Davide Sali 

Quella che – con intuito geniale – Adorno e Horkheimer hanno chiamato l’«industria culturale» ha subito oggi, a quasi ottant’anni dalla Dialettica dell’illuminismo, un’inflazione spaventosa su tutti i fronti: diffusione, investimenti, promozione… Sembra davvero che per una considerazione attenta di cosa siano diventate le società occidentali non ci si possa esimere dal confrontarsi con questo fenomeno. Lo vediamo nella nostra quotidianità: alla diffusione dei media tradizionali di intrattenimento (radio, cinema e televisione), si è fatta avanti un’ancora più decisa diffusione pervasiva di nuovi mezzi: dai social networks alle piattaforme streaming, da Spotify al Metaverso. Eppure, già ai tempi dei due francofortesi sembrava che non ci fossero più spazi in cui potesse insinuarsi l’intrattenimento divertito, ma per qualche motivo la direzione è stata quella di investire sempre di più in questo settore e innovarlo al massimo grado, tanto che siamo ormai arrivati alla situazione che si può tranquillamente passare tutta la giornata in perenne compagnia di questi mezzi e stordirsi tramite i loro contenuti. È vitale, dunque, chiedersi: quali sono questi motivi? Perché le società del tardocapitalismo hanno questo bisogno esagerato di investire tempo e denaro a sviluppare questa industria, quando potrebbero direzionare gli investimenti altrove, verso quelli che, in altri tempi, sarebbero stati considerati gli ambiti più adatti per lo sviluppo?

Prima di rispondere a questa domanda, conviene anticipare un’obiezione. Si potrebbe dire infatti che questo non è che un discorso capzioso e reazionario, una riedizione dei bei tempi andati, del «si stava meglio quando si stava peggio». Ebbene, è convinzione di chi scrive che la storia non fa passi indietro, che non si ripresenta mai due volte o, al massimo, che si ripresenta come farsa – come ebbe a dire un signore barbuto di Treviri. Pertanto, la prospettiva che vogliamo proporre rifiuta la santificazione dei vecchi tempi e invita a osservare ogni tempo sulla base delle sue proprie problematiche. I problemi di ieri non sono quelli di oggi e non si risolve l’oggi appellandosi al ieri.

Per queste ragioni, si può riformulare la domanda precedente in questi termini: cosa si agita nelle masse affinché ci sia così tanta richiesta di intrattenimento? È chiaro che porre la questione in modo siffatto ha rigirato le carte: non si tratta di chiedersi cosa fa il Potere quando spinge nella direzione dell’intrattenimento pervasivo, ma a quale esigenza delle masse risponde questa azione del Potere. Non che rivolgersi direttamente al Potere non sia una prospettiva valida, è anzi altamente proficua; tuttavia, presenta dei limiti e precisamente nei termini seguenti. Si rischia – battendo questa via – di incorrere in una doppia spirale complottista e disperata: infatti, può sembrare che il Potere sia un soggetto dotato di intenzioni e di un piano preciso per soggiogare le masse. Al contrario, pensare in termini di Potere è pensare in termini sistemici, cioè cercare di guadagnare uno sguardo generale in cui ad agire non è un soggetto, ma una ragione storica, con la sua genealogia e il suo sviluppo. Inoltre – e veniamo al secondo punto – se si pensa l’azione del Potere come unilaterale, le prospettive di lotta e di opposizione sono davvero scarse, se non nulle: la disperazione è l’approdo più logico di una tale impostazione. Chi voglia seguire questa direzione deve, pertanto, tenersi al riparo da questa doppia deriva; fatto questo, non si può che incoraggiare chi voglia dedicarvisi.

Invece, porsi dal punto di vista delle masse significa, appunto, cercare di vedere quali esigenze si muovono, a quali desideri e problemi il Potere cerca di mettere una toppa. È infatti proprio questo l’essenziale da capire: la risposta del Potere è sempre provvisoria: non certo in senso temporale, dato che l’intrattenimento è roba vecchia, ma nel senso che è atta a silenziare i problemi, a evitare che esplodano per tenerli sotto la soglia minima affinché il business as usual possa proseguire. E anzi, più subdolamente, il Potere tende a fare di questa opposizione la sua forza, a integrare costantemente le novità che accadono nel mondo della vita per farne nuove opportunità d’affari. La flessibilità del capitalismo è esattamente ciò che lo rende così difficile da scalzare: ogni richiesta che viene dal basso viene subito letta e decodificata secondo i criteri del mercato. Per questo motivo, ad esempio, si possono tranquillamente produrre delle magliette con l’effigie del Che tramite manodopera minorile e sfruttata.

Tutto ciò, però, non significa che l’esigenza di partenza non sia espressione di un vero disagio. È noto, infatti, che la società neoliberale scarica sui lavoratori tutta una serie di condizioni per lo più ignote alle forme di vita dei secoli precedenti: in particolare, se non si tratta più di fare turni in fabbrica da 13 ore al giorno (non che non ci sia ancora parecchia gente che soffra questa condizione), si tratta invece di aver a che fare con mobilità e flessibilità tali da impedire una progettualità di lungo periodo per la propria vita, si tratta di sottostare a pressioni competitive inedite che conducono alla lotta di tutti contro tutti sul luogo di lavoro, si tratta di dedicarsi a lavori – i cosiddetti bullshit jobs – che non hanno nessuno senso (si pensi agli operatori dei call center, ad esempio), si tratta infine di avere la consapevolezza di aver a che fare con un ingranaggio molto più grande di sé, davanti al quale l’alternativa è adattarsi o morire.

La condizione dei lavoratori è, in definitiva, massimamente alienata. Caratteristica tipica di questa condizione è una scissione sempre più evidente tra l’individuo e il mondo che abita. L’individuo è estraniato dal mondo: esso non gli appartiene ed egli non ci si ritrova. L’insicurezza lavorativa dovuta alla flessibilità, la solitudine generata dalla spinta competitiva producono un tipo d’individuo rinchiuso nella propria privatezza e incapace di agire, perché l’incommensurabilità tra mondo interiore e mondo esterno è ormai abissale. Tutto ciò ricorda un personaggio di Paolo Villaggio: Fracchia. Fracchia è esattamente il puro nevrotico che passa il tempo a rimuginare, a pensare come agire in certe situazioni e, quando queste si presentano, è incapace di agire, cambia tono della voce e, infine, soccombe. In definitiva, l’ipertrofia della coscienza fa da contraltare alla pochezza delle manifestazioni esteriori. Si deve però tener presente che questa condizione alienata non fa riferimento ad una qualche essenza tradita che sarebbe da reintegrare, un’autenticità perduta da riconquistare. L’uomo è da sempre colui che si adatta alle situazioni, il senza-forma per eccellenza. Sono due, quindi, le prospettive da evitare: la prima è quella dell’autenticità perduta, la seconda quella dell’assenza di forma radicale. Quest’ultima ritiene infatti che non sia dia proprio il problema: se l’uomo è flessibile e si adatta, non possono esistere condizioni alienanti, ogni condizione è condizione umana a pieno titolo. Contro questa prospettiva, si deve mostrare che la vita, di fatto, in questa condizione, soffre e cerca delle vie d’uscita. In altri termini, ciò che bisogna fare è proprio vedere e mostrare quali esigenze nascono senza pensare né che sia possibile determinarle a priori né che non ve ne siano.

L’esigenza che si muove è quella di accedere a una vita generativa in senso proprio: una vita cioè che abbia il controllo su di sé e sui suoi prodotti, che veda i propri sforzi realizzati, che riprenda una misura comune tra sé e il mondo. Se non ci fosse questa esigenza, non ci sarebbe neanche l’industria dell’intrattenimento. Il Potere, quindi, mette in campo degli accorgimenti per tenere a bada questa esigenza. Uno è appunto quello dell’intrattenimento: alla solitudine si risponde riempiendola di contenuti multimediali prodotti da quello stesso sistema che genera la solitudine. Un altro è quello degli psicofarmaci: all’ansia generalizzata si risponde con dei farmaci prodotti da quello stesso sistema che genera l’ansia. Ma c’è di più: sarebbe ingenuo pensare che le masse semplicemente non si accorgano della loro condizione e che una volta indicatagliela vorranno liberarsi. Il punto fondamentale è che questi accorgimenti del Potere soggettivizzano positivamente gli individui: essi vogliono l’intrattenimento, vogliono il divertimento consumistico, vogliono poter avere tutti i comfort della società dei consumi. È per questo motivo che ci si sente irrealizzati quando non si accede al consumo o quando non si fa carriera e, dall’altra parte, si vede di malocchio coloro che propongono, ad esempio, la riduzione dei consumi o la lotta al falso mito della meritocrazia. Siamo stati soggettivizzati in questo modo e dunque la nostra risposta immediata va nella direzione che troviamo più familiare. Ma esiste anche una risposta mediata: questa è possibile solo allorché si è capito che le risposte del Potere al disagio non sono altro che toppe provvisorie e che servono solo ad allontanare il problema senza risolverlo. Riconosciuto il problema, esso può essere allora affrontato direttamente.

Può sembrare, da tutto ciò, che per rendersi conto del problema si debba essere degli intellettuali raffinati in grado di vedere i meccanismi sociali nel loro complesso. Niente di più falso: in realtà, questo movimento mediato accade quotidianamente nella vita vissuta ogniqualvolta qualcuno si accorge che preferisce passare del tempo con gli amici, invece di sopperire alla propria solitudine tramite la fasa socialità virtuale; ogniqualvolta qualcuno si accorge che forse è meglio collaborare a un progetto – qualunque sia – che coinvolge i desideri di chi vi partecipa, invece di battere la via della competizione individualistica; ogniqualvolta qualcuno si accorge che può accedere a forme di riconoscimento diverse da quelle a cui si accede tramite l’esibizione del consumo.

In conclusione, non è la nostalgia per qualche fantomatica genuinità che permette di lottare contro il Potere, ma l’ascolto per le esigenze nuove dei nuovi individui. La necessità di condurre una vita generativa, in grado di impattare sul mondo, non può più passare per le vie battute in passato: essa deve trovare forme nuove all’altezza di ciò che gli individui sono diventati, di come hanno risposto – immediatamente o mediatamente – alle sollecitazioni del Potere

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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