Non si può parlare al plurale di “manifestazioni per la pace“, perché, chi a Milano si è riunito nel nome di questa Araba Fenice, lo ha fatto con una piattaforma che prevede la continuazione della guerra. Sic et simpliciter.

Niente di più e niente di meno. Triste ma vero: nonostante il governo nero dell’estrema destra conservatrice e reazionaria, ci sono forze dell’opposizione che la scavalcano ancora più a destra nel tentativo di coniugare l’impossibile: la pace e l’invio delle armi, la pace e la continuazione della guerra per interposte persone, per procura, per accettazione passiva del programma espansionistico della NATO contro quello altrettanto espansionistico dell’imperialismo putiniano.

La riconfigurazione geopolitica del neocentrismo rappresentato da Calenda, Renzi, Moratti (appena dimessasi dalla vicepresidenza della Regione Lombardia a trazione leghista) passa pure attraverso un revisionismo del pacifismo che, del resto, non è una novità.

Le tante guerra che si sono combattute con l’apporto delle nostre forze armate, a far data dalla prima guerra del Golfo persico fino ad oggi, sono state giustificate con la preservazione di un ordine mondiale fondato su una democrazia liberale (e liberista) per cui valeva la pena forzare l’impianto costituzionale, vilipenderlo nel nome della partecipazione italiana al grande consesso internazionale dei cosiddetti “paesi liberi“.

Quindi, è lampante la riproposizione di un cinico giochetto politico di forze parlamentari antisociali, aspiranti a rappresentare quel ceto medio e quello imprenditoriale che fa affari anche con le guerre e che, se nella destra tradizionale trova il suo centro di gravità permanente, il suo fulcro e il suo punto di sostegno più convinto, negli esperimenti di compattamento del centrismo di nuovo modello può fare affidamento da ora in poi senza se e senza ma.

Le piazze per la pace non esistono, se intese nella dualità che si è voluto pretendere di interpretare da parte calendiana,  renziana e morattiana. Esistono, invece, se le si pensa come la riproposizione tale e quale della grande manifestazione romana in cui sindacati, associazioni di base laiche e cattoliche, comitati, movimenti e partiti della sinistra di alternativa, del progressismo in via di sviluppo hanno dato prova di unità e di inclusione.

Nonostante la contraddittoria presenza del Partito democratico, che infatti si divide oggettivamente tra Roma e Milano, pur essendo presente nell’evento capitolino ufficialmente e senza distinguo con la piattaforma su cui è nata e si è sviluppato il richiamo arcobaleno di “Europe for peace – Rete Italiana Pace e Disarmo“, non esiste alcuna ragione per separare un movimento per la pace anche in presenza di evidenti discrepanze.

Ci serve la maggiore adesione possibile, sindacale, associativa, politica, di movimento, popolare e sociale per interpretare dal punto di vista anche istituzionale quel sentimento fortemente radicato nei cittadini che fa dire in ogni sondaggio proposto che l’invio di armi al governo e all’esercito ucraino e, quindi, il sostegno alla politica militarista e del riarmo NATO è una posizione largamente minoritaria nel Paese.

Se, da un lato, non è possibile non stigmatizzare l’ambiguità con cui, anche in questo caso, il PD entra ed esce nei processi di formazione del senso comune tanto sociale quanto politico, impedendo a sé stesso di fare chiarezza su “ciò che vuole fare da grande” in vista del congresso nazionale che terrà nella primavera del 2023, dall’altro lato è doveroso prendere atto dello sforzo che si prova a fare – forse un po’ ruffianamente e, quindi, con un epilogo un po’ farsesco – di ridisegnare i propri contorni, di riavvicinarsi a posizioni che prendano le distanze, ad esempio, dalla esigua, piccola piazza calendian-morattiana.

Non è sufficiente ancora a far dire che il PD è cambiato, visto che promette, a stretto giro di posta, di valutare i provvedimenti del governo in materia di invio di nuove armi: non c’è un secco NO, proprio nel nome della pace, ma un perenne tergiversare per non dissipare quel tesoretto di elettorato e di consenso che viene conteso oggi proprio con Azione, Italia Viva e pure con quella Forza Italia che sta oltre il confine delle opposizioni.

Così facendo, il Partito democratico non risolve le sue contraddizioni, le prolunga e rischia di logorarsi ulteriormente mentre si avvia all’assise congressuale.

Pare di assistere ad una nemesi storica o, molto più banalmente e semplicemente, ad una coazione a ripetere errori da cui non si impara perché, oltre alla capacità ormai manifesta del partito di Letta di infliggersi sconfitte masochisticamente preventive, prima ancora quindi di andare al voto, durante tutta la campagna elettorale e ora anche dopo, sembra sussistere un enigma da Cappellaio Matto, una domanda che è destianta a restare senza una risposta: da che parte sceglierà di stare il PD?

Ammesso che si possa ancora parlare del PD in futuro, dopo il congresso marzolino, visto che l’esistenza dello stesso è legata ad una duplice natura che si rifà ad un dualismo innaturale, antistorico e illogicamente calato nella modernità di una politica italiana che si è voluto americanizzare per sostenere meglio il capitalismo nazionale e continentale, per estinguere tanto quelli che venivano considerati gli estremi della sinistra quanto i presupposti di una rinascita di una sorta di Balena bianca in salsa bimillenaria.

Se è, dunque, chiarissimo che le piazze di Roma e di Milano hanno praticamente in comune il nulla, non è affatto chiaro come la pensi, alla fine, il gruppo dirigente del PD che si posiziona nel corteo romano «con la testa e con il corpo» dicono i vicesegretari democratici, ma che ha una costola adamitica anche nella città meneghina, dove si espongono le bandiere ucraine, dell’Europa e della NATO. Dove si rivendica il diritto pieno di cantare “Bella ciao” nel nome della resistenza di un popolo che è la vera vittima dei contendenti in campo.

Qui si mescolano revisionismi attualistici e storici, contorsioni di una politica pasticciata e pasticciona, volutamente creatrice del caos, affidata ad una immaginazione del futuro piusttosto che ad una programmazione del medesismo.

Bisogna darne atto a Calenda: in quanto a cristallinità e chiarezza sulle rivendicazioni di Azione e Italia Viva, niente da dire. No con i pentastellati, sì al liberismo più sfrenato, sì alla NATO incondizionatamente e pieno appoggio all’imperialismo americano. La destra di governo si distingue “solamente” sui diritti incivili che vorrebbe sostituire a quelli conquistati con decenni di lotte veramente civili e pure di stampo sociale.

Ma il PD, prigioniero della suo bifrontalismo, di un bipolarismo politico psicanaliticamente inteso, incapace di separarsi dall’origine socialdemocratica che lo spinge verso un residuo pallido di giustizia sociale sempre più anacronistica per una forza liberal-liberista e, parimenti, altrettanto impossibilitato a sganciarsi dall’altra origine, quella popolare, che lo vincola ad un’equidistanza tra ragioni del lavoro e ragioni del padronato, resta nella palude di una batracomiomachia tutta interna a sé stesso, incomprensibile per la maggior parte del suo elettorato.

Al trasformismo non c’è mai fine e non c’è mai peggio: ma è davvero molto difficile immaginare un PD che sia l’esatto opposto di ciò che è stato fino ad oggi. Dovrebbe avere la duttilità dei Cinquestelle, la capacità di mutare forma, di adeguarsi resilientemente ad un corso degli eventi che smentirebbe così tutto quello che è stato fino ad oggi: una delle cause prime della rovina della sinistra in Italia, del deterioramento dei diritti del lavoro e, ultimo ma non ultimo, della conquista di Palazzo Chigi da parte delle destre peggiori.

Un tempo si accusava Rifondazione Comunista di essere la responsabile dell’avvento dei governi di Berlusconi, per il suo differenziarsi rispetto alle politiche del centrosinistra: dei DS prima e del PD poi. La storia dell’ultimo trentennio di vita dell’Italia, sempre più povera e sempre meno garantita nei diritti sociali, nella tutela del mondo del disagio, della precarietà, dell’incertezza del futuro per milioni e milioni di lavoratori e di non-lavoratori, adesso inizia a dare ragione a quelle rivendicazioni che i comunisti hanno sempre avanzato.

Dalla legge elettorale maggioritaria alle privatizzazioni a tutto spiano, dalle controriforme pensionistiche alla divisione classista di un regionalismo a cui sono stati dati poteri in materia di direzione di comparti come la sanità che, durante la pandemia, è apparsa del tutto impreparata e altamente differenziata da Nord a Sud nella risposta all’attacco del Covid-19.

E poi ancora dalla rivendicazione di un fisco efficiente, di una lotta all’evasione fiscale senza tregua, fino alla patrimoniale come svolta vera e propria di un modo di intendere il rapporto dello Stato con le enormi ricchezze cumulate da speculatori, finanzieri e imprenditori, tante sarebbero state le possibilità concrete di mettere in essere politiche sociali che avrebbero consentito la riconoscibilità della sinistra sia moderata sia “radicale“.

Ma il progetto del PD era, è ancora altro. Era ed è la pace sociale, la negazione della lotta fra le classi, la stabilizzazione dell’economia dal punto di vista esclusivo del mercato e del capitalismo. E’ un consociativismo tra politica ed economia che ha teso a rappresentare appieno le ragioni del liberismo e a considerare il lavoro come variabile dipendente dello stesso.

Vi ricordate il responso della Sibilla al soldato che la andò a consultare prima di andare in guerra? Recitava così: «Ibis, redibis non morieris in bello». Bastava spostare la virgola dopo il “non” e la frase cambiava completamente di senso: «Andrai, tornerai, non morirai in guerra» diveniva: «Andrai, non tornerai, morirai in guerra» («Ibis, redibis non, morieris in bello»).

Con il PD è la stessa, indentica cosa: a seconda di dove sceglieranno i democratici di mettere la virgola nella loro essenza politica, la ragione sociale o consociativa del partito apparirà capovolta, ma dimostrarà ancora una volta tutta la fragilità di un progetto che, per rendere un po’ di giustizia alla sinistra e al progressismo in Italia, dovrebbe superarsi completamente. Lo ha detto, tra le prime, Rosy Bindi che, a quando è dato sapere, non è una pericolosa estremista di sinistra. Ma certamente più a sinistra di tanti che ancora oggi nel PD si proclamano tali.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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