Relazione all’assemblea del collettivo de La Città Futura del 5 novembre sulla condizione del proletariato a livello mondiale e italiano.
La globalizzazione neoliberista
A partire dalla seconda metà del secolo scorso e fino all’incirca alla crisi del 2008, si è imposta gradualmente, insieme al modello neoliberista, una nuova divisione internazionale del lavoro. Molte attività economiche venivano delocalizzate nei paesi emergenti, per lo più fornitori di materie prime e di prodotti di basso livello e basso costo. La ricchezza dell’Occidente derivava dal saccheggio del Sud.
Altra caratteristica del panorama mondiale è stata il dominio del dollaro che permetteva agli Usa di vivere ben al di sopra della propria capacità produttiva.
Con il crollo del campo socialista anche il proletariato dell’ex Urss e dei paesi satelliti è andato in rovina. Per esempio in Russia si è verificata una drastica riduzione – di circa 10 anni in un quinquennio! – della speranza di vita.
La competizione economica al ribasso delle condizioni dei lavoratori penalizzava anche i lavoratori del primo mondo, che subivano la concorrenza dei disperati del terzo.
I cambiamenti nell’organizzazione del lavoro hanno prodotto una modifica nella composizione del capitale: aumenta la quota costante, cioè i mezzi di produzione, in rapporto a quella del capitale variabile, la forza-lavoro, quale effetto della sostituzione dei lavoratori con macchine. In Italia, per esempio, l’intensità capitalistica dei processi di produzione nella manifattura è cresciuta del 22%.
Altro fenomeno è stato la scomposizione delle fasi lavorative e conseguente scomposizione della classe proletaria in numerosi pezzi: lavoro stabile, lavoro precario, finti autonomi, disoccupati e sottooccupati, nuovo schiavi, pensando soprattutto ai migranti clandestini e ai super sfruttati del terzo mondo.
Con l’aumento dei capitali in circolazione si è verificata una notevole sovrapproduzione, le cui conseguenze negative si sono scaricate preferenzialmente sul capitale variabile, sulla forza-lavoro, con una perdita di salari e di diritti un po’ ovunque.
Si è verificato pure un notevole aumento dell’incidenza dei lavori immateriali, di nuove professionalità che l’ideologia dominante ha teso ad arruolare in un campo diverso, a volte avverso, a quello degli altri lavoratori, mentre il loro interesse sarebbe di unirsi in un fronte comune. Questi lavoratori spesso vivono, nonostante l’alto livello di istruzione, posizioni lavorative deprimenti sia per precarietà e retribuzione, sia per processi lavorativi alienanti, sia per riconoscimento della loro professionalità.
La sovrapproduzione ha anche ingrossato l’esercito industriale di riserva. Per esempio, la sola crisi del 2008 ha bruciato in Italia 800 mila posti di lavoro.
Nelle economie sviluppate, tra il 1999 e il 2011, la produttività media del lavoro è cresciuta più del doppio dei salari reali. Guardando un periodo più lungo, in Italia, mentre nel 1979 il 68% del valore aggiunto, che da marxisti sappiamo scaturisce solo dal lavoro, andava ai salari, nel 2000 ci andava solo il 52%.
Se si considera l’area dell’Euro, non c’è dubbio che la nuova valuta abbia svolto un ruolo importante nella repressione salariale, in quanto l’impossibilità di manovrare i cambi ha ridotto la ricerca della competitività nel mercato internazionale alla sola svalutazione del lavoro.
Un’inversione di tendenza
Tutto lascia pensare che a partire dalla crisi del 2008 questo ciclo si vada chiudendo per i paesi emergenti, che una parte di mondo sceglie vie diverse, anche nell’ambito del capitalismo, e che questo suo smarcamento dalle politiche liberiste gli permette di raggiungere elevati tassi di crescita, marginalmente scalfiti dalla crisi stessa.
La Cina non è più solo la fabbrica di prodotti di scarsa qualità e sottocosto ma in competitore anche nelle produzioni di qualità e nelle tecnologie avanzate. A partire dal XIX congresso del Pcc, l’obiettivo della crescita economica, pur sempre prevalente, è stato affiancato a quello di una crescita dei consumi interni, di una riduzione delle sperequazioni e di un miglioramento dell’ambiente. Il recentissimo XX congresso si è svolto nel segno di un ulteriore ampliamento di queste attenzioni.
La Russia è ancora insufficientemente sviluppata. Il suo Pil non raggiunge quello italiano. Ma, a partire dall’avvento di Putin, si va smarcando dalla sudditanza agli imperialismi occidentali, pur restando essenzialmente un fornitore di materie prime, e si riorganizza, anche militarmente, per resistere alle minacce della Nato. La speranza di vita, che era di 64 anni nel 1995, è salita oggi a 72 anni, avvicinandosi a quella dei paesi occidentali.
Vi sono poi molti paesi in Asia, America Latina e Africa che cercano di smarcarsi dal dominio del dollaro, talvolta pagandola molto cara, come successe a Gheddafi. La percentuale di riserve in dollari delle banche centrali è già calata dal 70 al 57%. Questi paesi, insieme a Russia, Cina e India, vanno costruendo un fronte che tende a mettere in soffitta l’unipolarismo.
La guerra in Ucraina non è altro che la punta dell’iceberg di un sommovimento in cui stanno cambiando i rapporti di forza internazionali e in cui gli Usa stanno tentando disperatamente (e molto pericolosamente) di conservare la loro egemonia con la guerra, essendo il terreno militare l’unico in cui ancora primeggiano. Basti ricordare che mentre il producono circa il 15% del Pil mondiale, spendono circa la metà della spesa mondiale in armamenti.
Il risultato di questa inversione di tendenza è un’elevazione delle condizioni di vita dei lavoratori e, soprattutto in Cina, l’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di persone.
Questa parziale emancipazione del proletariato dei paesi emergenti, insieme con l’abbassamento dei diritti di quello del primo mondo, riduce il gap che costituiva un vero e proprio ricatto verso la classe lavoratrice occidentale. Infatti si assiste recentemente anche a rilocalizzazioni (reshoring), a ritorni di aziende e capitali in patria o addirittura a investimenti all’estero della Cina che non molti anni or sono era il principale importatore di capitali.
IL fenomeno dell’elevazione delle classi lavoratrici dei paesi emergenti e la conseguente minore pressione concorrenziale con i lavoratori dell’Occidente, ci dice anche che le conquiste in un emisfero potrebbero aiutare le conquiste nell’altro emisfero e che quindi sarebbe utile un sostegno reciproco fra lavoratori dislocati nelle diverse aree del globo.
Purtroppo ciò non è avvenuto. Obama dichiarò a suo tempo di volere “riportare il lavoro a casa”. L’Europa ha seguito il medesimo obiettivo. Ma ciò sulla base di uno scambio concertativo fra occupazione e salari. Quanta repressione salariale è stata necessaria per invertire il senso di marcia della delocalizzazione? Quanta ne occorrerebbe per portare a compimento questo processo?
La dis-organizzazione internazionale dei lavoratori
Lo scioglimento della III internazionale, senza entrare nelle ragioni oggettive che lo determinarono, ha rinchiuso le lotte del proletariato all’interno delle rispettive nazioni con scarsa comunicazione a livello internazionale. Questo tipo di dis-organizzazione del proletariato a livello internazionale non ha più ragione d’essere in un mondo sempre più piccolo in cui il capitale ha ormai aspetti transnazionali, è dotato di forti strumenti di coordinamento sia sul piano economico (p. es. Fondo Monetario internazionale, Banca Mondiale, vari G6,7…n) che su quello militare, con il nuovo ruolo della Nato che si va proiettando su tutti gli scenari mondiali.
Questa organizzazione internazionale del capitalismo, che ovviamente non preclude conflitti intercapitalistici, collima ed è adeguata alla centralizzazione del capitale a vari livelli: finanziario, industriale, istituzionale e valutario. Le stesse filiere del valore, che avevamo visto scomposte in molti segmenti, vengono tuttavia coordinate, grazie anche agli strumenti informatici, mentre le holding finanziarie controllano capitali di provenienza geografica diversa.
È significativo che i 2/3 degli Ide (investimenti diretti all’estero) sono costituiti da acquisizioni e fusioni e solo 1/3 nuovi investimenti e che in 20 anni essi sono decuplicati, mentre il commercio internazionale è solo raddoppiato.
Questi movimenti dei capitali non portano benessere ma vanno e vengono a seconda della convenienza. Quando ritornano al paese d’origine determinano crisi finanziarie dei paesi da cui escono i quali divengono oggetto di “salvataggi” da parte del Fondo monetario internazionale in cambio di ristrutturazioni e licenziamenti.
In Italia, fino alla metà degli anno 90, gli Ide erano di importo trascurabile (intorno allo 0,25% del Pil). Successivamente la media è rimasta modesta ma si sono registrati picchi positivi e negativi elevatissimi e fortemente variabili anche nel giro di un anno, con punte anche oltre il 2% del Pil.
Per l’unità del mondo del lavoro
Se i capitali possono vagare liberamente e in poche frazioni di secondo da un continente all’altro, le lotte all’interno dei singoli paesi sono destinate a essere perdenti senza un coordinamento internazionale. Se il capitale mondiale agisce a livello globale altrettanto dovrebbero fare i lavoratori con l’obiettivo di porre fine alla minaccia rappresentata dall’interventismo militare ed economico dell’Occidente, di operare per un mondo multipolare che consenta di perseguire lo sviluppo delle singole nazioni nella collaborazione reciproca. Naturalmente il multipolarismo non è il nostro sol dell’avvenire. Ma è comunque un terreno più favorevole per lo sviluppo di lotte di classe volte al superamento del capitalismo.
Una prospettiva unificatrice non si riferisce solo ai lavoratori delle diverse aree geografiche ma anche alle diverse tipologie di lavoratori. Occorre organizzare quindi non solo i lavoratori dipendenti tradizionali, ma i proletari nel loro insieme, includendo sia chi fa un lavoro schiavizzato, sia chi chi dal punto di vista esclusivamente giuridico-formale è un lavoratore autonomo, sia le figure del lavoro cosiddetto cognitivo.
La condizione del proletariato in Italia e il sindacato
In questo quadro la condizione del proletariato nel nostro paese (e in Europa, visto che ormai siamo inseriti in questa macroregione a pulsione iperliberista) è caratterizzata da aumento delle disuguaglianze, raddoppio delle famiglie sotto la soglia di povertà, pensioni da fame, precarietà crescente.
Le sanzioni economiche alla Russia comporteranno inevitabilmente nuove drammatiche difficoltà. La crisi può far crescere i conflitti sociali, ma anche innescare una regressione (questo governo ne è la spia) perché il padronato, a seconda delle circostanze, salta sul carro democratico o su quello autoritario, purché l’obiettivo resti il proprio dominio.
Sul piano della pura difesa delle condizioni lavorative e del tenore di vita, assistiamo a sindacati conflittuali estremamente frammentati e a un sindacalismo di massa piegato alla logica della concertazione.
L’azione dei comunisti dovrebbe tendere a rimuovere entrambi i limiti. Servono sia un sindacalismo di massa e unitario, sia il passaggio dalla concertazione al conflitto sociale.
Tale conflitto deve riguardare, ovviamente il salario, ma anche la stabilità, i diritti, l’occupazione, l’orario di lavoro, i servizi sociali (scuola, sanità, casa ecc.), le pensioni, avendo ben chiaro che la controparte è sia il capitale transnazionale, sia i governi che lo rappresentano diligentemente, anche quando si travestono da sovranisti.
Questa ri-aggregazione del mondo del lavoro è possibile passando per piattaforme unificanti (per esempio l’indicizzazione dei salari, la riconquista di un diritto allo sciopero effettivo che consenta l’efficacia delle azioni rivendicative, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e di intensità del lavoro, la lotta all’aumento delle spese militari, la lotta contro le sanzioni economiche ai paesi ritenuti “ostili”, la denuncia del ruolo dell’Unione Europea, della Bce ecc.
Infine occorre spingere per una legge contro le delocalizzazioni che permetta ai lavoratori di gestire le fabbriche dismesse, come richiesto anche dai lavoratori della Gkn, e per il ritorno a un ruolo attivo dello Stato nella promozione di occupazione di qualità.