Occupabili, inoccupabili, lavoratori indebitati e working poor, tratti del capitalismo italiano alla fine del 2023.

 di Federico Giusti  

Ogni discussione sul Reddito di cittadinanza dovrebbe partire da due presupposti: la miseria riguarda da anni le famiglie italiane e immigrate; possedere un lavoro stabile non significa emergere da una condizione di povertà.

In termini inglesi la definizione è quella di working poor, in continua ascesa negli ultimi 20 anni. La miseria non riguarda solo l’esercito industriale di riserva o le fasce sociali emarginate costituite dai non occupabili; la povertà riguarda anche chi ha un lavoro mal pagato, precario, un affitto oneroso e un reddito complessivo familiare insufficiente. Se poi vogliamo utilizzare termini aulici potremmo parlare di moderne forme di sfruttamento, di un mercato del lavoro tanto caotico quanto iniquo, dei divari territoriali, di genere o addentrarci in qualche analisi sociologica.

La letteratura è sterminata. Basterebbe solo scorrerla per comprendere che la emersione dalla povertà è possibile percorrendo una semplice strada: quella del reddito minimo e abolendo la giungla dei contratti individuali e collettivi al ribasso, le molteplici forme di precarietà che hanno creato salari da fame e una forza lavoro super sfruttabile dentro le dinamiche degli appalti e dei subappalti.

Questo sistema, che è ormai struttura portante del capitalismo italiano, è noto anche a chi oggi discerne tra occupabili e inoccupabili o pensa sia sufficiente un semplice contratto per emergere dall’indigenza e dalla precarietà esistenziale.

I working poor sono passati dal 10,3 per cento del 2006 al 13,2 del 2017, nell’arco del decennio che va dal 2006 al 2019, ben più della media europea e parliamo di statistiche antecedenti al Covid che ha gettato in miseria anche parte di quello che un tempo potevamo definire ceto medio, lavoratori dipendenti, piccole partite Iva (perché, come scrive anche Stefano Fassina l’equiparazione di autonomo ed evasore non regge se non dentro una narrazione moralistica e un po’ sempliciotta delle trasformazioni del mondo lavorativo).

Precarietà, salari bassi, occupazioni saltuarie e discontinue sono alla base del lavoratore povero che un domani sarà anche un pensionato povero avendo pochi contributi in virtù di quella discontinuità che ha impedito una base contributiva stabile. Poi se pensiamo al sistema di calcolo delle pensioni (il contributivo) dobbiamo anche riflettere sulla perdita del potere di acquisto previdenziale con assegni inferiori del 30%, pur a parità di versamenti all’Inps, rispetto al vecchio retributivo.

La condizione di miseria è ormai un tratto dirimente che caratterizza i lavoratori meno formati e con bassa scolarizzazione, ma non possiamo limitare solo a loro questa condizione. Basta guardare a quanti laureati oggi vengono pagati poche centinaia di euro al mese attraverso partite Iva farlocche.

Se il lavoratore indebitato era tratto dominante di quella spinta al consumo antecedente la crisi del 2008, oggi il lavoratore indebitato è una costante di un mercato del lavoro costruito sui bassi salari, sul dumping salariale, sugli appalti al ribasso.

E qualsiasi ripresa della conflittualità nel nostro paese non può prescindere da questi dati ponendosi una sola domanda: come è possibile riorganizzare la forza lavoro per riconquistare potere di acquisto e condizioni di vita dignitose?

Nelle prossime settimane proveremo a fornire qualche risposta partendo dalle esperienze concrete, di vita, lavoro e precarietà oggi dominanti

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/la-povert%c3%a0-che-attanaglia-il-lavoro

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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