L’attenzione con cui il governo Meloni si appresta a far varare al Parlamento la legge di bilancio è particolarmente morbosa nei confronti dei temi che riguardano la fiscalità e le deregolamentazioni. Si tratta di due storiche lotte della destra, fin dai tempi del primo berlusconismo, della mutazione genetica di una politica che passò dall’influenza economica al protagonismo imprenditoriale dentro i palazzi delle istituzioni, susseguente un sempre maggiore accostamento tra ruolo pubblico e privato della classe dirigente del Paese.
Due sono, almeno in questi giorni, i provvedimenti che saltano all’attenzione: il primo è il Codice degli appalti in cui la fa da padrona una “deregulation” tutt’altro che inusitata: si intende, con programmatica consapevolezza, allargare le maglie per la concessione di lavori anche importanti, tutt’altro che ascrivibili a piccoli interventi casalinghi, introducendo una nuova modalità di assegnazione delle gare e di gestione delle stesse. Si tratta del cosiddetto “appalto integrato” che, unico nel suo genere, riunisce progettisti ed esecutori nell’affidamento dei lavori.
Nessuna distinzione, nessun maggior controllo incrociato da parte dell’Autorità nazionale anti-corruzione. Una deregolamentazione: la tesi centrale che sorregge questo presunto attacco alla trafila burocratica per le costruzioni sta tutta nel “semplificazionismo“, nella capacità del governo di individuare i punti dolenti, gli intoppi in cui si incappa quando si vuole modificare un progetto o erigerne uno dalle fondamenta.
Qui vince il teorema, tutto liberista e tutto di destra, di una specie di autoregolamentazione privata da capo a piedi, senza che lo Stato metta troppo il becco nelle faccende più di prossimità dei territori; in linea con questo presupposto, anche le amministrazioni locali potranno concedere gare d’appalto che prima erano loro precluse e, in questo modo, sostiene il governo, tutto sarà ancora una volta più semplice.
Probabilmente lo sarà anche per le organizzazioni criminali. Ma questo sembra essere un discorso a latere, trascurabile, poiché vale l’assunto per cui viviamo nel Bel Paese, laddove la corruzione pare essere endemica, ancestrale, tollerata tanto da diventare un cardine della sottrazione di risorse pubbliche a tutto vantaggio di quelle di un privato sempre più difeso nella sua voracità, nel suo dinamismo quando si tratta di accaparrarsi di fondi che provengono dal sacrificio comune piuttosto che dal rischio di impresa.
Il Codice degli appalti, dunque, fiore all’occhiello del programma politico del leghismo di nuova declinazione nazionalista e conservatrice, viene proposto al Parlamento seguendo l’ispirazione liberista che esige un sempre minore controllo da parte di uno Stato “debole” nelle faccende private, mentre sempre lo stesso Stato deve essere “forte” quando si tratta di proteggere gli interessi di quelle stesse imprese e di quel mondo della finanza che sta attorno – in questo caso – all’enorme giro di affari dell’edilizia.
Non ne verrà fuori, come è ovvio, nulla di buono, perché quando si aumenta la concorrenzialità a livelli esasperati ed esasperanti, si producono inevitabilmente una serie di tentativi di fuga dalle norme, dai controlli e dalle maglie, peraltro sempre più larghe, della Legge, così da ottenere il maggior profitto con il minor costo. Che dire, in relazione proprio a questi termini, della sicurezza nei cantieri, nei tanti posti di lavoro dove si muore giorno dopo giorno proprio per la trascuratezza delle più elementari protezioni per gli operai e i manovali?
In sostanza, il nuovo Codice degli appalti sarà peggiorativo per tutti questi già logori settori in cui è sempre più difficile la sorveglianza del rispetto delle norme vigenti: il numero degli ispettori sui luoghi di lavoro è assolutamente inadeguato ad una vigilanza attiva, pronta e, quindi, dal valore altamente preventivo per evitare infortuni e morti considerate poi “accidentali“.
Il sistema nella sua interezza si trovava già in una condizione disagevole, privo di mezzi per garantire i diritti dei lavoratori; il prevedibile varo da parte della maggioranza di governo del Codice degli appalti non farà che mettere un carico di ulteriore appesantimento per una situazione ampiamente lacunosa.
Il secondo provvedimento che balza agli occhi, se si scorrono le linee guida della legge di bilancio e si confrontano le cronache parlamentari e governative, è l’intenzione di Palazzo Chigi di inserire nella manovra di bilancio una specie di “condono penale” per tutti quegli evasori fiscali che abbiano saldato il conto con lo Stato e abbiano pagato la sanzione accessoria. Nessun riferimento nel casellario giudiziario. Reato estinto. Anzi, reati estinti, perché si parla di cancellazione dell’omessa dichiarazione dei redditi, dell’omesso versamento e della “dichiarazione infedele“.
Anche qui siamo in presenza di una storica lotta della destra imprenditoriale, di quella che proviene dalla “Milano da bere“, dai salotti tanto meneghini quanto romani, da una buona borghesia che ha coltivato, in tutti questi decenni, riferimenti politici di rilievo per poter unire facilitazioni nell’esercizio e nella gestione delle proprie industrie, mediante deregolamentazioni ampiamente documentate da inchieste cartacee e televisive, a regimi di assoluta tolleranza della fuga dei capitali all’estero per sfuggire al fisco italiano.
In questo senso, il progetto neo-centrista del Terzo polo si attanaglia perfettamente alla progettualità di completa protezione delle classi agiate, del mondo padronale e dell’alta finanza che esprime esattamente queste esigenze connaturate al suo essere tale, al suo ruolo di dirigenza dell’economia nazionale nel contesto europeo.
Non stupisce, quindi, che la maggioranza governativa possa fare conto, proprio sulle misure di natura economica, di un più ampio spettro di deputati e di senatori mettendosi al riparo da qualunque tentativo di dialettica di opposizione in merito.
In questo modo si blindano praticamente i lavori parlamentari, riducendo così il dibattito ad una semplice formalità e assicurandosi in questo modo una completa linearità di vedute sia sui progetti da finanziare con il PNRR, sia sull’inserimento di quelle norme apparentemente estemporanee, proprio come quella sul “perdono fiscale” per gli evasori, che invece diventano una pietra angolare della teoria e della pratica fiscale delle destre.
La responsabilità del fu centrosinistra in tutto questo non è da poco: chi ha consentito che in questo Paese si facesse strada l’idea del privato come elemento portante dell’economia nazionale, al posto del ruolo dello Stato nei settori strategici della produzione della ricchezza collettiva, è stata proprio la voluta indulgenza di un progressismo annacquato da tesi compromissorie con un liberismo definito “gestibile” e “contenibile” nei suoi eccessi.
Si è venduta alla gente comune, al popolo propriamente detto, quello fatto dai cittadini che faticano ad arrivare alla fine del mese e altro non hanno per campare se non la propria forza-lavoro (altro che patrimoni immobiliari, bancari e finanziari…), la favoletta della condivisione delle responsabilità di un moderno progresso fondato naturalmente (nell’accezione propriamente “naturale” di questo avverbio rivolto ai caratteri specifici della società in cui sopravviviamo) su una unicità di interessi che, invece, sono diametralmente opposti.
La denuncia della morte della società divisa in classi è durata qualche decennio, ha uniformato le coscienze, ha tentato la creazione di corporativismi al posto delle difese sindacali, di consociazioni impossibili tra imprenditori e operai, tra padronato e lavoro dipendente. Oggi, sprofondata nella crisi economica globale, in una nuova fase di assestamento della geopolitica dei blocchi che si fronteggiano attraverso le guerre dimenticate (macroregionali come quelle che investono il Medio Oriente e l’Asia che si affaccia ai confini del turbolentissimo Iran), la narrazione è costretta a cambiare.
Oggi si deve prendere atto dell’esistenza di una sempre maggiore massa di sfruttati a fronte di una sempre, inversamente improporzionalissima, piccola porzione di enormi ricchissimi che dominano le sorti degli Stati attraverso influenze economiche davvero pantagrueliche.
In Italia, la congiuntura tra questa torsione iperliberista e i “miserevoli” affari dell’imprenditoria nazionale, priva di una visione di insieme, incapace di tollerare anche la minima concessione al mondo del lavoro per stabilizzare la sua condizione privilegiata e, quindi, di classe, si sono saldati nell’espressione di un conservatorismo di governo che è riuscito ad avere il consenso di una maggioranza degli elettori ridotti alla sfiducia da questo sistema e, deve essere sottolineato più e più volte, dalla delusione procurata loro dal mancato riformismo della sinistra moderata, di quel centrosinistra che ha invece fatto le vedi della destra, tante, troppe volte.
Se oggi il governo Meloni, tanto sul Codice degli appalti quanto sul “perdono fiscale” fa un salto di squalificazione ulteriore, mortificando i princìpi di uguaglianza, di incorruttibilità e di rettitudine morale che dovrebbero ispirarci tutte e tutti, allargando le maglie della Legge, consentendo ciò che invece andrebbe regolamentato con più intransigenza, con maggiore circospezione, in riferimento alla tutela degli interessi comuni, questo lo si deve anche ad un esaurimento di una cultura di governo (e di opposizione) di sinistra, diametralmente opposta a quella attuale, ma pure a quella draghiana, renziana e persino berlusconiana di tanto tempo fa…
I frutti amari si raccolgono in un momento in cui il disagio sociale si acuisce proprio negli strati di popolazione già duramente provati dalla pandemia, dall’aumento delle tariffe di gas e luce e cacciati nell’angolo di un neopauperismo inquietante. Le destre attuano un programma pluritrentennale. Lo fanno con la certezza di avere dalla loro quella parte di opposizione finta che, nel sostegno ai fondamentali del liberismo di governo, salda sé stessa alla maggioranza nel nome, paradosso dei paradossi, del bene comune, del solito, trito e ritrito, “interesse nazionale“…
MARCO SFERINI
Foto di Nishant Aneja