In un mese di governo Meloni le forze politiche della maggioranza hanno portato un attacco frontale a tutta una serie di prerogative democratiche e sociali che vengono così indebolite nella già loro fragile esistenza, nel loro essere un ultimo residuo di quella tutela ad ampio raggio che era stata costruita ormai molto, troppo tempo addietro rispetto alle involuzioni subite nel corso delle ristrutturazioni capitalistiche e dell’affermazione completa (o quasi) del liberismo moderno.
Ultimo, solo in ordine cronologico, è il taglio delle cifre di bilancio che andavano a coprire l’insolvenza degli affittuari non per volontà esplicita ma per costrizione contingente, perché la povertà prorompe nella sopravvivenza quotidiane e costringe alla morosità. Basterebbe forse questo come dimostrazione evidente della direzione in cui muove la politica economica antisociale dell’esecutivo.
Purtroppo, però, gli esempi iniziano a sprecarsi e tutti, ma proprio tutti, si saldano vicendevolmente nella dimostrazione non di un teorema antimeloniano, di un accanimento nei confronti del governo, bensì di una semplice, elementare presa d’atto di quello che forze conservatrici e reazionarie del nuovo millennio sono in grado di fare grazie al sostegno di una larga parte di elettorato che intende mantenere dei privilegi ampiamente acquisiti.
Gli italiani che dichiarano un reddito che supera i 300.000 euro annui sono lo 0,09% della popolazione che paga (o dovrebbe pagare) le tasse.
Si tratta di una cifra così esigua nella sua inversione di proporzionalità (rispetto quindi al restringimento del potere di acquisto dei salari), che qualunque governo veramente sociale interverrebbe prima di tutto con una tassazione delle grandi ricchezze nelle mani di pochissimi e poi, solo in seguito, dopo aver magari dimezzato capitoli di spesa militari, privilegiando invece quelli che riguardano la vita tribolata di almeno cinque, sei milioni di persone a rischio povertà (sotto la soglia di questa stanno già oltre due milioni e mezzo di cittadini), potrebbe ritenere utile appiattire la fiscalità delle imprese.
I dati che vengono dichiarati all’erario dai grandi ricchi sono così spudoratamente ridimensionati dall’evasione fiscale che, a citarli, pur conoscendone anche vagamente l’entità, un po’ si finisce per sorprendersi sempre: dei 93 miliardi di tasse non pagate in tutta l’Unione Europea, ben 26 di questi riguardano il nostro Paese. In quanto a contenimento del fenomeno, fanno meglio Francia e Germania. L’Italia da sola rappresenta quasi un terzo di tutta l’evasione che si registra continentalmente.
E’ un dato veramente allarmante, considerando prima di tutto il fatto che l’intero mondo del lavoro salariato è oggettivamente impossibilitato ad evadere il fisco, visto che il prelievo medesimo avviene a monte e non è affidato ad una dichiarazione annuale che può sfuggire a ciò che è già tracciato dall’INPS e dall’Agenzia delle Entrate.
E’ un dato, come sempre, che riguarda quell’enormità di capitali accumulati proprio grazie al circolo vizioso, simbiotico e autoalimentato dalla sincronia tra sfruttamento della forza-lavoro e accumulazione profittuale mediante una circolazione delle merci che aumenta il plusvalore originario (potremmo dire quello “classico”) grazie ad investimenti finanziari e speculazioni borsistiche.
C’è tutto un processo di accumulazione capitalistica che prende corpo al di là dello sfruttamento del lavoro dei salariati e che, quindi, non ha nulla a che vedere con la produzione.
E di questo ampio segmento di ricchezze fanno parte sia gli azzardi nella compravendita dei titoli azionari e i loro trasferimenti repentini, di giorno in giorno, di ora in ora, per agguantare sempre il miglior guadagno (poco importa se con la vendita o l’acquisto delle azioni si finanziano guerre o industrie di armi, se si sostengono politiche di multinazionali che riducono in schiavitù interi popoli, vaste aree del pianeta), sia tutti i quantitativi di denaro non dichiarati al fisco.
Un tratto del liberismo ultramoderno sposta, parzialmente, l’accumulazione capitalista oltre il “semplice” sfruttamento su cui si fonda il sistema da oltre duecento anni.
La forza lavoro, che è e rimane necessaria alla produzione, ha bisogno di quella parte di investimenti volta a riprodurla affinché il giorno dopo in fabbrica o in ufficio operai e impiegati arrivino per espletare le loro mansioni utili all’azienda. Gli investimenti in rischiosissime operazioni transnazionali di enormi quantitativi di denaro, sono una nuova dimensione del lucrare facilmente.
Come è possibile, quindi, non solo fare opposizioni alle politiche del governo nero delle destre, a questo pacchetto di antisocialità che va a sostenere proprio i tratti del liberismo più feroce, ma alzare il livello dello scontro di classe davanti ad un nemico invisibile, che si muove non tanto nelle fabbriche e nelle aziende quanto sulle transazioni finanziarie online e negli scambi commerciali, all’interno di una impalpabilità manifesta di capitali che fluttuano da un conto all’altro, da un prodotto di investimento ad un altro prodotto di capitalizzazione?
Il nuovo secolo in cui siamo entrati sembra, alla luce dell’evento pandemico e della guerra in corso in Ucraina, ridefinire non solo la geopolitica mondiale e, quindi, l’asse strategico delle potenze emergenti e riemergenti nel quadro di una lotta economica spietata; più ancora appare evidente come la ricchezza venga redistribuita oltrepassando le dinamiche del capitalismo per come l’abbiamo conosciuto fino alla fine del secolo scorso.
Allora, dopo la manifestazione delle politiche tatcheriane e reaganiane sulla scena della globalizzazione incipiente, quindi si parla degli anni ’70 del Novecento, la produzione industriale era ancora il nervo principale del capitalismo tanto americano quanto europeo. Lo sfruttamento delle masse operaie era inequivocabilmente al centro dell’accumulazione delle ricchezze del padronato e dell’imprenditoria più latamente intesa.
Come osserva giustamente David Harvey nei suoi studi e nelle sue ricerche sull’”accumulazione originaria” marxiana, sono state le ondate di privatizzazioni a sostenere una nuova fase dell’economia di mercato che puntasse anche sulla produzione e sullo sfruttamento dei salariati, ma che si orientasse prima di tutto su una ridefinizione dei tempi, dei modi e dei canali attraverso cui dare seguito ad una “accumulazione per spoliazione“.
Capitalismo industriale e capitalismo commerciale hanno coinciso, e tutt’ora coincidono, nella inevitabilità di tenere insieme produzione delle merci e diffusione delle stesse sul mercato globale. Ma la finanziarizzazione dell’economia si è strutturata, affiancandosi (e superando) alle dinamiche di espansione dei profitti mediante il modello di fabbrica, nel momento in cui lo scambio dei prodotti sociali del lavoro è diventato veramente globale e ha abbracciato mercati sempre più vasti.
Ma se si sposta per un attimo lo sguardo sull’enormità rappresentata dalla Silicon Valley, dalle aziende che hanno rivoluzionato il modo di comunicare, di scambiare, di interagire e di diffondere qualunque tipo di pensiero immateriale e di merce materiale, allora si comprende tutta la forza della nuova era di un capitalismo che fa dell’appropriazione di mercato il suo terreno di sviluppo nel nuovo millennio.
Certamente le mutazioni saranno cicliche, veloci, lente, si adegueranno agli standard produttivi e anche alle politiche degli Stati.
Ma, almeno in questa fase, che si colloca nell’ultimo cinquantennio, tra gli anni ’70 del secolo scorso e i primi vent’anni di quello presente, il capitalismo industriale ha consentito, per la sua sopravvivenza sempre più incerta, al fratello capitalismo di mercato di affiancarlo su scala globale, nelle varie interpretazioni continentali, nelle sottodimensioni nazionali che oggi, davvero appare oggettivo e incontestabile, hanno sempre meno voce nelle decisioni che si prendono dentro gli schemi delle borse e degli scambi finanziari metaversici.
Torna la domanda che ci siamo già fatti: quale sinistra, o meglio quale forma organizzativa della sinistra di classe può essere in grado di fronteggiare queste novità sul fronte che le è opposto? Sono sufficienti i vecchi schemi, tanto partitici quanto sindacali, per dare battaglia al sistema che si aggiorna e che lo con un silenzio assordante, sembrando sempre lo stesso ed essendo invece già ben altro da quello che conoscevamo?
E’ evidente che la sinistra ha bisogno di un corso di aggiornamento su sé stessa, di un ripensamento delle proprie categorie interpretative, di una nuova cultura dell’alternativa stessa. Possiamo ancora parlare di anticapitalismo al singolare? Oppure dovremmo piuttosto pensarne, dirne e scriverne al plurale?
E se la risposta fosse “sì“, come si fa ad affrontare un nemico di classe che si sdoppia pur rimanendo unico nella sua convergenza strutturale, nel suo scopo vitale di sfruttamento di tutto e di tutti senza distinzione alcuna? Riflettiamoci, studiamo e cerchiamo di incontrarci e scontrarci su questi temi che, se si osservano i numeri dell’indigenza crescente, sono tutt’altro che esercizi e giochetti accademici.
MARCO SFERINI