L’intervento massivo del governo nella manovra di bilancio che il Parlamento discuterà in queste settimane è chiaramente classista: colpisce le fasce più indigenti, indifese, deboli e già abbondantemente vessate da una sequela di provvedimenti antisociali negli anni pre-pandemici e che, proprio a causa dell’esplosione del virus si sono fatti ancora più consistenti in quanto a peso specifico sia economico sia politico.
Il rapporto tra la disposizione alla protezione dei granti capitali e le ricadute di queste politiche liberiste su quei cinque milioni di poveri che vanno crescendo senza sosta, alla luce delle analisi statistiche diramante dall’associazione Svimez (che segue le dinamiche socio-economiche prevalentemente del Meridione d’Italia), è eufemisticamente definibile come “allarmante“.
Non siamo più soltanto in presenza di una decomposizione politica delle politiche sociali, ma alla ennesima, grande rappresentazione del dramma cui dovranno fare fronte tanto le generazioni di lavoratori che hanno dimenticato ormai la tutela del posto fisso e quelle che, quasi per il 25% dei giovani e giovanissimi, conoscono soltanto la precarietà e l’atipicità dei contratti che sono, per lo più, prestazioni a chiamata, estemporanee tanto quanto la progressiva diminuzione di quelli che rimane difficile anche chiamare “salari“, perché nella realtà sono solamente dei “pagamenti occasionali“.
Senza voler far sembrare questa una qualche forma di difesa o di positiva valutazione degli inerventi in merito da parte del governo di Mario Draghi, la prima diversità prettamente politica con l’attuale governo di Giorgia Meloni, quindi il primo tracciato programmatico che si riversa nella sostanza dei fatti, riscontrabili nella quasi immediatezza dei prossimi mesi, la si vede nell’attacco diretto e irragionevole al reddito di cittadinanza.
Mentre Draghi aveva in mente alcuni correttivi, nell’ottica comunque di un restringimento della platea dei percettori, l’esecutivo nero vagheggia, per gli oltre seicentomila poveri che perderanno quel sussidio, di un generico inserimento nel mondo del lavoro mediante un potenziamento delle strutture ricettive e di indirizzo all’occupazione e tramite, ovviamente, sostegni alle imprese, peraltro già previsti dal PNRR.
Non c’è nella manovra di bilancio nessuna progettualità aggiuntiva a quello che Draghi aveva già deciso e stabilito. Quello che vi si riscontra, davvero senza che si possa sostenerne una qualche pur timida ragionevolezza di carattere sociale, è una azione tutta tesa ad indebolire chi è già debole, a privilegiare chi è già abbondantemente privilegiato, a creare condizioni di miglioramento per un ceto medio benestante, lasciando crescere i numeri assoluti dei nuovi poveri ben oltre quei cinque milioni e seicentomila attuali.
Le risorse ci sono e ci sarebbero ma è impossibile domandare ad un governo di estrema destra, liberista in economia, antisociale e reazionario sul piano dei diritti, di fare politiche di progressività fiscale, di lotta all’evasione, di espansione attraverso il reperimento dei fondi laddove vi sono enormi quantità di denaro che vengono capitalizzate e non investite nella riproduzione e nell’aumento del famigerato Prodotto Interno Lordo dell’intero Paese.
Se la previsione di crescita del PIL appena citato è nazionalmente preventivabile su un +0,5%, al Sud questo segno diventa negativo (-0,4%) e, per quanto possa apparire minuscola la differenza, si tratta di una filiera di destrutturazione dei fondamentali ambiti di vita quotidiana per tutti: dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture alla cura del territorio, dalla tutela dei diritti sociali alla preservazione di quelli civili.
Tutto questo comporta un aumento veramente esponenziale del divario tra Nord e Sud che, se visto sotto la lente del progetto calderoliano di autonomia differenziata tra le regioni, assume le proporzioni di una divisione netta tra una Italia che vive e una che sopravvive a mala pena.
Il principio di uguaglianza che la Costituzione esige per tutte le cittadine e tutti i cittadini muore, nemmeno tanto lentamente, sotto il peso di una economia di guerra, sotto i mutamenti veloci delle dinamiche internazionali e continentali, sotto una completa acquiescenza governativa nei confronti di un sistema di privilegi che viene preservato come elemento fondante di uno sviluppo esclusivamente inteso come mantenimento di un processo rivoluzionario moderno di una classe dirigente imprenditoriale che trova così, nella stabilizzazione delle destre di governo, un nuovo punto di appoggio.
Forse insperato, forse sorprendente. Ma, al momento, il governo Meloni, nonostante tutte le contraddizioni da cui è attraversato, dà mostra di piena fedeltà atlantica, liberista ed europeista.
Una triade perfetta, un trittico che, tuttavia, può ancora piacere poco a Confindustria se non lo si implementa politicamente con ulteriori interventi di defiscalizzazione del costo del lavoro, di sgravi alle imprese fatte nel nome dell’espansione economica, dell’”interesse nazionale” che, nemmeno a dirlo, è il cavallo di battaglia della maggioranza di governo.
La povertà strutturale che si sta programmando in questo modo, colpirà non solo le tasche della gente ma, in una prospettiva di medio e lungo termine, anche la capacità di ciascuno a mettere a frutto le proprie particolari predisposizioni: nel mondo della scuola, fin dai gradi più elementari per arrivare ad un sempre minore numero di laureati, di formazioni professionali ispirate da un sincero percorso di accrescimento culturale e sociale.
Le caratteristiche di questo pauperismo di ritorno sono tutt’altro che legate alla contingenza del momento: rischiano davvero di diventare endemiche e di strutturarsi determinando un arretramento multidimensionale e interclassista. Se, da un lato, quella parte di ceto medio benestante che Meloni intende salvaguardare si avvicinerà allo scalino da salire per avvicinarsi al livello superiore rispetto a quello attuale, le tante partite IVA che non sono in questa condizione subiranno un arretramento, implementando la platea di quei nuovi poveri già citati.
Nemmeno le cifre europee sui salari italiani, al palo da lustri e lustri, hanno messo un po’ di timore nell’affrontare il periodo di crisi attuale senza un occhio di riguardo per le fasce debolissime della popolazione. La rassegnazione pare essere diventua la padrona delle non-azioni dei comuni italiani, se ben 3.400 di loro non hanno partecipato ai bandi per l’assegnazione dei fondi del PNRR sull’adeguamento e il miglioramento delle strutture scolastiche agli standard europei.
Un Paese regionalizzato è difficile di per sé da governare unitariamente. Un Paese regionalizzato in base all’autosufficienza, all’autogestione, all’autoriforma delle proprie regioni finirà con il divenire nemico di sé stesso: un’Italia in cui la solidarietà nazionale, principio comunitario fondante della Repubblica, rimarrà scritta solo sulla carta.
Se questo è il bene che le destre vogliono alla “nazione”, vale davvero molto, molto poco. Ed è solo ruffianamente utile al mantenimento di un equilibrio tra poteri politici e privilegi economici, mentre la grande parte della popolazione scivola sul piano inclinatissimo del “si salvi chi può“, “viva chi può permetterserlo“.
A questo attacco a tutto tondo alla anche sola formalità dell’uguaglianza sociale, civile, politica e culturale del Paese, bisogna dare una risposta uguale e contraria. E questa risposta non la potrà certamente dare un PD guidato da un presidente di regione che ha caldeggiato l’autonomia differenziata dal profumo leghista, sdoganando in questo modo un tabu che era rimasto tale, sotto la protezione della Costituzione: le differenze non possono diventare privilegi per alcuni e dannazioni per altri.
Le aperture di Bonaccini ai regionalismi intesi alla Zaia e alla Fedriga sono state il viatico per una benedizione in questo senso ad un processo di separazione sociale, di scissione dell’universalità dei diritti in tanti mediocri interessi locali. L’unità nazionale vera non la fanno i confini caduti nel 1860 (e seguenti anni), ma la vivibilità della vita stessa in ogni parte del Paese.
Anche su questo importantissimo versante, quella che qualcuno si ostina a chiamare “sinistra” o “centrosinistra”, ha prodotto danni quasi irreparabili per l’Italia di oggi e di domani.
Affidarsi all’attesa della fase presuntamente costituente di un nuovo PD per vedere risolte tutte queste incongruenze, sarebbe un torto che la sinistra vera, di alternativa farebbe a sé stessa e alla gente che vuole tornare a rappresentare: a tutti quei moderni sfruttati ed indigenti che – ci si passi la definizione dal sapore un po’ retrò – si stann effettivamente “proletarizzando“, somigliando sempre più ai lavoratori di inizio ‘900 piuttosto che a quelli che, con le valigie di cartone, trasmigravano da sud a nord per trovare un po’ di respiro economico.
L’opposizione al governo nero delle destre non può essere soltanto una contrarietà preconcetta, affidata ad un contrasto oggettivo tra conservatori e progressisti: deve essere un progetto di classe, quindi una alternativa che non prevede compromessi con chi si vuole affiancare a forze liberiste o che del riformismo fanno un servitor cortese della peggiore torsione antisociale del capitalismo moderno.
MARCO SFERINI