La prima prova di muscolarità politica il governo l’ha testata con il decreto cosiddetto “anti-rave“, dando così la dimostrazione della determinazione ad un orientamento repressivo che perfettamente si attanaglia alla fisionomia conservatrice e reazionaria delle forze che compongono la maggioranza parlamentare.
Una prova che ha disgelato ampiamente tutta l’approssimazione con cui quel testo è stato scritto: male in arnese tanto sul piano della comprensione intrinsecamente giuridico-istituzionale, quanto per una claudicanza grammatical-sintattica che faceva apparire il più pelandrone degli studenti il migliore di tutte le scuole della Repubblica.
Chi male comincia così, volutamente per il merito e molto meno per il metodo con cui si è prodigato nell’esprimere la sua politica liberticida, prosegue anche peggio: ne è prova la durezza con cui il ministro dell’Interno sta trattando la vicenda delle navi delle ONG che attendono, con più di mille migranti a bordo, un primo porto sicuro per mettere in salvo persone che, più il tempo trascorre, più potrebbero trovarsi in condizioni di precarietà fisica ed anche mentale.
Ma il governo, mentre tratta a Bruxelles con il viso sorridente del suo Presidente del Consiglio, lasciandosi indietro tutti gli anatemi proferiti contro l’Europa di Bruxelles e Francoforte nei comizi sul patrio suolo e in quelli ispanici rivolti alla platea dei neofranchisti di Vox, per poter avere pieno sostegno agli interventi di natura economica, quando si tratta di gestire emergenze sociali o dipanare problematiche che interessano la comunità, fa la voce grossa e mostra così la doppiezza su cui si gioca il consenso popolare.
Un consenso non di maggioranza, pur avendo vinto le elezioni. Un consenso che non è una delega in bianco da parte dell’elettorato affinché l’esecutivo faccia tutto ciò che pensa di poter fare.
Un consenso che è limitato dai poteri che la Costituzione affida a Palazzo Chigi e che, quindi, non dovrebbe essere trattato – soprattutto dai mass media – come qualcosa di ampiamente scontato quando, ad esempio, il ministro dell’Interno afferma perentoriamente: «Questo governo ha ottenuto un forte mandato elettorale dai cittadini su temi precisi. So cosa devo fare».
Intendiamo la dichiarazione come una dichiarazione di ottima conoscenza dell’impianto costituzionale, della separazione dei poteri che rende equipollenti gli stessi e genera quel sistema di pesi e contrappesi che mettono al sicuro la democrazia da tentazioni di prevaricazioni vicendevoli tra i diversi apparati dello Stato.
Se invece volesse significare che il “forte mandato” ricevuto consente di agire a tutto tondo, di muoversi liberamente, con una disinvoltura tale da eccedere nei propri compiti e nel proprio perimetro di competenze, ad esempio ignorando il diritto che governa le attività marittime e la legislazione internazionale che impone di dare un porto sicuro a chi è in pericolo di vita, allora vedremmo confermato quel tratto muscolare dell’azione di governo già vista con la questione del rave party di Modena.
L’auspicio è che si tratti del can che abbaia ma poi non morde, perché deve scegliere quali dei due comportamenti continuare ad avere o assumere. Ma, sfogliando l’album di famiglia delle destra estrema che ci governa, non c’è poi molto da sperare in una subordinazione oggettiva dei propositi programmatici e ideali della maggioranza reazionaria ai dettami e ai fondamentali della Costituzione repubblicana.
Non si tratta soltanto di una aderenza tra i desiderata delle destre e il concretizzabile attraverso le interpretazioni un po’ leguleiche che si possono addurre in forma di alibi per un operato che, per l’appunto, va oltre le regole stesse nella loro applicazione più latamente data.
Si tratta, semmai, di quanto spazio si possa lasciare ad un governo che ha già dimostrato di voler andare oltre la punta del diritto, di concedersi tutto il possibile e adoperare le istituzioni per simulare una difesa degli interessi collettivi e dei beni comuni che, invece, è in realtà solo un miserando specchietto per le allodole.
L’arte della dissimulazione è un tradizionale tratto distintivo dell’infigarderia delle forze peggiori del conservatorismo. Quanto meno di quello novecentesco.
Tutti i partiti che hanno instaurato dei totalitarismi in Europa, in America ed anche in altre parti del mondo, hanno scientemente mentito ai popoli, hanno fondato la loro incultura politica su un piano inclinato di falsità che ha raggiunto livelli tanto stratosferici da essere elemento costituente di una vera e propria rivoluzione reazionaria, mostrandosi vittime mentre erano carnefici, aggrediti mentre erano aggressori, al centro di complotti mondiali mentre ne preparavano fino ad arrivare alla grande tragedia delle guerre mondiali.
Ciò vale per tutti i regimi che hanno cercato il controllo sociale, che hanno disposto che la forza dello Stato involvesse da tutela dell’ordine pubblico a repressione sul pubblico, su tutti quei fenomeni singoli e collettivi che potevano in qualche modo minare la visione politica e la disposizione programmatica che intendeva concretizzarla, impedendo in questo modo al totalitarismo di dispiegarsi nella pienezza della sua deflagrante antisocialità e antidemocraticità.
Il tema della doppiezza governativa, di cui qui stiamo scrivendo a grandi linee, si potrebbe anche derubricare alla voce della consuetudine della politica, per come abbiamo imparato a conoscerla nella sua deformazione quasi naturale.
Un’abitudine a leggere nell’esercizio dell’unità tra idealità e amministrazione della res publica, tra proposta programmatica e gestione concreta dell’amministrazione dello Stato e della vita dei cittadini, soltanto la perversione messa in essere da un concetto esclusivamente privato della politica stessa. Attuato però tramite l’accesso alle istituzioni. E’ il berlusconismo come caratterizzazione socio-politico-cultural-industriale degli ultimi trent’anni di vita italiana tanto della quotidianità di noi tutti quanto di quella del “palazzo“.
La politica, così percepita per decenni, si è divisa tra la mera attitudine propagandistica – quindi tesa alla sola acquisizione del consenso popolare tramite le più disparate promesse altisonanti e i più veementi proclami contro questo o quel nemico di turno – e il farsi gli affari propri una volta al governo del Paese.
Intendere in questo modo oggi l’avvento dell’era meloniana, della destra di lotta e di governo, del sovranismo neonazi-onalista, sarebbe oggi un pericoloso fraintendimento di quanto sta avvenendo: a partire dai primi segnali rappresentati dal decreto “anti-rave” alla riproposizione delle politiche salviniane in tema di blocco dei porti e di respingimento disumano dei migranti.
Quando le argomentazioni dell’ex ministro dell’Interno, prestato ora alle Infrastrutture, si riducono all’indicazione della Norvegia come terra di sbarco per persone raccolte nel mezzo del Mediterraneo da navi che battono la bandiera di Oslo, non è concesso esercitarsi nel riduzionismo delle parole, delle dichiarazioni a mezzo Internet, ritenendole delle stravaganze che possono essere corrtette dal confronto all’interno della compagine di governo.
Le potenzialità negative, sul piano sociale e civile, morale ed etico, civico e anche culturale, di questo governo sono tante e tali da non lasciare davvero spazio ad interpretazioni di sorta: siamo innanzi alla peggiore congiuntura politica degli ultimi cinquant’anni. Forse anche di tutta la vita ultrasettantennale della Repubblica. E quello che questo esecutivo potrà permettersi di fare non è dato soltanto dalla legittimità democratica del voto, per quanto limitata dai presupposti costituzionali, dalle leggi in vigore e dai rapporti internazionali.
Non possiamo lasciare che a fermare l’azione reazionaria del governo sia il caso oppure il diritto richiamato di volta in volta dai giudici (accusati ovviamente di fare politica e di voler ostacolare l’azione delle forze alla guida del Paese). Non possiamo permetterci tutto questo.
Dobbiamo prendere consapevolezza che la mediazione del liberismo forzitaliota oggi non serve più come membrana contenente gli estremismi, come forma mentis di una destra che può apparire rispettabile attraverso l’imprenditore che è “sceso in campo” per difendere sé stesso e il padronato da legiferazioni anche soltanto timidamente di sostegno al mondo del lavoro e per i diritti dei più deboli.
La destra fratellitaliana è ormai andata oltre: si accredita in Europa grazie alla disfunzionalità delle istituzioni di un aggregato continentale che ha mille contraddizioni, che è privo di una omogeneità valoriale che i trattati non garantiscono e che, anzi, hanno contribuito – come nel caso di quello di Dublino sui migranti – a permettere la differenziazione tra gli Stati nella gestione delle emergenze, nell’esponenzialità delle discriminazioni e nell’aumento vertiginoso dei consensi per forze estremiste, razziste e xenofobe che hanno cavalcato il tema di una “invasione” che è diventata sinonimo di “sostituzione etnica“.
Fino a questo punto, almeno per ora, il governo italiano non è arrivato, mentre quello ungherese – suo diretto corispettivo politico insieme a quello polacco e a certe tendenze oscurantiste del resto dei paesi di Visegrad – sì e riaffermando più volte proprio il carattere instrinsecamente pernicioso delle migrazioni, mettendo in un cono d’ombra e di oblio tutte le sofferenze di chi lascia le proprie terre per cercare una salvezza per sé e per la sua famiglia mettendo a repentaglio la vita stessa.
I diritti degli Stati prevalgono su quelli umani, su quelli civili, su quelli sociali quando a governare i processi decisionali sono forze politiche che fanno del nazionalismo l’eslusivismo moderno, senza bisogno di mostrarsi troppo razzisti o xenofobi a parole.
La doppiezza istituzionale, così, diventa una caratteristica ancora peggiore dell’utilizzo degli apparati dello Stato per scopi privati o per tutele di privilegi di casta e di classe. Perché la doppiezza istituzionale che abbiamo provato qui a descrivere contiene quella che già conoscevamo, se ne alimenta e può trasformarsi in qualcosa che ancora oggi ci sfugge.
Il diritto di governare non dà il diritto di fare tutto ciò che si vuole. La democrazia è rispetto delle minoranze e di chi la pensa differentemnte, così come di chi è costretto a sopravvivere diversamente da come invece vivono i ricchi, gli imprenditori, i finanzieri che sono i principali sostenitori del nuovo corso meloniano.
Sorrisi di circostanza, vestiti di Armani e rispetto del galateo istituzionale nazionale e continentale per ora possono bastare a mostrare tutta la serietà di un governo che è un Giano Bifronte e da cui bisogna guardarsi giorno per giorno, ora per ora. Senza tregua.
MARCO SFERINI