Unendo i puntini, il disegno che compare è alquanto inquietante. Russia, NATO ed Europa in guerra, l’Italia del governo reazionario di Giorgia Meloni che fa le selezioni dei naufraghi che non possono nemmeno trasformarsi in migranti richiedenti asilo, i decreti repressivi che prendono a pretesto i rave party per limitare e contenere il dissenso e la critica organizzati, le parole di Guterres sulla ormai iperpotenziale irreversibilità del mutamento climatico che minaccia tutte le specie e, ultimo solo in ordine di tempo, l’appuntamento con il revanchismo trumpiano nelle elezioni di medio termine nella grande Repubblica stellata.

Ce n’è abbastanza per dichiarare il fallimento complessivo dell’umanità e sedersi in riva al fiume inquinato per vedere passare cadaveri di soldati, di civili, animali uccisi dalla siccità e bambini africani dalla fame, per assistere impietosamente, e con una certa dose di elevato cinismo, alla mutazione genetica della democrazia italiana in un regime di conservatorismo illiberale ad alto tasso di tossicità nazionalista.

Ce ne sarebbe abbastanza per distaccarsi da tutto, ritirarsi su un eremo e stare ad osservare l’andare delle cose, magari pure senza un atteggiamento cinico, ma con la rassegnazione di chi ritiene di aver fallito un tentativo di rivoluzione sociale, economica, politica, di riconversione civile di una umanità priva di scopo e di senso se non quello del microcosmo danaroso e profittizio.

Ce ne sarebbero di motivi per alienarsi dal cosiddetto “villaggio globale“, teorizzato così bene nei primi anni ’80 e nei seguenti anni ’90 quando, andando alla ricerca di una nuova narrazione dell’esistente che si proiettasse in un futuro in cui la critica anticapitalista fosse in grado così di rifondarsi ed adattarsi ai tempi, si preconizzavano gli incerti destini di un mondo globalizzato a metà: solo per quanto riguardava gli scambi economici, la merceologizzazione devastante che trapassava tutte le barriere doganali, che infrangeva tutte le regole e che inventava nuovi bisogni fittizi per autoalimentarsi e fare capolino nel nuovo millennio.

Le scorie di un capitalismo liberista inventato a partire dagli anni ’70 sono oggi tutte intorno a noi.

Se ne vedono gli effetti turbolenti nei conflitti sparsi per il pianeta, nella vittoria del capitale sulla solidarietà sociale, nell’avanzata di ipotesi estreme, di radicalizzazioni del conflitto non sul terreno della lotta di classe, che parte dal mondo del lavoro per il mondo di tutti gli sfruttati, ma che abbraccia le soluzioni più fanaticamente autarchiche, dal retrogusto autoritario e corporativo, aspirando a coniugare ancora una volta reazione politica e “libera” impresa economica.

Il segretario generale delle Nazioni Unite fa giustamente appello alla responsabilità vicendevole, ad una presa di coscienza collettiva, ad un mutualismo tra nazioni, poteri, governi e popoli che, per realizzarsi veramente, dovrebbe necessitare di un sovvertimento di quelle stesse sovrastrutture istituzionali che poggiano su una economia che è veramente la struttura portante del disastro globale in cui siamo pienamente immersi in questo nuovo millennio.

Il discorso di Guterres rischia di apparire un esercizio di mera retorica se non lo si decontestualizza proprio a partire da quella messinscena di buone intenzioni che è la Conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici.

Intendiamoci: le Nazioni Unite sono le ultime, nella scala antivaloriale delle responsabilità oggettive e fattive di tutto quello descritto poche righe sopra, ad essere citabili davanti al tribunale della Storia per colpe dirette in merito ai mutamenti disumani nei confronti dell’umanità stessa, del mondo animale e di quello propriamente detto e chiamato “Terra“.

L’ONU, col passare dei decenni, è diventato sempre meno rappresentativo di sé stesso prima ancora che delle nazioni che lo compongono. Il diritto internazionale è stato surclassato dagli interessi dei grandi poli capitalistici e liberisti che si sono affermati da quarant’anni a questa parte, affievolendo la caratura dell’organizzazione nata dalle ceneri della Società della nazioni quasi per consunzione, davanti all’avanzata prepotente del mercato e dell’accumulazione indiscriminata di ricchezze in ristretti margini di pianeta.

Noi malediciamo le guerre, inveiamo contro le migrazioni, ci lamentiamo per il caldo asfissiante dell’estate torrida appena trascorsa, alziamo invettive al cielo quando piove troppo e si allagano città, paesi, campagne; ci regaliamo un alibi sulle guerre lontane, che non ci toccano direttamente, e siamo pronti ad essere tutte e tutti solidali verso gli ucraini quasi per moda più che per convinzione, per una vera coscienza pacifista e pacificatrice.

E quando facciamo tutto questo, non pensiamo – come ha giustamente sottolineato Guterres – che tutte le tragedie di questo mondo agonizzante sono contenute nel mondo stesso e che la nostra casa ci sopravviverà in qualche modo, a meno che non la si faccia detonare mettendole nella pancia chissà quante bombe atomiche e deviandone la rotazione, il suo corso naturale dal tempo di Big Ben ad oggi.

Ma noi – cantavano “I Nomadi” – non ci saremo. E non perché sarà scaduto il tempo della nostra singola vita, ma perché sarà scaduto il tempo della specie umana nel suo complesso, nella sua straordinaria particolarità che l’ha resa antropocentrista all’ennesima potenza.

Proprio la sopravvivenza a discapito di tutto e di tutti è alla radice di una distorsione endemica del potere: già di per sé la suddivisione in classi della società è un fatto negativo, perché – come abbiamo potuto vedere negli ultimi duecento anni – permette un allargamento della forbice tra benestanti e indigenti tale da ridurre la ricchezza nelle mani di sempre meno persone che sfruttano il resto dell’umanità, degli animali non umani e della natura per mantenersi quei privilegi che le derivano dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dal diritto di eredità degli stessi e del resto dei beni dei loro avi.

La sopravvivenza a discapito del nostro vicino; quella a discapito di altre specie; quella a discapito della natura stessa. Ma si può sopravvivere davvero in questo modo?

Guterres  ha fatto un discorso encomiabile, ma rivolto a chi non ha il minimo interesse economico a cambiare le politiche di contenimento dell’inquinamento, della devastazione di mari, foreste, e di stravolgimento degli equilibri globali di un sistema naturale che non può reggere otto miliardi di persone che sono costrette a consumare in piccola parte secondo le regole dal capitalismo liberista (quindi eccedendo nei consumi fittizi, alimentando involontariamente le dinamiche speculative e l’accumulazione che ne è conseguente) e a morire in larghissima parte per le stesse identiche ragioni.

Se si vuole prendere in considerazione una svolta vera e propria, un capovolgimento del sistema, bisogna rivolgersi ad un’altra platea: quella dei popoli, quelle grandi masse che vengono fatte passare per passive e, magari, tiepidamente collaborative nei confronti dei “buoni propositi” dei governi e degli agglomerati statali creati solo per la difesa degli interessi di un determinato mercato transnazionale nella competizione globale.

Ma l’impressione è che i grandi discorsi istituzionali, nonostante contengano dei moniti ormai resi evidenti dall’impellenza delle scadenze epocali e tombali che abbiamo davanti, siano veramente molto poco attrattivi e non stimolino quella coscienza critica che invece è necessaria per rovesciare la situazione globale e locale. L’impressione ulteriore è che l’iniziativa la debbano prendere le masse di sfruttati e di indigenti che vengono abbindolate dal merceologismo e sedotte da una competizione continua nel corso dell’esistenza.

Mentre discutiamo delle sorti del pianeta e della specie (dis)umana, i cinesi sviluppano tecnologie capaci di collegare energeticamente posti lontani tra loro decine di migliaia di chilometri, acquisendo quelle stesse capacità di produzione delle stesse senza dover dipendere da altri. Questo esclusivimo non è il comunismo moderno del partito di Xi Jinping. Questo esclusivismo è una particolarità espressa del liberismo più sfrenato: è la corsa allo scontro tra le grandi potenze economiche per la prevalenza dell’una sull’altra, di un potere su un altro a tutto discapito dei popolo che vivono in questi enormi agglomerati di interessi assolutamente privati.

Non può l’animalità nel suo complesso (umani e animali “propriamente” intesi fino ad oggi) essere sacrificata, unitamente a Gaia, sull’altare della tecnologia UHVDC (per intenderci, ciò che Pechino sta sostenendo nella lotta mondiale sulle telecomunicazioni, l’energia e tutto l’indotto di mercato che lancia sulla scena mondiale e che, srotolato l’acronimo vuol dire “Ultra-high voltage direct current“) o su una ricerca scientifica sempre più piegata agli interessi non collettivi ma di singole grandi aziende che puntano alla corsa spaziale, alla conquista di Marte e alla colonizzazione della Luna…

Il capitalismo è enorme in tutti i sensi: nell’aumento esponenziale di ricchezza e di poverta, di progresso scientifico e di arretramento inumano dei diritti fondamentali di ciascuno e di tutti, nel creare la bellezza e nel metterla al cospetto, parimenti, dei più grandi orrori mai visti come gli stermini calcolati di interi popoli, come il fare la guerra sempre e soltanto sulla pelle di quei popoli.

Guterres non può farlo, ma noi tutti sì. Possiamo essere, ciascuno nel suo ambito, protagonisti di un cambiamento che non può consertirsi procrastinazioni, ma deve imporsi una immediatezza, seppure ragionata e non meramente istintiva. Anche se, ogni tanto, seguire l’istinto non ci farebbe male. Ma partendo da una coscienza collettiva e non dal “si salvi chi può” che diviene, estremizzato come nel liberismo del nuovo millennio, esclusione, allontanamento, discriminazione, respingimento.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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