Il congresso ricostituente del PD, ogni giorno che passa, appare sempre più come un congresso normale, un appuntamento di routine previsto dallo statuto del partito.

L’eccezionalità dell’evento, che avrebbe dovuto sancire un rinnovamento complessivo di quell’anomalo bicefalo della politica italiana che dal 2008 in avanti ha completato il processo di desertificazione della sinistra moderata e riformista nel Paese, viene via via smorzata dalla ripetizione pari pari dei passaggi consueti per avvicendare semplicemente gli organismi dirigenti.

Se il PD avesse scelto di mettersi completamente in gioco, attraverso un capovolgimento della propria natura bipolare, maggioritaria e liberista, cambiando radicalmente il suo luogo-politico tanto nella concreta e quotidiana realtà di riferimento sociale e, ovviamente, nelle aule parlamentari e in tutte le altre istituzioni repubblicane, allora forse avrebbe avuto una speranza di essere riconsiderato da una buona parte dell’elettorato che ha trasmigrato verso i Cinquestelle come una forza di sinistra. Pur sempre moderata, ma comunque da ascrivere al contesto del progressismo.

Invece, la riproposizione delle primarie per la scelta del segretario, la ripetizione giaculatoria del non abbandono delle radici fondative e affondative del veltronismo, la lotta apparente tra posizioni che intendono comunque mantenere aperto un dialogo con il centro dello schieramento politico italiano, non aiutano a considerare il processo congressuale come un passaggio catartico, attraverso cui arrivare, maieuticamente, ad una nuova verità sulle persone, sulle cose e sui fatti.

I confronti tra le candidate e i candidati a succedere ad Enrico Letta, in piena oggettività, lasciano l’amaro in bocca a chi poteva aver pensato e sperato che, dopo il 25 settembre, dopo la sconfitta prevista ma decisamente conclamata e molto più insostenibile di quanto fosse possibile, l’appiattimento sull’”agenda Draghi” fosse non solo un capitolo chiuso.

Di più ancora, per alcuni giorni, quelli esattamente seguenti allo schock del voto, l’harakiri lettiano somigliava alla parabola discendente di quello che fino ad allora era, mutatis mutandis, divenuto il PD post-veltroniano e post-renziano: un soggetto la cui identità si era smarrita in un cambiamento senza scopo, adattandosi soltanto alle convenienze del momento, ad un corto raggio di azione tutto proteso a sostenere le politiche che tutelavano i privilegi dei ricchi e che non davano nessuna voce ai disagi strutturali del mondo del lavoro e della precarietà diffusa.

Un retaggio da affidare all’analisi futura di tutto un ciclo che ha aperto le porte ad una rivalutazione delle destre, ad un nuovo protagonismo delle stesse, apparse nuove rispetto alle trite e ritrite proposte liberiste di un centrosinistra (senza trattino in mezzo, un tuttuno indistinguibile tra ex socialdemocratici ed (ex) popolari) prima e di una “unità nazionale” poi tutta lacrime e sangue per i ceti meno abbienti.

Tutto questo, per alcune settimane, è apparso il contesto in cui il dibattito interno – e pure limitrofo – al PD si stava positivamente avvitando, facendo trasparire una certa irreversibilità di un cambiamento deciso prima di tutto dall’elettorato e dal popolo democratico che ancora voleva, in un certo qual modo, dare un segnale di sinistra ad una forza politica che si stava preparando nuovamente al ruolo di principale opposizione parlamentare.

Ma, indubbiamente, molto poco tale nella vita sociale, nel rapporto diretto con i sindacati e con quelle realtà di base e della cultura italiana che reclamavano un ritorno di una sinistra moderata al posto dell’esaurimento sclerotizzante del centro-sinistra.

Nel momento in cui il gruppo dirigente del PD ha assimilato il contraccolpo del voto, nonostante i sondaggi continuassero (e continuino) ad assegnare ai Cinquestelle quel ruolo di forza politica più progressista dei democratici e, quindi, in netta risalita tanto da superarli in percentuale, la decisione presa è stata quella di tenere un congresso tutt’altro che costituente.

Non è stata fatta nessuna tabula rasa, non si è proceduto ad alcuna critica a centottanta gradi, non si è capovolto nulla e niente di veramente innovativo c’è anche ad un timido orizzonte di media portata.

Il cantiere politico-programmatico aperto da Elly Schlein ha dato adito a pensare che, forse, una possibilità di mettere da parte il dialogo col centro c’era; visto soprattutto il centro di oggi che candidata Letizia Moratti alla presidenza della Regione Lombardia, che approva molte misure della maggioranza di governo in merito a politiche economiche che andranno a pesare sui più deboli e sui comparti sociali già pesantemente tagliati in questi anni.

Ma, se l’entusiasmo fa parte di una autodifesa endemica, che si mette in moto per superare le tante delusioni ricevute nel corso delle tornate elettorali e, in particolare, nelle legislature variegate che ne vengono fuori, e magari pure è il frutto di un passione politica che cova sotto la cenere dell’incedente rassegnazione, nel momento in cui ascolti i primi confronti tra i candidati alla segretria nazionale del PD, ti rendi conto che quel partito non sarà altro da sé stesso, non si innoverà al punto dall’anche solo sembrare di sinistra, ma rimarrà duale, duplice e sincretico nel mantenersi nel solco di un centrosinistra impossibile.

Se Stefano Bonaccini trasale e si sdegna al pensiero che la lotta tra capitale e lavoro sia il fulcro della nuova identità politica dei democratici, escludendo in partenza qualunque riferimento al classismo, alla contrapposizione tra impresa e maestranze, tra privato e pubblico, tra proprietà privata e ricchezza da un lato e forza-lavoro e povertà dall’altro, Elly Schlein cerca una mediazione circumnavigatrice tra le diverse anime del partito: parla di un capitalismo che non funziona più e che, per questo, deve essere corretto, rimisurato e aggiustato, accomodato come se fosse un giocatollo rotto.

Solo Andrea Orlando osa parlare di superamento del liberismo e non riceve grandi attenzioni al riguardo. Intendersi su questo concetto, tradotto in programma politico e in nuova identità del partito, vorrebbe dire davvero mettere in discussione il PD stesso e ripensarlo come forza di sinistra socialdemocratica, magari capace di dialogare con quella sinistra di alternativa e con quei Cinquestelle che oggi sono, nella percezione popolare, il punto di appoggio di quel riformismo di sinistra che non hanno mai pensato di interpretare.

L’utilità di occupare uno spazio lasciato vuoto, uno spazio progressista che rispondeva e risponde alle esigenze dei lavoratori e dei precari, degli studenti e dei pensionati in termini di valorizzazione di una rete di bisogni che riproponesse lo schema di un nuovo stato-sociale, ha giocato a favore del recupero elettorale dei pentastellati, offrendo a Conte una insperata ancora di salvezza: dopo il governo giallo-verde e le tante altre mutazioni del M5S, l’ultima cui stiamo assistendo è forse quella più accettabile e dignitosa.

Ma, almeno nel breve periodo, la stagnazione sembra vincere sull’evoluzione e sul dinamismo: quanto possa reggere una nuova stagione alleantista tra democratici e contiani è una predizione impossibile da fare; soprattutto se la si vincola – come è giusto ed evidente che sia – ai prossimi appuntamenti elettorali regionali. Essenzialmente Lombardia e Lazio saranno i banchi di prova di due modelli differenti, di due impostazioni di gestione che non differiscono molto dal passato dei due partiti che si alleano o si separano a seconda dei casi.

Non c’è una lampante soluzione di continuità rispetto a ciò che abbiamo già visto e rivisto. E questo perché i gruppi dirigenti non cambieranno granché, soprattutto con congressi che opereranno delle sostituzioni ma che non rovesceranno i termini concreti dei problemi su cui la crisi del fu centro-sinistra si è incistata a dovere da molto più termpo rispetto all’ultimo anno, ancora prima dell’esperimento draghiano alla guida del Paese.

Se dopo l’”agenda Draghi“, il PD avesse deciso di farla finita col liberismo, abbracciando un rinnovamento a tutto tondo in chiave sociale, certamente avremmo tutti potuto augurarci di ritrovare in Italia quella dialettica tra riformisti e anticapitalisti che anche altrove esiste: in Spagna, in Francia, in Germania e persino nel Regno Unito dentro al grande calderone del Labour.

Ma se, dopo Letta e dopo Draghi, nonostante il governo delle destre, i democratici insistono sull’essere il punto attorno a cui deve prendere forma un nuovo asse liberale e liberista, escludendo qualunque sostegno univoco al mondo del lavoro, privilegiando piuttosto il rapporto con le imprese, viste da Bonaccini e da Schlein come il solo motore della ricchezza nazionale, è evidente che l’idea stessa di “fronte progressista” esclude il PD nel prossimo futuro.

L’attrazione gravitazionale che, comunque, ancora esercita sui Cinquestelle e sulla sinistra moderata ed ecologista, lascia atomizzato questo campo politico e organizzativo. Lascia soggetti come Unione Popolare fuori dal perimetro, perché senza un progetto che sia naturalmente (nel senso più letterale del termine) contro questo sistema economico, che quanto meno sia fortemente critico nei confronti dei suoi eccessi, è difficile immaginare una controproposta sociale espressa in un programma chiaro di alternativa alle destre che oggi disgregano il Paese e lo sgovernano.

In sintesi: il PD non è mai stato un partito di classe, nemmeno timidamente riformista. E’ stato (forse ancora sarà) una delle tre destre di questa Italia malandata. Quella che ha messo insieme valori civili di sinistra e disvalori antisociali sul terreno dell’intervento economico nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori. I Cinquestelle, l’altra destra, sono passati dall’essere un partito populista a forza popolare. Ma la fiducia in questa conversione rimane ancora presunta e tutt’altro che scontata.

E quindi, mentre questa stagnazione politica procede pari pari a quella propriamente detta dai grandi studiosi di macroeconomia, non ci resta che versare qualche lacrima e poi rimettersi – come osservava Gramsci – tranquillamente al lavoro per dare all’Italia una nuova sinistra degna veramente di questo nome.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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