Mano a mano che ci si inoltra nell’inverno che dovrebbe precedere la primavera del PD (molto lontana dall’essere anche timidamente associabile a quella di Praga…), si fanno largo le candidature alla segreteria nazionale di un partito che dovrebbe, dalla cosiddetta “fase costituente” in atto, rinascere a nuova vita, mutar pelle e persino forse il nome.

Ma su questo ultimo punto un po’ tutti i probabili concorrenti e le certissime correnti interne hanno già archiviato la discussione: rimane una timidissima ipotesi che il veltronissimo democraticismo liberista, inaugurato nel 2008 con la fusione dei due grandi filoni cultural-politici facenti riferimento alla socialdemocrazia da un lato e al popolarismo progressista dall’altro, alla fine dei conti rimarrà nel manifesto fondativo un po’ per quello che era ed è, nella speranza di non terremotare troppo quello che resta del partito stesso.

Chi propone di chiamarlo “Partito democratico e del lavoro“, fa quasi una confessione ex post, mette sull’abbondante piatto delle critiche una occasione d’oro per esegesizzare un po’ e malignare…

Se oggi vuoi anche definirti “del lavoro“, significa che fino ad oggi sei stato solo “democratico” poco e per niente dalla parte dei lavoratori e delle lavoratrici. Il che, più che una malignità, a ben guardare, sarebbe un po’ la sintetica storia proprio del PD o, per lo meno, una parte importante della sua parabola discendente: non fosse altro per il periodo di renzianissima trasformazione in una forza tutta di centro e per niente di sinistra.

Far coincidere il PD con la sinistra è una bella impresa: a cominciare esattamente dalle parole del manifesto fondativo e che, oggi, la maggior parte dei concorrenti alla segreteria nazionale e al tanto celebrato mutamento radicale di nomi, facce, struttura e, quindi, del complesso dell’organizzazione dirigente, rivendica con le stesse ambiguità e dualismi di quasi quindici anni fa.

Il Partito democratico di Veltroni nasce per imprimere una svolta politica in relazione ai rapporti tra ragioni del mondo del lavoro ed esigenze del mercato.

Da un lato si afferma con tanta enfasi e molta stucchevolezza (tipica comunque di tutti gli incipit dei documenti di questa fatta) di voler «ricollocare l’Italia negli inediti scenari aperti dalla globalizzazione del mondo, riunire gli italiani sulla base di un rinnovato patto di cittadinanza, dare loro la coscienza e l’orgoglio di essere una grande nazione», ponendo quindi il piano del mercato come l’unico da cui trarre uno sviluppo economico e una progressività in tutti i sensi.

Dall’altro lato, per ottenere tutto ciò si intende costruire una dinamica politica che dia alla società italiana una nuova strutturazione, fatta di «ceti capaci di competere con successo nel mondo globalizzato e vasti strati sociali in sofferenza, di nuovo in lotta con la povertà»

Nobilissimi intenti, se si tralascia il continuo riferimento alla globalità intesa come unità del capitalismo nel suo sviluppo antisociale liberista, se si evita di mettere l’accento sulla particolarità nazionale pur dentro il contesto di un europeismo dedito ad una compromissione costante tra lavoro e capitale, tra politiche sociali e politiche economiche protese a tutelare quello che viene, in fin dei conti, ritenuto l’unico motore della ricchezza del Paese: il sistema imprenditoriale.

Il lavoro, nel progetto originario del PD, è un fattore comprimario in apparenza. Un coprotagonista della scena, ma risulta fin da subito evidente che è impossibile mettere sullo stesso piano nuovi padroni e finanzieri con una nuova classe operaia e una più vasta e articolata settorialità del mondo del lavoro.

Gli interessi non possono essere nemmeno avvicinabili e, per questo, il PD sceglierà, dal 2008 ad oggi, di operare dal punto di vista del mercato e del capitalismo cercando di temperarne gli eccessi, gestendo le crisi politiche secondo le direttive di Bruxelles e di Francoforte, rimanendo nel solco di una compatibilità di sistema che guardi esclusivamente alla tutela dei grandi interessi aziendali che, nella naturalezza dei rapporti di produzione, e quindi nella contrapposizione di classe, confliggono con quelli delle lavoratrici e dei lavoratori e di tutto un indotto di precarietà e disagio che non fa, ancora oggi, che aumentare.

Pensare oggi ad un PD in chiave laburista, una specie di ampio contenitore di anime socialisteggianti diverse per consistenza, propensione alle sfide anticapitaliste del futuro e, quindi, proponenti diverse soluzioni di linea politica tanto di lotta quanto di governo, è andare ben oltre le stesse intenzioni di quella che è, nella geopolitica attuale della “fase costituente” democratica, la lettura che Elly Schlein fa dell’attualità, del ruolo del partito oggi, di una ecumenicità di relazioni e di ipotesi alleantiste che riguarda tanto il Terzo Polo quanto la parte neo-progressista pentastellata.

Il politichese, nelle dichiarazioni dei vari aspiranti alla segreteria del PD, la fa da padrone in questa fase di corteggiamenti trasversali, di sondaggi interni fra le correnti, di sguardi e ammiccamenti. Per sopravvivere come partito di sinistra, e non più di un centro-sinistra veramente decrepito e moribondo, il partito di Letta dovrebbe smetterla di essere quello che è stato fino ad oggi e capovolgersi completamente.

Una operazione di traslazione valoriale, culturale, sociale e politica che potrebbe avvenire soltanto se fosse dato già per escluso ogni riferimento al dualismo iniziale che ha ispirato tutta la vita dell’anomalia partitica quasi unica in Europa.

Quella convivenza tra istanze sociali e istanze del mercato, quell’asse compromissorio su cui si è innestata tutta l’azione di governo del PD, da Palazzo Chigi fino alle più piccole realtà comunali della Repubblica e che ha, nel migliore dei casi, proceduto ad una equiparazione tra pubblico e privato, nel peggiore, invece, ha dato sempre la precedenza al secondo.

«Proprio perché non si riconosce più in rigide ideologie di appartenenza, la società italiana ha bisogno di un nuovo quadro politico di riferimento». Questo era un altro paradigma di un neoculturalismo multilaterale: non più i blocchi opposti, non più la precisione con cui ci si riconosceva nelle differenti culture che avevano dato vita, unitariamente, al patto costituente del nuovo Paese nato dalla Resistenza, ma la ricerca di un campo anti-ideologico, in un cui la politica riformista e riformatrice potesse formarsi e crescere mostrandosi quel tanto di sinistra che bastava per illudere i lavoratori e non scontentare i padroni.

Il giocattolo, ora si è rotto. E’ andato proprio in pezzi. Sotto il suo stesso inadeguato ruolo di mediatore tra interessi antitetici, stretto tra le spinte di una destra che ha occupato il terreno sociale che avrebbe dovuto essere congeniale e naturale per la sinistra anche soltanto moderata, e strattonato da quel neo-centrismo che si è fatto largo per l’esaurirsi delle ragioni fondanti del liberalismo forzitaliota.

Se si osserva l’arco politico italiano da destra a sinistra, esattamente come nell’emiciclo delle Camere, ci si può rendere conto che il deperimento del consenso avviene dove si prova a mettere insieme istanze sociali con istanze liberiste: centro e sinistra, centro e destra. Mentre in quest’ultimo ambito la coagulazione in vista delle elezioni è maggiore rispetto al così tanto impropriamente definito “campo progressista“, di contro quell’operazione sincronica tra sociale e popolare, tra cultura socialista e residua cultura democristiana di base, oggi subisce una nemesi storica.

E la subisce proprio nell’esaurimento tutto politico del ruolo preteso da Forza Italia (e con qualche ragione nel ventennio berlusconiano ormai finito e consegnato (quasi) alla Storia) e in quello altrettanto preteso, molto più presuntuosamente, dalla vocazione maggioritaria del PD.

L’alternanza tra i poli, nell’altalenante ruolo di opposizione e di maggioranza di governo, è franata impietosamente innanzi alle differenze anzitutto sociali tra la realtà italiana e quell’esempio di cultura yankee di enorme polarizzazione dai grandi contorni ideali che riguardano negli Stati Uniti d’America i democratici (progressisti) e i repubblicani (conservatori).

Un semplificazionismo, pure questo, che oggi segna affannosamente il passo e mostra, davanti alle incongruenze trumpiane che hanno sconvolto il tradizionalismo e i rapporti di cortesia istituzionale (leggasi: il rispetto minimo delle forme tra i vari poteri della più grande potenza federale mondiale), quanti imprevisti vi siano su qualunque strada già battuta da secoli: figuriamoci quanti altri se ne possono registrare in esperimenti come quelli di una conversione bipolare di un sistema politico come quello italiano irriducibile ad un simile semplificazionismo.

Le minacce della destra di fare di questo Stato una repubblica presidenziale regionalista, improntata sull’egoismo economico locale, dovrebbero allertare chiunque si appresti a ripensarsi come forza politica che, nonostante tutto, detiene ancora un consenso ampio e non certo trascurabile.

Dovrebbero finalmente avvicinare ad una critica sociale tutte e tutti coloro che hanno creduto di poter compatibilizzare le istanze del lavoro con quelle dell’impresa e di affidare a quest’ultima realtà la rappresentanza della crescita del Paese e il regolamento delle dinamiche salariali, del futuro delle giovani generazioni che, infatti, proprio perché il privato ha prevalso sul pubblico entro una cornice liberista difesa con protervia e arroganza, si trovano a dover lottare contro cambiamenti climatici determinati da uno sviluppo che impoverisce i molti, sottrae risorse alla natura e ai territori e non crea nessuna prospettiva di futuro.

Il PD per poter vivere ancora deve smettere di fare il PD. Deve cambiare tutto di sé stesso, a costo anche di subire una scissione che sarebbe salutare se desse nuovamente vita in Italia ad una sincera sinistra moderata, socialista e riformista dialogante con quella di alternativa, comunista e anticapitalista. Per fare questo, però, non bastano le buone intenzioni di Elly Schlein e tanto meno i sogni neoriformistici di Bonaccini che guardano ancora una volta ad una riedizione di un centrosinistra o di larghe alleanze nel nome, sempre e soltanto, delle compatibilità di sistema.

L’Italia avrebbe bisogno veramente di una rinascita dei campi ideologici, di una riconoscibilità degli interessi di classe in un partito del lavoro anche plurale, ma nettamente definibile come “sinistra“, che abbandoni ogni velleità da un lato e ogni settarismo dall’altro.

Il PD di oggi e di domani, chiunque vinca senza mettere in discussione il PD stesso, è destinato a ripercorrere il sentiero dell’indistinguibilità delle origini: quello del manifesto fondativo del 2008. Dove ha condotto, oramai, è evidente. Dove porterà i democratici domani è un indovinello a cui, francamente, riesce difficile rispondere.

Ma di certo c’è che Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle stanno sempre più erodendo consensi ai democratici e finiranno col farlo ancora di più nei prossimi mesi se la scelta dei democratici sarà quella di differenziarsi dal passato senza sconvolgere e capovolgere quel progetto veltroniano che diede spazio ad un compromesso antistorico tra centro e sinistra, che coniugò l’inconiugabile, provando a dimostrare che la lotta di classe era finita e che il futuro era affidato alla genialità dell’impresa, sostenuta da un mondo del lavoro reso variabile dipendentissima dalle circonvoluzioni del mercato.

Rompere questa gabbia politica sarebbe salutare per tutti. Per ciò che resta del PD, per la sinistra moderata e di alternativa, per il panorama politico e sociale italiano, per una nuova stagione di protagonismo delle masse, per una riproposizione del progressismo come elemento non sopprimibile della cultura secolare del Paese.

Mantenere in vita il PD con una prospettiva di riproposizione parziale di un progetto oggettivamente fallimentare, non farebbe che prolungare l’agonia di una stagione finita.

Le destre ne guadagnerebbero in consensi e in rafforzamento dell’esecutivo; il centro si solidificherebbe attorno ai progetti calendiani; la sinistra rappresentata da Unione Popolare, Sinistra Italiana e Verdi non avrebbe un interlocutore con cui progettare anche timide riforme strutturali e, magari, delle alleanze locali per testare l’alternativa concreta tanto alle destre quanto al centro.

Rebus sic stantibus, la progettazione di Unione Popolare è quanto mai necessaria come primo punto all’ordine del giorno per ridare all’Italia quella sinistra davvero altra da un po’ tutto quello che fino ad ora si è mosso tanto nel PD quanto a sinistra del PD stesso.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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