Una intervista al giornalista uruguaiano Marcelo Aguilar, residente in Brasile e inviato del settimanale Brecha, che analizza lo scenario complesso della transizione presidenziale dopo la vittoria di Lula da Silva contro Bolsonaro al ballottaggio presidenziale

Dopo il trionfo di Lula al secondo turno delle elezioni presidenziali, il clima in Brasile è diventato più rarefatto. Il suo avversario e attuale presidente, Jair Bolsonaro, ha mantenuto un lungo silenzio mentre i suoi sostenitori protestavano in piazza, bloccavano strade e chiedevano che le Forze Armate realizzassero un colpo di stato contro dei presunti brogli elettorali.

Anche se le manifestazioni sono andate via via diminuendo e il governo ha riconosciuto la  sconfitta e avviato la transizione a livello istituzionale, il panorama continua a essere complesso. Il giornalista uruguaiano Marcelo Aguilar, che vive in Brasile da diversi anni, espone il suo punto di vista da un paese che sta cominciando a lasciarsi alle spalle quattro anni di uno dei governi di destra più radicali del mondo.

Nonostante Lula abbia vinto le elezioni e la transizione sembri essere in fase di avvio (almeno formalmente), mancano ancora quasi due mesi prima che entri in carica come presidente. Nel frattempo, i bolsonaristi sono scesi in piazza, denunciando brogli e bloccando le strade. Quale futuro vede per quello che potrebbe accadere da qui al primo gennaio? C’è il pericolo che il passaggio di consegne presidenziale non si realizzi?

Non credo ci siano rischi che l’investitura non si concretizzi. Da un lato, la transizione formale e istituzionale avanza a pieno ritmo, con le squadre organizzate e al lavoro a Brasilia. Lula ha scelto Geraldo Alckmin, suo vicepresidente, per guidare questo processo con un gruppo che comprende anche figure come Gleisi Hoffmann, presidente del Partito dei Lavoratori (PT). A sua volta, il presidente eletto è stato a Brasilia la scorsa settimana dove ha incontrato Arthur Lira, presidente della Camera dei Deputati che è stato un grande alleato di governo di Bolsonaro, Rodrigo Pacheco, presidente del Senato, e i giudici del Tribunale Supremo Federale.

Da questo punto di vista c’è un clima di ritorno a una certa “normalità” democratica e Lula si pone come articolatore della pacificazione e ricostruzione del Paese. Però c’è quel Brasile parallelo nel quale i settori dell’estrema destra di Bolsonaro sono scesi in piazza, e in molti casi sono ancora lì, per chiedere un intervento militare, denunciare presunti brogli alle urne e per rivendicare politiche ultraconservatrici.

Davvero, molti dei video che si vedono e delle testimonianze che si ascoltano sembrano degli sketch, o delle scenette umoristiche, e ritengo necessario evitare di cadere nella tentazione di affrontarlo con superficialità o di ridicolizzarne la portata, cosa che sicuramente sarebbe giustificato dato il grado di delirio che raggiungono. Queste proteste sono alimentate da un circuito chiuso di informazioni e teorie completamente avulse da qualsiasi realtà concreta e generano un nuovo modo di fare politica, ma ridicolizzarle può portare a sottovalutarle, cosa che si è già dimostrata molto pericolosa in Brasile e in altre parti del mondo. Credo che sia ancora difficile valutare l’impatto che l’avanzata di questi gruppi avrà sulla cultura politica brasiliana, ma questo processo elettorale ha dimostrato ancora una volta che l’estrema destra ha peso elettorale e vitalità sociale e che questo tipo di agenda è qui e ci resterà per un bel po’ di tempo.

Foto di Gianluigi Gurgigno, Rio de Janeiro, 2018

Lasciando da parte la transizione istituzionale, è chiaro che il bolsonarismo come forza sociale e politica non è stato sconfitto e avrà quindi un peso come opposizione al prossimo governo: quali limiti può porre l’esistenza di questo settore radicalizzato al programma di Lula?

In parte, ho già risposto nella domanda precedente. Però credo che fino a ora quello che abbiamo visto del bolsonarismo fuori dal potere sia una sorta di “visita gratuita”. Anche se il processo di radicalizzazione di destra, o almeno di svuotamento della destra tradizionale (leggasi Partito della Social Democrazia Brasiliano, PSDB), sia iniziato durante il processo di rovesciamento di Dilma Rousseff che ha portato all’elezione di Jair Bolsonaro nel 2018, quello che più abbiamo notato del bolsonarismo inteso come forza ultra-radicale della destra in mobilitazione è stato un consolidamento durante gli anni di Bolsonaro al potere. Nonostante sia stato sconfitto alle urne, Bolsonaro è uscito dalle elezioni rafforzato come leader dell’estrema destra e dobbiamo vedere come ne trarrà vantaggio. Ovvero, se riesce a mantenere una base forte e mobilitata nelle piazze per rispondere al governo Lula o se, senza il sostegno dell’apparato statale, la sua forza tenda a sgonfiarsi e la sua base a smobilitarsi.

Al di là dell’opposizione del bolsonarismo, Lula non avrà (a priori) la maggioranza al Congresso e dovrà fare i conti con un’alleanza di governo estremamente eterogenea. Nell’intervista che ha rilasciato per il podcast Ballotrash ha sottolineato che i diversi settori che lo hanno sostenuto vorranno la loro parte e che questo implicherà il fare delle concessioni. Quali contraddizioni potranno portare all’interno di un governo che terrà dentro dal Partito Socialista Brasiliano (PSB) di Alckim al Partito Socialismo e Libertà (PSOL) e al Movimento Sem Terra (MST)?

Non è ancora chiaro se raggiungerà o meno la maggioranza al Congresso. Quella gelatina politica che in Brasile è conosciuta come Centrão [Grande Centro – ndt], e che è fondamentalmente costituita da un gruppo di partiti e politici che si muovono a seconda di dove vada il potere, l’influenza e le risorse e che è servita come base per la stragrande maggioranza dei governi, ha sostenuto Bolsonaro e con lui è stato rieletto. Ma possiamo dire che non sono “bolsonaristi purosangue”. Se Lula riuscirà ad avanzare in aree importanti, e lo farà bene, è molto probabile che in molti si uniranno a questa nuova ondata. Ad esempio, il Movimento Democratico Brasiliano (MDB) e União Brasil, due partiti con un’ampia rappresentanza parlamentare, secondo la stampa brasiliana stanno già valutando l’adesione alla base di Lula. Ora, internamente, come ho detto in Ballotrash, ci saranno senza dubbio tensioni e contraddizioni. Lo si può vedere, ad esempio, nella formazione delle squadre di transizione.

Lula dovrà essere una specie di alchimista per trovare un equilibrio tra quello che “tranquillizza i mercati” e quello che ha promesso di fare, ovvero porre fine alla fame e promuovere ampie politiche sociali. Giovedì scorso, quell’entità chiamata “mercato” ha reagito male a una dichiarazione del presidente eletto, il quale ha affermato che si parla molto di equilibrio fiscale ma nessuno vuole inserire i poveri nel bilancio e che i poveri non sono mai inclusi nei bilanci macroeconomici.

Questo è un esempio del tipo di contraddizioni che dovrà affrontare il nuovo governo. Credo che la tendenza vada verso il centro, e in alcuni settori persino verso il centrodestra, ma ci sono aspetti sui quali il governo non accetterà di trattare e che gli daranno un carattere popolare e progressista.

Foto di Gianluigi Gurgigno, Rio de Janeiro, 2018

In relazione a quest’ultimo aspetto e con tutte queste complessità all’orizzonte, sommate a uno scenario internazionale segnato dall’inflazione globale e dalla guerra in Europa, le prospettive per il nuovo governo per mantenere le sue promesse e soprattutto soddisfare le aspettative appaiono molto complicate.  La pensa così? In che modo gli attori più progressisti potrebbero far pendere la bilancia a proprio favore?

Si, esattamente; Lo scenario internazionale non è lo stesso e, dopo il passaggio al potere del bolsonarismo, c’è bisogno di una profonda ricostruzione istituzionale. Lula sembra puntare sulla sua vecchia ricetta: aumentare la capacità di consumo delle grandi masse popolari, ampliare le opere pubbliche e con esse la creazione di posti di lavoro. Propone inoltre una politica dei prezzi legata al mercato internazionale e di cambiare il focus gestionale di Petrobras, che dal golpe del 2016 si è trasformata in una macchina per la distribuzione di dividendi ai suoi azionisti attraverso un processo di smantellamento e svendita scandalosa del proprio patrimonio.

Nonostante non lo abbia ancora annunciato, la tendenza è che vecchie conoscenze di Lula e del mercato si facciano carico della parte economica e tutto fa pensare che sarà qualcuno gradito ai liberali. Non per nulla, nella campagna elettorale Lula ha costantemente ripetuto che questo non sarà un governo soltanto del PT, ma di tutti i partiti che lo hanno sostenuto e di questo “fronte largo” democratico che si è costituito attorno alla sua candidatura. Sappiamo già cosa significa. Tuttavia, negli uffici della transizione compaiono nomi importanti in aree importanti ed è forse qui che si giocano alcune delle opportunità che i settori progressisti che compongono la coalizione hanno per spingere verso sinistra alcune aree strategiche.

Foto di Midia Ninja 2018

Infine, in un’intervista rilasciata alla televisione pubblica argentina prima del secondo turno in Brasile, Rafael Correa sottolineava come la nuova ondata progressista in America Latina non ha avuto l’unità che si è vista nella prima ondata, all’inizio del XXI° secolo. Oggi sembra esserci una frammentazione che si è espressa, ad esempio, nella partecipazione al Vertice delle Americhe o nel fatto che il Venezuela continua a essere un processo difficile da elaborare per alcuni presidenti. Può Lula assumere il ruolo di leader regionale che unifichi questa dispersione?

Ho molte difficoltà a guardare questo processo come a un’ondata progressista, o a vederlo in sintonia con quello che abbiamo visto all’inizio del XXI° secolo. Forse Lula, che ha fatto parte anche di quella prima ondata, è l’unica figura con la caratura e il carisma dei predecessori e forse è questo uno dei punti che mi rendono difficile valutarlo in questo senso. Faccio fatica a vedere quell’unità, non solo nelle affinità, ma anche nelle politiche e nei grandi progetti comuni.

In ogni caso, indubbiamente la vittoria di Lula potrebbe avere, e credo avrà, profondi impatti sulla politica del continente e sull’integrazione regionale. Ha già detto, e dimostrato nei primi giorni dopo la vittoria elettorale, che favorirà i rapporti con il continente e che vede i Paesi della regione come alleati. Ha capacità di leadershio e di proposta, favorendo una maggiore integrazione tra questi progetti, molti dei quali incipienti, come nel caso di Colombia e Cile, e altri abbastanza in difficoltà, come quello peruviano e argentino.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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