La strenua resistenza ucraina a Bahmut è una necessità: perderla significa perdere tutto il terreno che c’è da lì a Kramators’k e Slov’jans’k, fino alla fine dell’oblast’ di Donetsk.
Bahmut, la chiave del Donbas
Da un paio di settimane, più o meno, il “discorso” su alcuni aspetti del conflitto ha subito una mutazione, pur mantenendo intatte le sue caratteristiche fondamentali (anche se si fa fatica a capire come possano restare intatte, viste le mutazioni in questione): i due aspetti, che sono legato molto più strettamente di quanto non sembri a prima vista, sono Bahmut e il tipo di guerra che vi si sta combattendo, e le crescenti difficoltà ucraine nell’approvvigionamento di munizioni per l’artiglieria.
A Bahmut, e lo dicono le fonti occidentali più che quelle russe, l’esercito ucraino sta affrontando perdite semplicemente catastrofiche.
Le ultime dichiarazioni di Milburn, l’ex-militare statunitense che ha fondato la “Mozart” come risposta alla “Wagner” (e che dopo una gran quantità di dichiarazioni parecchio bellicose la Wagner deve averla incontrata davvero e non deve averla trovata piacevole, visto che ora cerca di far passare la sua compagnia come un reparto non combattente che si occupa esclusivamente di addestrare i militari ucraini ed evacuare i feriti) ha dichiarato a Newsweek che le perdite ucraine toccano il 70% degli effettivi dei reparti, e che più o meno l’80% dei rimpiazzi non ha mai sparato un colpo di fucile; le foto che vengono fuori dagli ospedali da campo delle retrovie mostrano una situazione a metà tra una macelleria e un quadro di Bacon, ben lontana dall’estetizzazione della sofferenza che avevamo visto, ad esempio, nelle immagini dei difensori dell’Azovstal.
Qui c’è solo sangue, merda e pezzi non identificabili di corpi umani gettati a terra: e se foto del genere sono le benvenute, perché servono a ricordare ai nostri tifosi quello che sta davvero succedendo sul campo e le conseguenze reali del prolungare un conflitto che si è deciso di non risolvere per via diplomatica, pure bisogna chiedersi perché queste foto e queste dichiarazioni, proprio adesso che il “discorso” dell’imminente e totale vittoria ucraina sta raggiungendo livelli parossistici.
Il perché di queste perdite catastrofiche, invece, è molto più semplice da spiegare e ci consente di agganciarci al secondo aspetto di cui si è detto all’inizio.
Bahmut è la chiave del sistema difensivo del Donbas occidentale, e perderla significa rischiare di perdere tutto il terreno che c’è da lì a Kramators’k e Slov’jans’k, cioè in pratica alla fine dell’oblast’ di Donetsk. Fin qui, la strategia ucraina: che non è strategia ma necessità.
La strategia russa, invece, al momento non prevede alcuna grande offensiva. Ci hanno provato quest’estate, ma i costi erano troppo alti e hanno rinunciato, decidendo invece di obbligare le FFAA ucraine a un’escalation di materiale, accettando di tenere il fronte immobile per mesi se questo serve, come sta servendo, a infliggere perdite.
In guerra conquistare il territorio non è la cosa fondamentale, checché ne dicano i nostri teorici del blitzkrieg: la cosa fondamentale è uccidere quanti più soldati nemici possibile, che è esattamente quello che stanno facendo. Quando il tuo nemico non ha più un esercito, gli sarà difficile resistere. Citando Mao: “Perdi il tuo territorio, salvi gli uomini: riprenderai il territorio. Perdi gli uomini, salvi il tuo territorio: perderai anche il territorio”.
I nostri analisti ci hanno tormentato per mesi con resoconti dettagliatissimi delle “difficoltà logistiche” russe, le ultime delle quali, come abbiamo visto, sarebbero quelle che riguardano le uniformi invernali: eppure queste fantomatiche difficoltà non impediscono all’artiglieria russa di continuare a sparare tra i 30 e i 50.000 colpi al giorno su tutto il fronte, buona parte dei quali diretti e corretti in tempo reale da una flotta di droni d’osservazione che, dopo la carenza di inizio conflitto, si è fatta imponente e determinante.
Per quanto riguarda le armi leggere, la stima è che, ogni giorno, ogni soldato russo spari 2000 proiettili, il che limita la vita di un AK-74 standard a non più di tre mesi (ma meglio sostituirlo a due). Anche in questo caso non si segnalano difficoltà logistiche nel provvedere i soldati russi di munizioni e armamento individuale.
Per un po’ l’artiglieria ucraina ha provato a tenere botta, ma ora non ce la fa più. Molto brutalmente, stanno finendo i proiettili: sia quelli dei pezzi d’artiglieria ereditati dall’Unione Sovietica (soprattutto calibro 122 e 152) che quelli per l’artiglieria fornita dalla NATO (soprattutto calibro 155).
I proiettili per l’artiglieria sovietica stanno finendo perché i raid missilistici russi hanno avuto come bersagli prioritari, prima delle infrastrutture energetiche, le fabbriche che li producevano in Ucraina, e quelle rimaste più o meno in piedi (come l’Artem di Kiev) ora devono fare i conti con la mancanza di energia; i paesi ex-patto di Varsavia sono passati in blocco all’artiglieria NATO, e tranne una fabbrica in Bulgaria non ci sono stabilimenti che possano fornire i proiettili che servono (ci sarebbero in Serbia, ma come sappiamo la Serbia non ha intenzione di mandare armi in Ucraina).
Giusto oggi è stata annunciata la rimessa in funzione in Slovacchia di una fabbrica di munizioni dismessa, ma è una goccia nel mare. La situazione non è migliore per quanto riguarda i calibri NATO. Siamo abituati a considerare gli eserciti NATO, e soprattutto quello USA, come eserciti che mai possono avere problemi di approvvigionamento, e questa cosa è vera (nei limiti) per i sistemi d’arma che la NATO reputa fondamentali: ma per quanto strano possa sembrare l’artiglieria non è tra essi.
Del resto, a pensarci bene non è affatto una cosa strana: la dottrina NATO prevede proiezioni di forza lontane dai confini della NATO stessa, e privilegia marina, aviazione e reparti militari snelli, anche se armati pesantemente; al contrario, la dottrina russa non prevede proiezioni così lontane e privilegia i sistemi d’arma tradizionali, artiglieria, divisioni corazzate e fanteria motorizzata.
La cosa non è sfuggita agli analisti seri, anche se se ne sono accorti un po’ in ritardo: Camille Grand fa notare che in Afghanistan l’artiglieria NATO sparava circa TRECENTO colpi al giorno, il che significa che per l’artiglieria un giorno in Ucraina equivale a un mese NATO – ma non a un mese russo, come abbiamo visto.
Ancora più preoccupato il Financial Times, che fa notare come l’intera produzione statunitense di proiettili d’artiglieria sia di 15.000 al mese, e come in soli due giorni l’artiglieria russa abbia consumato più munizioni di quante la Gran Bretagna ne abbia in magazzino.
In un conflitto convenzionale con questo ritmo di fuoco le scorte britanniche durerebbero, forse, una settimana. Non va meglio per quanto riguarda la manutenzione, visto che con un ritmo di fuoco del genere i cannoni ucraini si usurano molto rapidamente e devono essere riparati in Polonia, non essendoci la possibilità di farlo in Ucraina – anche in questo caso, pare che le disastrose catene logistiche russe non abbiano simili problemi.
Non va meglio per le altre superarmi che dovevano far vincere l’Ucraina in poco tempo, i Javelin e gli Stinger. Il CEO della Raytheon sostiene che in dieci mesi di guerra sia stata consumata la produzione di Stinger di 13 anni, e 5 anni per quanto riguarda i Javelin.
Nell’ultimo pacchetto di aiuti il Congresso USA sta cercando di correre ai ripari, finanziando un contratto pluriennale per produrre 800.000 proiettili da 155: ma ci vorranno due anni DOPO la creazione di una linea produttiva in grado di soddisfare questo requisito.
Insomma, come al solito abbiamo promesso e non abbiamo mantenuto. Peggio: non siamo in grado di mantenere, pur volendo. Non è sorprendente che si moltiplichino le aperture diplomatiche. Che, ovviamente, non vengono raccolte. Anche qui, bisognava pensarci prima