sua disposizione dai giudici brasiliani presentò contro due alleati del presidente venezuelano pesanti accuse di corruzione.
Nei mesi successivi, la Ortega Díaz pubblicò sul suo blog il filmato di una deposizione resa da Euzenando Azevedo, ex di¬rettore di Odebrecht in Venezuela, ai pubblici ministeri brasiliani nell’ambito di Lava Jato, coperta da segreto istruttorio. Nel vi¬deo, Azevedo ammetteva di aver erogato 35 milioni di dollari a favore di Maduro per sovvenzionare la sua campagna elettorale del 2013. Significativamente, il filmato pubblicato dalla Ortega Díaz si interrompeva prima che lo stesso Azevedo riconoscesse di aver effettuato una donazione parallela di 15 milioni di dollari era chiaramente quello di gettare discredito sul presidente e su Psuv in vista delle elezioni amministrative dell’ottobre 2017, e di fornire allo stesso tempo all’amministrazione Trump un pretesto valido per intensificare la pressione economica, diplomatica e mi¬litare sul Venezuela. Come riporta «The Intercept»: «il team di Lava Jato aveva sperato che la Ortega Díaz si avvalesse delle informazioni fornitele in sede giudiziaria, ma con la sua rimozione dall’incarico fece tramontare questa ipotesi. Messa sotto scacco dal governo Maduro, la Ortega Díaz andò in esilio autoimposto e, dopo una sosta in Colombia, volò a Brasilia per incontrare il procuratore generale brasiliano […] trasformandosi come il raccordo cruciale per la cooperazione clandestina con le controparti venezuelane [interessate a far crollare il governo]».
Il nome del giudice Moro compare inoltre in un cablogramma del 2009 pubblicato da WikiLeaks, in cui si parla di una sua partecipazione a una serie di conferenze organizzate dal Dipartimento di Giustizia statunitense per instaurare un rapporto di stretta collaborazione finalizzato ad affinare le tecniche di contrasto a reati di natura finanziaria quali la corruzione, il riciclaggio di denaro sporco e l’evasione fiscale. In realtà, la cooperazione in materia giudiziaria tra Brasile e Stati Uniti risaliva alla seconda metà degli anni Novanta, quando, sotto il governo di Fernando Henrique Cardoso, Dea e Fbi aprirono propri uffici in Brasile, iniziarono lavorare a stretto contatto con la polizia federale brasiliana e si occuparono della formazione di numerosi agenti. In tale contesto, il fatto che Dallagnol abbia evidenziato all’attenzione di Moro che la decisione riguardo alle modalità attraverso cui far procedere le indagini in merito all’inchiesta Lava Jato «richiedono un’articolazione con gli americani» non desta eccessivo stupore. Tanto più alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden, che nel 2013 svelò la sorveglianza sistematica perpetrata dalla Nsa contro Dilma Rousseff e i vertici di Petrobrás, dalla presenza di “funzionari pubblici statunitensi” in Brasile durante le indagini (accertata dal procuratore generale Raquel Dodge), e delle esternazioni rese nel 2017 dal viceprocuratore generale Kenneth Blanco secondo cui il Dipartimento di Giustizia aveva collaborato con i procuratori brasiliani nella conduzione delle indagini culminate con la condanna di Lula.