L’attacco, alla fine, è frontale. Contro i salari, contro le pensioni, colpisce i redditi più bassi e quindi fasce di popolazione ampie che, invece, sarebbero dovute essere tutelate maggiormente dentro il contesto dell’attuale crisi strutturale e ri-costituente un liberismo post-pandemico e in piena riformulazione geopolitica mondiale (ed europea).

Il governo Meloni fa il suo mestiere di esecutivo di destra conservatrice, quindi di guardiano degli interessi di un ceto medio-alto e di quella che possiamo oggi tornare a chiamare la “borghesia imprenditoriale” fatta di padroni senza scrupoli che reclamano una sempre maggiore detassazione della forza-lavoro e da finanzieri che costituiscono il supporto anche tecnico alle aspettative del capitalismo italiano.

Attendersi da un governo nero come questo un gesto di buona volontà nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, dei precari e di quanti vivono già oggi nella completa indigenza, avrebbe significato palesare in tutto e per tutto una ingenuità che non è ammissibile. Almeno non a sinistra.

L’attacco frontale al reddito di cittadinanza era l’antipasto di una cena delle beffe per un mondo del lavoro che viene reso così sempre meno autonomo, sempre meno tutelato, alla mercé delle oscillazioni dei grandi eventi borsistici e del mercato, senza che esista nemmeno una adeguata legge sulla concorrenza che limiti lo strapotere dei grandi gruppi e che dia allo Stato quell’efficienza di controllo in merito che oggi, a ben vedere, non possiede nemmeno nel mondo iperuranico delle idee.

Il governo di Giorgia Meloni, dunque, decide non solo di restringere la platea dei percettori del reddito varato dall’intuizione progressista pentastellata (un po’ l’unico pregio nella storia del Movimento 5 Stelle), ma fa molto di più nel fare tanto di meno per le classi meno abbienti: evita di seguire i suggerimenti europei sull’adeguamento dei singoli paesi della UE in merito alla costituzione di un salario minimo orario.

L’Italia rimane, in questo modo, dopo la bocciatura delle proposte di Alleanza Verdi-Sinistra, PD e M5S (peraltro molto al ribasso rispetto ai 10/12 euro all’ora per qualunque lavoratore), uno dei pochi paesi europei a non avere una garanzia in tal senso.

E’ un nettissimo indirizzo di politica economica di un governo che, in questo modo, svela ai propri sostenitori della prima, ma soprattutto dell’ultima ora, tutto l’attaccamento che ha nei confronti del modello liberista, filo-confindustriale, completamente acquiescente al finanziarismo di modernissima impronta.

In sostanza il governo afferma, con i suoi dinieghi e i suoi atti, di respingere l’idea e la pratica per cui un lavoro meriti almeno quei 9 euro all’ora che le proposte presentate in Parlamento da alcune forze di opposizione avevano rimesso alla discussione delle Camere. Così come respinge l’idea e la pratica che un sussidio quale il reddito di cittadinanza sia correggibile, se non nell’intenzione di tramutarlo nel suo esatto opposto e liquidarlo nel giro di un anno e mezzo.

Le motivazioni che vengono addotte da Giorgetti e dai suoi sottosegretari sono principalmente legate ai risparmi che ne derivano e ai tempi lunghi che vi sarebbero per fare una vera e propria riforma del mercato del lavoro che non poggi sulle sussistenze, bensì su una visione di lungo corso, di ampio raggio.

Questo discorso sembra valere anche per le pensioni, visto che, nonostante in campagna elettorale le destre affermassero di volerle rivalutare a partire dall’autunno che si avvia ad una ingloriosa fine politica sul terreno sociale, una rimodulazione al ribasso è prevista per affiancare al risparmio sul monte di spesa reddituale e salariale anche quello derivante dalla voce di capitolo INPS.

Il taglio delle tasse mette sullo stesso piano, fatte le debite differenze di reddito annuale, lavoratori autonomi e imprese, mentre interviene bruscamente sul lavoro dipendente e su chi è si è ritirato dal lavoro dopo aver raggiunto faticosamente i coefficienti politico-numerici che glielo hanno consentito. Un favore, ormai, piuttosto che un diritto acquisito.

La manovra, che viaggia nel solco delle direttrici draghiane, si accresce di un disvalore che le deriva da una accentuazione marcata nella distinzione tra classi sociali che si vorrebbero negare e che, invece, vengono vistosamente a galla quando si parla di tassazione dei redditi da lavoro, di quelli da profitti e, primi più che ultimi, di quelli da extra-profitti.

La rivalutazione automatica delle pensioni è difficile da definire in quanto tale: parliamo di una decina di euro, visto che il riferimento è l’adeguamento all’aumento dell’inflazione rispetto all’anno precedente. Un costo della vita esorbitate, che arriva all’11,8% e che non dava segni di così forte risalita – dicono gli esperti – dal 1984 almeno. Davanti ad una retrocessione economica per i più deboli così vistosa, il governo fa esattamente il suo mestiere: privilegia i ricchi e penalizza i poveri.

Deve farlo, altrimenti non sarebbe un governo di destra economica oltre che politica. Siamo, dunque, passati dai governi di compromesso tra capitale e lavoro, tra interessi padronal-finanziari e interessi dei lavoratori (il riferimento è al Conte II, come ovvio…) a governi presuntivamente tecnici, di grande alleanza nazionale per intervenire sull’indirizzo delle risorse europee del PNRR che, ora, sappiamo dove andranno a finire e cosa andranno a finanziare.

Mentre il Paese sprofonda nell’aumento della platea degli indigenti cronici e di lungo corso, mentre un neopauperismo si affaccia con sfacciata approvazione delle classi dirigenti sulla soglia del post-pandemia, l’offensiva contro salari, pensioni e diritti sociali  ha come obiettivo il risparmio statale a tutto vantaggio dell’industria privata e di quella delle armi.

La spesa militare è uno dei capisaldi dell’eroicità nazionalista delle misure del governo nero: portarla al 2% così come pretende la linea politica della NATO è necessario anche, e soprattutto, per rifinanziare per un anno intero l’invio di armi all’Ucraina. La maggioranza può contare, non solo in questo frangente, del sostegno di un ampio settore di (presunta e presuntuosa) opposizione (quindi mancata): dal PD ad Azione e Italia Viva.

La posizione pentastellata risulta sfocata da un tatticismo parlamentare: nella propria mozione di contrarietà alla guerra non si parla apertamente di non invio delle armi ma, tuttavia, Conte e i Cinquestelle votano quella presentata dall’Alleanza Verdi-Sinistra che invece vi fa esplicito riferimento.

Se ci si immagina di essere seduti al posto di Fontana, davanti all’emiciclo, risulta abbastanza evidente come, tanto sulle politiche di impronta economica quanto su quelle di politica estera il governo possa contare pen più dei numeri che fanno riferimento alla maggioranza di destra. Il progetto neo-centrista di Calenda e Renzi viaggia verso abboccamenti sempre più marcati con Giorgia Meloni, di cui non si fa mistero e che, anzi, vengono esplicitati come forma di responsabilità nazionale ed internazionale.

L’asse liberista si salda lambendo anche quel PD che è in una transizione dettata solo apparentemente da una indistinguibile linea politica: da un lato tenta di mostrarsi più sociale con la proposta di Orlando su redditi e salari; dall’altro rimarca tutta l’internità all’agenda draghiana, alla fedeltà atlantica, alla mai messa in discussione dell’indirizzo dei fondi europei a tutela dell’impresa piuttosto che degli sfruttati e dei precari.

Dalle aule parlamentari non esce soltanto una manovra economica fortemente reazionaria e iperliberista, ma pure un contorno nuovo delle condivisioni antisociali tra maggioranza e parti di opposizione.

E’ una saldatura di intenti che divengono programmi di lungo termine, che garantiscono a Giorgia Meloni una tranquillità istituzionale che diventa, per induzione, anche propaganda politica sulla “stabilità” del Paese, della sua economia che, invece, ha i tratti marcati di un peggioramento per chi già su di sé i segni fisiognomici della nuova povertà crescente.

La mancanza di una opposizione liberale determina anche per quella progressista un indebolimento istituzionale che, conseguentemente, può essere sinonimo di inedia democratica, di deperimento delle tutele sociali e civili al tempo stesso.

Se da tutto questo scenario possa nascere un nuovo centro-destra (rigorosamente col trattino alto in mezzo ai due sostantivi storici) è ancora prematuro tanto da affermare quanto anche solo da ipotizzare. Ma le premesse iniziano a palesarsi: gli incontri tra Calenda e Meloni ne sono il fenomeno, la dimostrazione lampante che non lascia presagire nulla di buono.

Sempre di più manca, quindi, una sinistra vera, di alternativa che recuperi gli interessi sociali e i bisogni di tutti gli sfruttati e che si faccia portavoce, senza i tentennamenti del PD inscritti nel dualismo determinato dall’obbedienza ai dettami del mercato da un lato e alle ormai molto lontane radici storiche dall’altro, delle esigenze di classe e di una lotta di classe ritrovata, rinnovata e adeguata ai tempi.

Questa sinistra deve provare ad avere una sponda parlamentare e, per questo, quel “fronte progressista” di cui ogni tanto vagheggiamo, non può prescindere dal dialogo con chi in Parlamento, con tutti i limiti e le critiche del caso, porta comunque avanti istanze che sono, al momento, altamente minoritarie.

Proprio per questo, la distinguibilità delle posizioni si affina e, siccome questo è l’effetto di una causa ormai conosciuta da tempo (la formazione de facto delle grandi maggioranze di unità nazionale, del consociativismo politico su posizioni condivise di cinquanta sfumature di liberal-liberismo), la propensione delle sinistre di opposizione dovrebbe puntare alla sempre maggiore autonomia politica nei confronti del PD, alla fine di quella riproposizione dell’unità anti-destra che falsa i rapporti politici perché è falsa di per sé stessa.

La mobilitazione contro la manovra economica del governo deve essere veloce e diffusa, non può attendere l’esito congressuale democratico, ma deve attraversare il duro inverno che si apre a breve e che è una lama di ghiaccio per i diritti sociali, per il mondo del lavoro, per quello dell’indigenza vasta e senza un orizzonte. Proprio come una distesa di neve che si confonde con il chiarore del cielo e di cui non si vede la fine.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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