Anche numerosi tra i fondi considerati più sostenibili in Europa continuano ad investire nel settore delle fossili © Leonid Ikan/iStockPhoto
Un’inchiesta internazionale ha svelato che quasi la metà dei fondi europei classificati “totalmente sostenibili”, in realtà, non lo è
Quasi la metà dei fondi di investimento europei considerati sostenibili investe in realtà in società legate al settore delle energie fossili. L’incredibile dato è frutto di un’inchiesta condotta da una decina di testate europee – tra le quali i quotidiani El Pais, Handelsblatt, Le Monde, Der Standard, IRPImedia e Follow the Money. L’analisi ha riguardato 838 portafogli, su un totale di 1.141 fondi (per un totale di 619 miliardi di asset in gestione). E si tratta dei fondi che, sulla carta, dovrebbero essere i più “green” in assoluto, ovvero quelli classificati “articolo 9” secondo il regolamento europeo Sustainable Finance Disclosure (SFDR).
Gli investimenti “dark green” valgono 619 miliardi di euro
«Gli investimenti sostenibili – spiegano gli autori dell’inchiesta – stanno vivendo un autentico boom. Solamente in Europa, hanno raccolto finora 4.200 miliardi di euro, con la promessa di contribuire a generare un mondo sostenibile. Molti investitori trovano la prospettiva di una crescita verde, nella quale i profitti e la sostenibilità camminano affiancati, irresistibile». Di questa immensa mole di denaro, 619 miliardi di euro rappresenta, appunto, il valore dei fondi “articolo 9”. Quelli considerati dark green (“verde scuro”) dall’Unione europea.
Anche quando agli investimenti vengono concessi label che sembrerebbero scongiurare ogni sorpresa, insomma, il greenwashing è dietro l’angolo. Almeno nel 46,3% dei fondi classificati “articolo 9”. Basti pensare che nei portafogli in questione sono stati ritrovate «dieci delle venti imprese europee ritenute responsabili di più di un terzo delle emissioni mondiali di gas ad effetto serra, secondo i dati del Climate Accountability Institute».
I perché di così tante contraddizioni nei fondi d’investimento sostenibili
Ma come è stato possibile arrivare ad una situazione simile? Per comprenderlo è necessario analizzare il modo in cui questi fondi “verde scuro” vengono creati. Le società di gestione, infatti, spesso evitano il lungo e complesso lavoro di selezione, sulla base di criteri ambientali e climatici, delle aziende nelle quali investire. Molto più semplice “agganciarsi” a un indice.
È quello che ha fatto, ad esempio, uno dei fondi verdi di BNP Paribas, che ha replicato in maniera pedissequa l’indice Low Carbon 300 World PAB di Euronext. Che, benché si dica allineato agli obiettivi dell’accordo di Parigi, non vieta esplicitamente investimenti in società, ad esempio, legate al settore delle energie fossili.
Allo stesso modo, Amundi a scelto di utilizzare un indice elaborato dall’agenzia MSCI, l’Index Equity Global Low Carbon. Che promette di dimezzare la propria carbon footprint. Ma comprende anche una trentina di imprese legate alle fossili o al settore dell’aviazione. Come le americane Marathon Petroleum e Delta Airlines o l’italiana SNAM.
Troppo grande la fetta di investimenti in “zona grigia”
Quest’ultima, inoltre, presenta impegni sul clima considerati largamente insufficienti dalla stessa MSCI. Ma dal momento che per altri criteri ESG (ambientali, sociali e di governance) è ritenuta più avanzata della concorrenza, allora la si considera ammissibile. Inoltre, dieci fondi investono circa 37 milioni di euro nella compagnia petrolifera norvegese Equinor.
I gestori di questi fondi si difendono sottolineando che, benché presenti di fondi, gli investimenti in aziende nocive per il clima rappresentano una parte nettamente minoritaria del totale. Ma gli autori dell’inchiesta evidenziano che, oltre alle imprese i cui business sono palesemente incompatibili con gli obiettivi climatici che si è fissata la comunità internazionale, ne esistono molte in una sorta di “zona grigia”. Dalla Lafarge Holcim alla ArcelorMittal, ad esempio.