Rachele Gonnelli

Da decenni la sanità pubblica viene de-finanziata. Quest’anno non va meglio e i pronto soccorso sono già al collasso da Nord a Sud. Operatori e sindacati in piazza. Sbilanciamoci propone di portare la spesa al 7% del Pil.

C’è un nuovo topic, dal Polesine all’Abruzzo, ed è “pronto soccorso al collasso”. Il combinato disposto della coda della pandemia da Covid-19 e della nuova emergenza influenzale ha saturato i reparti di urgenza e emergenza negli ospedali ancor prima del picco dell’infezione da coronavirus australiano previsto a gennaio dopo i contatti delle feste.

Secondo alcune fonti sindacali ci sarebbero 300 decessi al giorno nei pronto soccorso degli ospedali italiani in queste settimane pre-natalizie e che le attese nei corridoi possano arrivare anche a una settimana. Ma la situazione antecedente non doveva essere molto migliore se è bastato un aumento dal 15 al 50 per cento rispetto alla media degli accessi in queste settimane per causare queste situazioni “da guerra” nelle astanterie, tanto da far intervenire in alcuni casi, tipo a Torino, i carabinieri e la procura. 

La colpa non va soltanto a un’influenza particolarmente virulenta e alla scarsa copertura vaccinale anti influenzale di quest’anno ma soprattutto ai decenni di tagli, alla congestione ancora non metabolizzata delle strutture sanitarie durante il Covid e alla strutturale debolezza dei servizi di medicina territoriale. Sbi

Grandi ospedali da migliaia di posti letto come il Policlinico Umberto I e il San Camillo di Roma o il Cardarelli di Napoli già a ottobre-novembre i pronto soccorso erano in tilt con malati sulle barelle in corridoio per giorni in attesa di uno smistamento in reparti sovraffollati e sotto organico. Viene da chiedersi cosa potrebbe succedere se si verificasse una nuova pandemia contagiosa e mortale come quella del Covid. Esistono, è vero, un piano di prevenzione nazionale 2020-2025 e un piano pandemico influenzale 2021-2023 ma al di là delle tante pagine, dei rimandi ai livelli essenziali di assistenza (i LEA, che pur essendo aggiornati nel 2017 sono ancora rimasti sulla carta), dei riferimenti a parole inglesi altisonanti, tutto è stato affidato anche questa volta solo ai vaccini, in questo caso anti influenzali. 

La sanità nella manovra di bilancio continua ad essere di fatto de-finanziata: i 2 miliardi e 150 milioni di euro in più destinati al Fondo sanitario nazionale, infatti, sono un sostanziale taglio se si considera che si tratta di un incremento di soli 128 milioni, pari al 2% a fronte di un fabbisogno in aumento e considerato che quasi l’intera cifra di scarto – 1 miliardo e 400 milioni – servirà solo a coprire il caro-bollette.

E per il personale? Il ministro della Salute Orazio Schillaci ha promesso 200 milioni l’anno per remunerare con una specifica indennità gli operatori dei pronto soccorso ma solo a partire dal 2024. Nel frattempo, come hanno denunciato i sindacati Cgil e Uil con la manifestazione del 15 dicembre in piazza Santi Apostoli a Roma dal titolo “Salviamo la Sanità Pubblica”, il sistema rischia il collasso completo e gli operatori non vedono all’orizzonte norme chiare di stabilizzazione né rinnovi contrattuali effettivi.

Secondo la relazione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio nel 2025 la spesa per finanziare il Fondo sanitario nazionale sarà inferiore a quella pre pandemica e in ogni caso al 6,1 per cento del Pil mentre secondo le valutazioni dell’OMS sotto il 6, 5 per cento del Pil si precipita in zona collasso (e infatti l’Italia è stata al 6,4 dal 2019, e lo sarà nel 2023, e ancora peggio, al 6,1 nel 2025). 

La campagna Sbilanciamoci! chiede che la spesa per il Ssn raggiunga già dalla manovra di quest’anno il 7 per cento del Pil, una misura che costerebbe almeno 10 miliardi ma servirebbe a ridare ossigeno a un sistema vitale in condizioni comatose.

Dei 17 emendamenti alla legge di bilancio 2023 del governo Meloni selezionati dalla maggioranza di destra per il capitolo sanità, alcuni sono su argomenti come lo screening per la celiachia e gli istituti di zooprofilassi, tutti sono improntati in ogni caso a aumentare i limiti di spesa per coprire convenzioni con le strutture private e convenzionate. Un paio prorogano il termine ultimo per la maturazione dei requisiti di stabilizzazione al personale che ha prestato servizio durante i due anni di Covid. Ma entrambi questi emendamenti, sia quello di Fratelli d’Italia sia quello del gruppo di Forza Italia, contestualmente ammettono una stabilizzazione “flessibile”, tanto per i medici quanto per gli infermieri. Significa che potranno passare da “gettonisti” – chiamati a spot a coprire i vuoti d’organico nei turni – a collaboratori, cioè cococo, ancora precari anche se leggermente più tutelati.  Per fare un esempio, a Trento, nel pronto soccorso del principale ospedale cittadino, su 27 medici, 10 sono “gettonisti”, a chiamata.

Secondo i conti della Funzione Pubblica Cgil ci sono 5 mila medici “gettonisti” nei reparti di medicina generale e ne servirebbero altri 5 mila nei pronto soccorso, più almeno 12 mila infermieri, ma si tratta di una quota minima per far funzionare gli ospedali: i dati recenti del rapporto Agenas dicono che l’Italia ha il rapporto più basso dell’Europa avanzata tra numero di infermieri e popolazione residente. 

L’Italia ne ha 33 ogni mille abitanti, superata in negativo solo da Grecia, Polonia, Slovacchia e Lettonia ma molto distante dagli standard scandinavi di 80-90 ogni mille abitanti e anche da Francia, Regno Unito, per non parlare della Germania. La media dei paesi Ocse più avanzati è 49. Meno drammatico il rapporto medici-pazienti, sostanzialmente in linea con la media europea, ma spaventa la previsione dell’andata in pensione di altri 48 mila medici – il 46 per cento del totale – entro il 2030. 

E poi ci si chiede ancora perché le borse di studio per la medicina d’urgenza vengono rifiutate dai giovani laureandi. E perché dal 2019 al 2021, cioè nel periodo pandemico, secondo il sindacato dei camici bianchi ospedalieri Anaao-Assomed, ci siano state oltre 8 mila dimissioni volontarie di medici, in fuga dal Ssn per le gravose condizioni di lavoro. Tra l’altro neanche il contratto già scaduto, per gli anni 2019-2021, è stato integralmente onorato a causa di una mancanza di bollitura da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze e ciò non lascia sperare in meglio quanto al prossimo negoziato. 

Le Regioni non hanno ottenuto dal governo in carica l’autorizzazione a splafonare per coprire i deficit del personale assunto, a tempo, durante il Covid e così adesso quelle più virtuose che hanno potenziato maggiormente i servizi pubblici e territoriali rischiano il default sanitario e il commissariamento. L’attuale discussione intorno al possibile utilizzo e alla necessaria riforma del Mes potrebbe consentire il recupero di fondi europei importanti per evitare il rischio di collasso del Sistema sanitario nazionale. E magari consentire anche l’attuazione delle riforme volute dall’ex ministro Roberto Speranza sulle case di comunità per la sanità territoriale (decreto ministeriale 77/22) che riguarda anche i nuovi standard e la riorganizzazione del sistema ospedaliero. Per ora nella manovra Meloni ci sono soltanto 500 milioni per l’abbattimento delle liste d’attesa, che in città come Roma o Milano negli ambulatori pubblici hanno tempi impossibili di prenotazione. 

C’è da considerare che in all’incirca un ventennio sono stati chiusi 300 ospedali (111 dal 2010) e sono così spariti oltre 80 mila posti letto. E questo significa che dal 1997 al 2020 i pronto soccorso sono passati, soltanto in una regione come il Piemonte, da 61 ad appena 26. 

Il sindacato professionale degli infermieri NursingUp, soddisfatto di aver conquistato 100 euro di indennità di turno per chi lavora in corsia, indennità che però non si sa da quando scatterà se dal 2023 o addirittura dal 2024, stima una carenza di 80 mila infermieri in Italia. Ma c’è da considerare anche l’usura di una professione condotta in condizioni spesso emergenziali per un personale che ha la media di età anagrafica più alta d’Europa, 55 anni. 

In queste condizioni l’antico “gioiello” della servizio sanitario pubblico e universale italiano sembra un ricordo ma ancora peggio potrebbe andare se si attuassero i progetti della maggioranza di destra di attuare una già forte autonomia differenziata regionale (qui un approfondimento e una proposta). Contro questa svendita ai privati e depauperamento del bene pubblico numero 1 sia i sindacati che i partiti del centrosinistra promettono di dare battaglia in questi mesi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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